26 febbraio 2018

Rigoletto (11) - "Cortigiani, vil razza dannata"

Scritto da Christian



Rigoletto si presenta a Palazzo Ducale in cerca della figlia, rapita la notte prima dai cortigiani. Inizialmente finge indifferenza, mascherandosi dietro un canticchiare beffardo e svagato ("La rà, la rà, la rà...") e mostrandosi sprezzante, come sempre, nei confronti dei suoi nemici (che ricambiano con acida ironia: "Povero Rigoletto!"). E nel frattempo osserva inquieto, con sospetto e attenzione, ogni dettaglio della stanza e delle loro facce, in cerca di un qualsiasi indizio. Quando un paggio della Duchessa giunge a chiedere informazioni sul Duca, e i cortigiani gli rispondono in maniera evasiva ("Dorme", "È a caccia", "E non capisci che per ora vedere non può alcuno?"), Rigoletto comprende infine che in quel momento il nobile si trova proprio in compagnia di Gilda. Non riuscendo più a trattenersi, rivela finalmente che la ragazza è sua figlia, e non una generica amante come avevano creduto tutti fino ad allora.

Per un momento Rigoletto abbandona il ruolo del buffone irridente, mette da parte le frecciatine e le cose dette fra le righe, e prorompe in un impetuoso scatto d'ira, esprimendo senza mezzi termini tutto il suo disprezzo: "Cortigiani, vil razza dannata...", accusandoli di aver rapito la figlia e di averla consegnata al Duca solo per denaro ("A voi nulla per l’oro sconviene"), mancando però il punto (i cortigiani non hanno agito per soldi, ma per vendetta nei confronti del gobbo). Poi li minaccia ("Nulla in terra più l’uomo paventa, / se dei figli difende l’onor"), forse senza rendersi conto di trovarsi nella stessa posizione di quel Monterone che lui stesso aveva sbeffeggiato la sera prima. Non ottenendo però alcuna reazione da loro, che anzi gli impediscono l'accesso alle stanze del Duca, il suo atteggiamento cambia ancora e si fa pietoso, al punto da mostrarsi vulnerabile, perdendo l'orgoglio e la dignità che lo caratterizzavano, e finendo a implorarli in ginocchio ("Miei signori, perdono, pietate!").

È una scena potente, giustamente fra le più celebri dell'opera, dove il protagonista mette in mostra un ventaglio tale di emozioni (il sospetto, l'ironia beffarda, il malcelato disprezzo, l'ira esplicita, l'umiliazione, l'implorazione) che ne sintetizza in pochi minuti tutta la complessità, giustificando le parole di Verdi quando lo descriveva come “un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche". E se finora avevamo già visto tracce di alcuni di questi aspetti (il canzonatore, l'irato, il calcolatore), appare qui per la prima volta il suo lato più vulnerabile e disperato, quello che lo spinge addirittura a implorare pietà dai suoi nemici.

La parte del protagonista, nel Rigoletto, resta la più grande mai scritta per un baritono spinto, tale da esigere ogni cambio di registro emotivo di cui la voce è capace.
(Julian Budden)
Anche su "Miei signori" ci sarebbe da discutere, perché qui la dolcezza commossa potrebbe con pari verosimiglianza cedere il passo a una supplica farisaica, dove il personaggio resta crudele pure nella disperazione. Certo: un Rigoletto a ciglio asciutto quando canta "Ebben, piango" rischia di peccare d’insensibilità. Ma la cosa può assumere una straordinaria verità interpretativa se si pensa che nell’unico momento in cui è davvero se stesso – ancora "Pari siamo" – ammette con amarezza che "il retaggio d’ogn’uom m’è tolto… il pianto!...".
(Paolo Patrizi)

Clicca qui per il testo di "Povero Rigoletto!".

(Rigoletto entra cantarellando con represso dolore.)

MARULLO
Povero Rigoletto!

RIGOLETTO
La rà, la rà, la rà, ecc.

CORO
Ei vien... Silenzio.

RIGOLETTO
La rà, la rà, la rà, la rà, ecc.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Oh, buon giorno, Rigoletto.

RIGOLETTO (da sé)
Han tutti fatto il colpo!

CEPRANO
Ch’hai di nuovo, buffon?

RIGOLETTO
Ch’hai di nuovo, buffon?
Che dell’usato
più noioso voi siete.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Ah! ah! ah!

RIGOLETTO
La rà, la rà, la rà, ecc.
(spiando inquieto dovunque, da sé)
Ove l’avran nascosta?...

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (fra loro)
Guardate com’è inquieto!

RIGOLETTO
La rà, la rà, la rà, ecc.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Sì! Guardate com’è inquieto!

RIGOLETTO (a Marullo)
Son felice
che nulla a voi nuocesse
l’aria di questa notte...

MARULLO
Questa notte!

RIGOLETTO
Sì... Ah, fu il bel colpo!

MARULLO
S’ho dormito sempre!

RIGOLETTO
Ah, voi dormiste! Avrò dunque sognato!
La rà, la rà, la rà, ecc.
(S’allontana e vedendo un fazzoletto sopra una tavola ne osserva inquieto la cifra.)

CORO (fra loro)
Ve’ come tutto osserva!

RIGOLETTO
(gettandolo; fra sé)
Non è il suo.
(forte)
Dorme il Duca tuttor?

CORO
Sì, dorme ancora.

(Comparisce un paggio della Duchessa.)

PAGGIO
Al suo sposo parlar vuol la Duchessa.

CEPRANO
Dorme.

PAGGIO
Qui or or con voi non era?

BORSA
È a caccia.

PAGGIO
Senza paggi! senz’armi!

TUTTI
E non capisci
che per ora vedere non può alcuno?

RIGOLETTO
(che a parte è stato attentissimo al dialogo, balzando improvviso tra loro prorompe:)
Ah, ell’è qui dunque! Ell’è col Duca!

TUTTI
Chi?

RIGOLETTO
La giovin che stanotte
al mio tetto rapiste.
Ma la saprò riprender.
Ella è là!

TUTTI
Se l’amante perdesti,
la ricerca altrove.

RIGOLETTO
Io vo’ mia figlia!

TUTTI
La sua figlia!

RIGOLETTO
Sì, la mia figlia! d’una tal vittoria,
che? adesso non ridete?
Ella è là... La vogl’io... La renderete.

(Corre verso la porta di mezzo, ma i cortigiani gli attraversano il passaggio.)

Clicca qui per il testo di "Cortigiani, vil razza dannata".

RIGOLETTO
Cortigiani, vil razza dannata,
per qual prezzo vendeste il mio bene?
A voi nulla per l’oro sconviene,
ma mia figlia è impagabil tesor.
La rendete... O, se pur disarmata,
questa man per voi fora cruenta;
nulla in terra più l’uomo paventa,
se dei figli difende l’onor.
Quella porta, assassini, m’aprite!
(Si getta ancor sulla porta che gli è nuovamente contesa dai gentiluomini; lotta alquanto, poi ritorna spossato.)
La porta, la porta, assassini, m’aprite.
Ah! Voi tutti a me contro venite!
Tutti contro me!
(piange)
Ah! Ebben, piango. Marullo, signore,
tu ch’hai l’alma gentil come il core,
dimmi tu dove l’hanno nascosta?
Marullo, signore, dimmi tu dove l’hanno nascosta?
È là... Non è vero?... È là?...
Non è vero?... È là?... Non è vero?
Tu taci!... Ohimè!
Miei signori, perdono, pietate!
Al vegliardo la figlia ridate!
Ridonarla a voi nulla ora costa,
tutto al mondo tal figlia è per me.
Pietà, signori, pietà!




Ingvar Wixell (Rigoletto),
Bernd Weikl (Marullo), Roland Bracht (Ceprano), Rémy Corazza (Borsa)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto),
Silvestro Sammaritano (Marullo), Antonio de Gobbi (Ceprano), Ernesto Gavazzi (Borsa)
dir: Riccardo Muti (1994)


Tito Gobbi (1956)


Ettore Bastianini (1960)


Giorgio Zancanaro (1988)

Leo Nucci (2010)

23 febbraio 2018

Rigoletto (10) - "Parmi veder le lagrime"

Scritto da Christian

Il secondo atto si svolge nelle sale del Palazzo Ducale di Mantova. Il Duca, dopo aver scoperto che Gilda è stata rapita (il libretto ci spiega come, colto da un "presagio interno", fosse tornato brevemente sui suoi passi fino alla casa di Rigoletto, solo per trovare "l'uscio schiuso" e "la magion deserta"), piomba in uno stato d'ansia e infelicità. Per la prima e unica volta, nello spazio di un'aria ("Parmi veder le lagrime"), il fatuo dongiovanni veste i panni del sincero innamorato, quasi "uno strappo alla vera natura del ruolo", finendo per assomigliare ai tenori amorosi di tante altre opere. Questa momentanea trasformazione è dovuta proprio all'influsso della purezza di Gilda, come lui stesso riconosce ("Colei sì pura, al cui modesto sguardo / quasi spinto a virtù talor mi credo!"): naturalmente, è quel "quasi" a fare la differenza, Se il brano ci appare come il più convenzionale dell'intera opera, non appena i cortigiani giungono a comunicargli di aver portato nel palazzo la supposta "amante" di Rigoletto e il Duca si rende conto che si tratta proprio della sua Gilda, la sua personalità ritorna quella di prima e non ha altro pensiero che approfittare dell'occasione che gli è stata fornita dai suoi scherani su un piatto d'argento. La nuova situazione gli consente di non dover nemmeno più proseguire nella finzione (ovvero farsi passare per il "povero studente" Gualdier Maldè): Gilda è già nelle sue stanze, a sua disposizione. La cabaletta che segue, a volte tagliata dalle rappresentazioni ("Possente amor mi chiama"), segna un ritorno al Duca che conoscevamo, subito pronto a soddisfare le proprie passioni in maniera del tutto egoista.

A causa dei divieti della censura, Verdi e Piave scelsero di omettere una scena alquanto esplicita che era invece presente nel dramma originale di Victor Hugo, quando Bianca (il personaggio che loro rinominarono in Gilda), trovandosi faccia a faccia con il re Francesco, si rifugia nella sua camera da letto, chiudendo la porta a chiave. Ma il re, ridendo, estrae di tasca una chiave, apre la porta ed entra nella stanza. Nell'opera non assistiamo invece all'incontro fra Gilda e il Duca, né a quello che segue.

Il taglio della scena con la chiave significava a questo punto un distacco sostanziale dalla tragedia di Hugo. “Converrà per noi trovare qualche cosa di meglio”, aveva detto Verdi, ma il meglio che assieme a Piave potè escogitare fu una scena assai convenzionale e una doppia aria. Nella tragedia il re partecipa di persona al rapimento di Blanche; nell’opera il ratto avviene all’insaputa del Duca e di qui la sua disperazione. Essa gli è stata tolta! Lei, l’unica persona al mondo che avrebbe potuto ispirargli un amore duraturo. L’andante (“Parmi veder le lacrime”) basato su due strofe di sei versi ciascuna invece delle solite quartine, è una bellissima pagine in cui lo schema belliniano (a1 a2 b a2 e coda) è trattato con ampiezza e flessuosità nuove. È inevitabile chiedersi perché un pezzo di così splendida poesia musicale sia stato concesso al Duca; non urta con tutto ciò che sappiamo del suo carattere? Niente affatto: psicologicamente è perfettamente adatto, purché pendiamo al Duca come a un essere umano e non a un mostro. Per il bambino ricco e viziato c’è sempre un balocco più bello nella vetrina del negozio e il pesce più grosso è sempre quello che ha preso il largo. Per il seduttore incallito, la donna desiderata invano a causa di un ostacolo è proprio quella con cui avrebbe potuto felicemente dividere il resto dei suoi giorni: non si tratta tanto di una sentimento insincero, quanto di un’autoillusione. È ancora Mozart che, in "Così fan tutte", dimostrò come i personaggi che ingannano se stessi richiedano un’espressione musicale altrettanto sentita e partecipe di quella attribuita alle figure nobili, pure e consapevoli. L’impegno sentimentale del Duca è abbastanza genuino, ma è passeggero. Nel momento in cui viene a sapere che Gilda è in trappola ecco che si trasforma da poeta in pavone. Dopo la sua cadenza finale, entrano gongolando i cortigiani a rievocare all’unisono l’avventura della notte precedente (“Scorrendo uniti remota via”). Una delle ragioni per cui le loro parole risultano più incomprensibili del solito è la natura della melodia, della vita ritmica affatto autonoma; perfetta però per denotare la giocondità crudele dei cortigiani, dei quali si potrebbe dire, come per le streghe del "Macbeth", che hanno un ruolo di primo piano nel cast. Il brano si conclude su una mezza cadenza alla dominante che serve ad introdurre la cabaletta del Duca (“Possente amor mi chiama”), spesso tagliata nelle rappresentazioni. Certo, come pezzo musicale non è granché, orchestrato in uno stile che si discosta poco dal Verdi giovane; inoltre una cabaletta “in parentesi” alla vecchia maniera, cantata proprio quando il personaggio dovrebbe uscir di scena. Tuttavia la sua omissione produce uno stridente anacoluto armonico, con la cadenza alla dominante di re maggiore lasciata irrisolta, e poi la cabaletta è necessaria per ristabilire l’equilibrio formale e psicologico della scena e per chiarire in termini musicali che tipo d’uomo sia davvero il Duca.
(Julian Budden)

Clicca qui per il testo di "Ella mi fu rapita!... Parmi veder le lagrime".

Salotto nel palazzo ducale. (Vi sono due porte laterali, una maggiore nel fondo che si chiude. Ai suoi lati pendono i ritratti, in tutta figura, a sinistra del Duca, a destra della sua sposa. V’ha un seggiolone presso una tavola coperta di velluto e altri mobili.)

DUCA (entrando, agitato)
Ella mi fu rapita!
E quando, o ciel?... Ne’ brevi
istanti, prima che il mio presagio interno
sull’orma corsa ancora mi spingesse!
Schiuso era l’uscio! E la magion deserta!
E dove ora sarà quell’angiol caro?
Colei che prima potè in questo core
destar la fiamma di costanti affetti?
Colei sì pura, al cui modesto sguardo
quasi spinto a virtù talor mi credo!
Ella mi fu rapita!
E chi l’ardiva?... Ma ne avrò vendetta.
Lo chiede il pianto della mia diletta.

Parmi veder le lagrime
scorrenti da quel ciglio,
quando fra il dubbio e l’ansia
del subito periglio,
dell’amor nostro memore
il suo Gualtier chiamò.
Ned ei potea soccorrerti,
cara fanciulla amata;
ei che vorria coll’anima
farti quaggiù beata;
ei che le sfere agli angeli
per te non invidiò.

Clicca qui per il testo di "Duca! Duca!... Scorrendo uniti remota via".

(Marullo, Ceprano, Borsa ed altri cortigiani entrano dal mezzo.)

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Duca, Duca!

DUCA
Ebben?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
L’amante
fu rapita a Rigoletto.

DUCA
Come? E d’onde?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Dal suo tetto.

DUCA
Ah! Ah! dite, come fu?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Scorrendo uniti remota via,
brev’ora dopo caduto il dì,
come previsto ben s’era in pria,
rara beltà ci si scoprì.
Era l’amante di Rigoletto,
che vista appena si dileguò.
Già di rapirla s’avea il progetto,
quando il buffone ver noi spuntò;
che di Ceprano noi la contessa
rapir volessimo, stolto, credè;
la scala, quindi, all’uopo messa,
bendato ei stesso ferma tenè.
La scala, quindi, ecc.
Salimmo, e rapidi la giovinetta
a noi riusciva quindi asportar.

DUCA (da sé)
Cielo!

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Quand’ei s’accorse della vendetta
restò scornato ad imprecar.

DUCA (da sé)
È dessa, la mia diletta!
(forte)
Ma dove or trovasi la poveretta?

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Fu da noi stessi addotta or qui.

DUCA (da sé)
Ah, tutto il ciel non mi rapì!

Clicca qui per il testo di "Possente amor mi chiama".

DUCA (alzandosi con gioia)
Possente amor mi chiama,
volar io deggio a lei;
il serto mio darei
per consolar quel cor.
Ah! sappia alfin chi l’ama,
conosca alfin chi sono,
apprenda ch’anco in trono
ha degli schiavi amor.
(esce frettoloso dal mezzo)

TUTTI
(Quale pensiero or l’agita,
come cangiò d’umor!)




Luciano Pavarotti (Duca di Mantova)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Roberto Alagna (Duca di Mantova)
dir: Riccardo Muti (1994)


"Ella mi fu rapita!... Parmi veder le lagrime"
Mario del Monaco (1954)


"Ella mi fu rapita!... Parmi veder le lagrime"
Giuseppe di Stefano (1950)


"Ella mi fu rapita!... Parmi veder le lagrime"
Nicolai Gedda (1967)


"Ella mi fu rapita!... Parmi veder le lagrime"
Alfredo Kraus (1987)


"Possente amor mi chiama"
Mario del Monaco (1954)

"Possente amor mi chiama"
Alfredo Kraus (1963)

20 febbraio 2018

Rigoletto (9) - Il rapimento

Scritto da Christian

Mentre torna di nuovo a casa, Rigoletto si imbatte nei cortigiani che, mascherati, si sono appostati sotto il suo balcone. Inizialmente è turbato dalla loro presenza, ma questi lo ingannano, lasciandogli credere di essere lì perché in procinto di rapire per burla la moglie del Conte di Ceprano (che invece fa parte proprio del gruppo), che per coincidenza abita nel palazzo vicino. Sollevato, Rigoletto si offre di partecipare all'impresa, ignorando che a essere rapita sarà invece sua figlia Gilda. Approfittando dell'oscurità della notte e fingendo di mascherarlo a sua volta, i cortigiani bendano il gobbo e gli chiedono di reggere la scala con la quale raggiungono facilmente la terrazza della casa. "La benda cieco e sordo il fa", commenta Marullo (potenza della finzione scenica: cieco va bene, ma pure sordo?). In effetti Rigoletto non ode né il coro sbeffeggiante dei cospiratori ("Zitti, zitti, moviamo a vendetta") né le grida di soccorso di Gilda mentre questa viene portata via. Quando si rende conto dell'accaduto e di essere stato beffato, è ormai troppo tardi. E naturalmente, collega subito il fatto alle parole di Monterone: "Ah! la maledizione!".

Illustrazione di Peter Malone

«Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio estremamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore», così Verdi, in una bellissima lettera a Marzari del 14 dicembre 1850, ribadì uno dei suoi principali motivi d’interesse per "Le Roi s’amuse". Ancora un’espressione diretta che fa riferimento a un’opposizione fra interno ed esterno, qui fra aspetto ed animo. Ma ad esprimere tale contrasto di cui l’opera è permeata sono coinvolti anche due oggetti di scena [il secondo sarà il sacco, nel finale]. Quando Rigoletto torna sui suoi passi, còlto da cattivi presagi, incontra i cortigiani che gli propongono di partecipare al rapimento della Contessa di Ceprano. È un inganno atroce ma, come dice a Marullo con cui s’intrattiene brevemente a dialogo, «In tanto bujo lo sguardo è nullo», e una palpata alla chiave portagli con l’intento di convincerlo è sufficiente per indurlo a partecipare a quella che crede l’ennesima beffa ai danni di un cortigiano. Abbocca perché la scusa è plausibile: durante la festa egli stesso aveva volgarmente deriso Ceprano, mentre il Duca corteggiava la sua sposa coram populi («In testa che avete / Signor di Ceprano?»), gli serve però «una larva» onde mascherarsi. In luogo di essa gli viene stretta al capo una benda che «cieco e sordo il fa» – come c’informano i cortigiani stessi. Quella benda interrompe i contatti col mondo e fa sì che il traumatico ritorno alla realtà, dove i cani s’allontanano con la loro preda, sia mille e mille volte più atroce; inoltre la cecità degli occhi rimanda a quella dell’animo (essendo la sordità meno pertinente a una benda, e qui utilizzata al fine pratico di rendere il protagonista insensibile alle invocazioni d’aiuto della figlia).
(Michele Girardi)

Clicca qui per il testo.

(Rigoletto, concentrato, entra.)

RIGOLETTO (da sé)
Riedo!... Perché?

BORSA
Silenzio. All’opra... Badate a me.

RIGOLETTO (da sé)
Ah, da quel vecchio fui maledetto!
(urta in Borsa)
Chi va là?

BORSA (ai compagni)
Tacete... C’è Rigoletto.

CEPRANO
Vittoria doppia! l’uccideremo.

BORSA
No, ché domani più rideremo.

MARULLO
Or tutto aggiusto...

RIGOLETTO
Chi parla qua?

MARULLO
Ehi, Rigoletto?... Di’?

RIGOLETTO
Chi va là?

MARULLO
Eh, non mangiarci!... Son...

RIGOLETTO
Chi?

MARULLO
Marullo.

RIGOLETTO
In tanto buio lo sguardo è nullo.

MARULLO
Qui ne condusse ridevol cosa...
Torre a Ceprano vogliam la sposa.

RIGOLETTO (da sé)
Ahimè! respiro!
(a Marullo)
Ma come entrare?

MARULLO (a Ceprano)
La vostra chiave!
(a Rigoletto)
Non dubitare.
Non dee mancarci lo stratagemma...
(Gli dà la chiave avuta da Ceprano.)
Ecco la chiave.

RIGOLETTO (palpando)
Sento il suo stemma.
(da sé)
Ah, terror vano fu dunque il mio!
(a Marullo)
N’è là il palazzo. Con voi son io.

MARULLO
Siam mascherati...

RIGOLETTO
Ch’io pur mi mascheri;
a me una larva.

MARULLO
Sì, pronta è già.
(Gli mette una maschera e nello stesso tempo lo benda con un fazzoletto, e lo pone a reggere una scala, che hanno appostata al terrazzo.)
Terrai la scala.

RIGOLETTO
Fitta è la tenebra.

MARULLO
La benda cieco e sordo il fa.

CORO
Zitti, zitti, moviamo a vendetta;
ne sia colto or che meno l’aspetta.
Derisore sì audace e costante
a sua volta schernito sarà!
Cheti, cheti, rubiamgli l’amante
e la Corte doman riderà.
Cheti, cheti, ecc.
Derisore sì audace, ecc.
Zitti, zitti, zitti, zitti,
cheti, cheti, cheti, cheti,
attenti all’opra, all’opra.
(Alcuni salgono al terrazzo, rompono la porta del primo piano, scendono, aprono ad altri che entrano dalla strada e riescono trascinando Gilda, la quale ha la bocca chiusa da un fazzoletto; nel traversare la scena ella perde una sciarpa.)

GILDA (da lontano)
Soccorso, padre mio!

CORO (da lontano)
Vittoria!

GILDA (più lontano)
Aita!

RIGOLETTO
Non han finito ancor!... Qual derisione!
(Si tocca gli occhi.)
Sono bendato!
Gilda!... Gilda!
(Si strappa impetuosamente la benda e la maschera, ed al chiarore d’una lanterna scordata riconosce la sciarpa, vede la porta aperta: entra, ne trae Giovanna spaventata; la fissa con istupore, si strappa i capelli senza poter gridare; finalmente, dopo molti sforzi, esclama:)
Ah! la maledizione!
(Sviene.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Bernd Weikl (Marullo), Roland Bracht (Ceprano),
Rémy Corazza (Borsa), Edita Gruberova (Gilda)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Silvestro Sammaritano (Marullo), Antonio de Gobbi (Ceprano),
Ernesto Gavazzi (Borsa), Andrea Rost (Gilda)
dir: Riccardo Muti (1994)


Dietrich Fischer-Dieskau (Rigoletto),
Virgilio Carbonari (Marullo)
dir: Rafael Kubelik (1964)

"Zitti, zitti, moviamo a vendetta"
Kölner Männer-Gesang-Verein
dir: Bernhard Steiner (2013)



Nel bel film "Strategia del ragno" di Bernardo Bertolucci (1970), girato proprio nei luoghi verdiani, il finale del primo atto di "Rigoletto" viene usato come sfondo di un piano per uccidere Mussolini al Teatro Regio (i cospiratori progettano di sparare nel momento esatto in cui il cantante intona "Ah! la maledizione!").


dal film "Strategia del ragno" (1970) di Bernardo Bertolucci

16 febbraio 2018

Rigoletto (8) - "Caro nome"

Scritto da Christian

Gualtier Maldè... nome di lui sì amato,
ti scolpisci nel core innamorato!
Il falso nome con cui il Duca di Mantova si è presentato a Gilda diventa per lei il simbolo stesso dell'amore. Rimasta sola, la ragazza gli dedica un canto colmo di sentimento e di dolcezza, che peraltro preannuncia quello che sarà il suo destino ("e fin l’ultimo mio sospir, caro nome, tuo sarà").

Abbiamo detto che Gilda, all'inizio dell'opera, è una ragazza ingenua. Proviene dalla campagna, forse da un convento o da un istituto dove è rimasta fino a pochi mesi prima, e da quando è in città Rigoletto non l'ha mai fatta uscire di casa se non per recarsi in chiesa (e comunque sempre sotto la stretta sorveglianza della serva Giovanna). Si tratta di una fanciulla poco più che bambina, letteralmente "tutta casa e chiesa" (nel precedente duetto con il padre, commentava religiosamente "Lassù in cielo presso Dio / veglia un angiol protettor..."), che dunque non conosce nulla del mondo esterno e in particolare degli uomini. Quella per "Gualtier Maldè" è la sua prima vera infatuazione, la prima volta che entra in contatto con l'amore, ed è ovvio che non può che idealizzarlo in maniera enfatica ed esagerata. Il suo canto è un vero e proprio "sogno d'amore". Da notare come l'aria non sia nemmeno rivolta all'amato (di cui di fatto ignora quasi tutto) ma solamente al suo nome! Ed è quasi tragico che questo nome, che accende tanto amore in lei e cui dedica il suo canto, sia in realtà fasullo... e peraltro destinato a non aver più peso nella vicenda, visto che non sarà più citato nel prosieguo dell'opera, se non brevemente nell'aria del Duca del secondo atto ("il suo Gualtier chiamò").

L'ingenuità di Gilda si rispecchia nella musica che Verdi qui scrive per lei. La melodia di "Caro nome" è semplicissima, assai orecchiabile, quasi una ninnananna infantile (salvo poi essere arricchita, al momento della ripresa, da colorature e svolazzi di stampo belcantistico, anch'essi espressione di un sentimento ingenuo e melenso, che pure permettono alle interpreti di sbizzarrirsi nella cadenza). Il musicologo Girardi la definisce "stucchevole aria cesellata come un merletto dalle colorature, ma di assoluta necessità drammatica". Se gran parte dell'opera è musicalmente rivoluzionaria, brani come questo (e come le ballate del Duca) sono volutamente pensati – oltre che per caratterizzare i personaggi – per fare da contrasto alle ambiguità e alla tragicità della figura di Rigoletto.

Gilda è di fatto un personaggio senza passato, un’adolescente che non conosce gli uomini e la vita. Quando impara a conoscerli, sarà proprio l’impossibilità di dimenticare che la porterà alla morte. In questa prospettiva un brano come "Caro nome", all’apparenza antiquato ed esornativo, acquista una logica inoppugnabile: sì, in questa pagina – un tuffo all’indietro di almeno vent’anni, con il suo belcanto di bravura – Verdi arretra le lancette dell’orologio. Ma appunto perché è uno dei pochi momenti retrospettivi. In un’opera così oltranzisticamente dismemore, era inevitabile che i lampi di memoria si ancorassero a una forma espressiva più tradizionale (per il tenore) o ad una vocalità più “datata” (per il soprano). [...] In quest’opera, dove il passato fa paura, il belcanto è semmai il porto dei rari ancoraggi alla memoria.
(Paolo Patrizi)
Sugli ultimi svolazzi dell'aria, mentre Gilda sale sul terrazzo della casa con una lanterna, dalla strada giungono Borsa e Ceprano, seguiti dagli altri cortigiani. Sono lì per rapire quella che credono essere la giovane amante di Rigoletto (tutti ignorano che il gobbo abbia una figlia) e non possono fare a meno di ammirarne la bellezza ("Par fata od angiol").

Clicca qui per il testo di "Caro nome".

GILDA (sola)
Gualtier Maldè... nome di lui sì amato,
ti scolpisci nel core innamorato!

Caro nome che il mio cor
festi primo palpitar,
le delizie dell’amor
mi dêi sempre rammentar!
Col pensier il mio desir
a te sempre volerà,
e fin l’ultimo mio sospir,
caro nome, tuo sarà.
Col pensier, ecc.
(Sale al terrazzo con una lanterna.)
Gualtier Maldè!

(Marullo, Ceprano, Borsa, cortigiani, armati e mascherati, vengono dalla via. Gilda entra tosto in casa.)

GILDA
Caro nome, ecc.

BORSA
È là.

CEPRANO
Miratela.

CORO
Oh quanto è bella!

MARULLO
Par fata od angiol.

CORO
L’amante è quella
di Rigoletto.
Oh, quanto è bella!




Edita Gruberova (Gilda)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Andrea Rost (Gilda)
dir: Riccardo Muti (1994)


Maria Callas (1956)


Anna Moffo (1963)


Joan Sutherland (1960)

Angela Gheorghiu (2000)



dal film "È arrivato lo sposo" (1951) di Frank Capra (la cantante è Anna Maria Alberghetti)


Lo sketch comico di Victor Borge "Hands Off" (la cantante è Marilyn Mulvey)
in inglese

13 febbraio 2018

Rigoletto (7) - "È il sol dell'anima, la vita è amore"

Scritto da Christian

Partito Rigoletto, Gilda confessa a Giovanna di sentirsi in colpa per aver taciuto al padre di essere stata seguita da un "giovane" in chiesa. Un giovane "che troppo è bello / e spira amore" (e su queste parole, la partitura verdiana pare anticipare già l'"Amami Alfredo" della Traviata). Ignorando che la domestica, dietro compenso, ha già fatto in modo di farlo entrare in cortile, la ragazza spiega che non gli interessa se il suo spasimante sia ricco o meno. Anzi, "Signor né principe io lo vorrei; / sento che povero più l’amerei", spiega con aria sognante e intonando quelli che sembrano i primi versi di un'aria che viene però interrotta dall'intervento del Duca stesso, che completa le sue parole: "T'amo!" (in maniera non dissimile da quanto Mozart aveva fatto nel "Così fan tutte", quando Ferrando giungeva alle spalle di Fiordiligi nel duetto del secondo atto).
Il Duca si palesa, dunque, e Giovanna lo lascia da solo con Gilda (che ovviamente ignora la sua vera identità). Dopo un primo attimo di sorpresa e di timore da parte della ragazza, ne segue l'ennesimo duetto dell'opera ("È il sol dell’anima, la vita è amore"), dopo il quale i due si dichiarano amore a vicenda.

Qui il Duca parla di "amore vero" ("il sole dell'anima": e cosa c'è di più sincero ed autentico dell'anima di una persona?), diverso da quello con cui aveva parlato alla Contessa di Ceprano (l'amor cortese, elegante e formale) e di quello con cui parlerà con Maddalena (l'amore più volgare, slegato dai sentimenti e associato alla sola passione). Il personaggio è infatti multiforme, insegue e abbraccia tutti i diversi tipi di relazione a seconda delle circostanze o delle donne con cui si ritrova. D'altro canto, "questa o quella" saranno pari per lui, ma per conquistarle – proprio come fa Don Giovanni! – è necessario presentarsi o comportarsi in maniera diversa, con un linguaggio su misura per ciascuna di loro (nel caso di Gilda, anche celando il proprio ceto e fingendosi un povero studente, avendo compreso che a lei non interessa lo stato sociale). La grandezza del "Rigoletto" sta anche nella sua capacità di mettere in scena così tante facce dell'amore (ci sono anche quello paterno del gobbo nei confronti della figlia, oppure quello assoluto e disinteressato che Gilda continuerà a provare per il Duca anche quando saprà di essere stata tradita).

Anche nel duetto con Gilda i versi minano l’immagine del giovane povero e innamorato, in una sorta di esaltazione dell’amore fine a se stessa: "Adunque amiamoci, – donna celeste. D’invidia agli uomini – sarò per te".
(Michele Girardi)
Nelle sue parole il Duca eleva l'amore a cosa "divina". E in fondo è anche sincero, quando afferma che l'intera sua vita ruota attorno all'amore, l'unica cosa che gli dà un senso. Certo, in lui non c'è posto per la fedeltà, e dunque la sua concezione di amore non è e non può essere la stessa di Gilda. Ma non c'è dubbio che le sue parole, qui, siano ispirate, e che quando afferma "E fama e gloria, potenza e trono / umane, fragili qui cose sono", egli stia dicendo la verità. Per lui l'amore ha il sopravvento sul potere, tanto che non esita (in questa occasione, ma anche nel terzo atto con Maddalena) a spogliarsi degli abiti e dei segni di riconoscimento del proprio rango e del proprio ruolo, se questo può aiutarlo a raggiungere più facilmente il cuore (o il corpo) della donna che in quel momento "ama". Un amore fugace, fuggevole, temporaneo, certo: ma anche il potere lo è. Notiamo infine come il Duca inciti Gilda ad abbracciarlo escludendo tutto il resto, tutto ciò che finora ha costituito l'universo della ragazza: Rigoletto e la famiglia ("Ah, due che s’amano son tutto un mondo") e la religione ("Se angelo o demone, che importa a te?").

Il rumore dei passi dei cortigiani sulla strada (che intendono rapire quella la presunta amante di Rigoletto) mette in allarme Gilda, che pensa possa trattarsi del padre che ritorna. Il Duca e la ragazza dunque si salutano ("Addio! speranza ed anima / sol tu sarai per me"): alla richiesta di lei di conoscere la sua identità, lui risponde di essere un povero studente (evidentemente aveva udito le parole di Gilda a Giovanna poco prima, "Sento che povero più l’amerei", e detto fatto!) e di chiamarsi Gualtier Maldè, un nome inventato sul momento e senza significato, che però rimane nel cuore di Gilda (proprio come Lindoro, pseudonimo del Conte d'Almaviva, rimaneva nel cuore di Rosina nel "Barbiere di Siviglia": ancora una volta il Duca sembra un personaggio da commedia all'interno di un'opera che ha ben altri colori).


A proposito degli allestimenti, non abbiamo sottolineato finora come tutte queste scene ambientate nella casa di Rigoletto richiedano una scenografia che mostri contemporaneamente l'interno della dimora e la strada all'esterno:
Il proposito di far interagire esplicito e implicito portò il compositore con coerenza anche a realizzare un progetto scenico in cui fossero riuniti anche visivamente interno ed esterno in ben due quadri: la casa di Rigoletto sulla via cieca di Mantova nel primo atto e l’osteria sul Mincio di Sparafucile nel terzo. Fu ostico, in queste due circostanze, il compito dello scenografo Giuseppe Bertoja, che se la cavò, a quanto risulta dai bozzetti e dalle cronache del tempo, piuttosto brillantemente. Il visto che Verdi appose sui bozzetti è un’ulteriore testimonianza della sua volontà di controllare ogni dettaglio, così come le informazioni che otteneva da Piave su come procedevano i lavori (il 21 gennaio 1851: «il giovinetto Caprara [allora macchinista della Fenice, ndr] vuol provarti la sua abilità nei praticabili»). Di particolare importanza è la simmetria con cui in ambo i quadri l’interno fu posto alla sinistra di chi guarda, e l’introduzione del praticabile per rappresentare il terrazzo in cui Gilda canta "Caro nome". La scena divisa in due parti rifletteva l’idea drammatica dell’opera in cui le due zone si scambieranno i ruoli, da positivo a negativo, nella prospettiva di Rigoletto: l’interno della casa s’identifica col mondo intimo dell’affetto paterno del protagonista, ma il rapimento dei cortigiani, che lo viola, innesta un processo irreversibile che porta all’interno della taverna, dove si compirà la tragedia.
(Michele Girardi)

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GILDA
Giovanna, ho dei rimorsi...

GIOVANNA
E perché mai?

GILDA
Tacqui che un giovin
ne seguiva al tempio.

GIOVANNA
Perché ciò dirgli? L’odiate dunque
cotesto giovin, voi?

GILDA
No, no, ché troppo è bello
e spira amore.

GIOVANNA
E magnanimo sembra e gran signore.

GILDA
Signor né principe io lo vorrei;
sento che povero più l’amerei.
Sognando o vigile sempre lo chiamo,
e l’alma in estasi gli dice: t’a...

DUCA
(esce improvviso, fa cenno a Giovanna d’andarsene, e inginocchiandosi ai piedi di Gilda termina la frase)
T’amo!
T’amo; ripetilo sì caro accento:
un puro schiudimi ciel di contento!

GILDA
Giovanna? Ahi, misera! Non v’è più alcuno
che qui rispondami! Oh Dio! nessuno?

DUCA
Son io coll’anima che ti rispondo.
Ah, due che s’amano son tutto un mondo!

GILDA
Chi mai, chi giungere vi fece a me?

DUCA
Se angelo o demone, che importa a te?
Io t’amo.

GILDA
Uscitene.

DUCA
Uscire!... Adesso!...
Ora che accendene un fuoco istesso!
Ah, inseparabile d’amore il dio
stringeva, o vergine, tuo fato al mio!

È il sol dell’anima, la vita è amore,
sua voce è il palpito del nostro core.
E fama e gloria, potenza e trono,
umane, fragili qui cose sono,
una pur avvene sola, divina:
è amor che agl’angeli più ne avvicina!
Adunque amiamoci, donna celeste;
d’invidia agli uomini sarò per te.

GILDA (da sé)
Ah, de’ miei vergini sogni son queste
le voci tenere sì care a me! ecc.

DUCA
Adunque amiamoci, donna celeste;
d’invidia agl’uomini sarò per te, ecc.

Che m’ami, deh, ripetimi.

GILDA
L’udiste.

DUCA
Oh, me felice!

GILDA
Il nome vostro ditemi...
Saperlo a me non lice?

(Ceprano e Borsa compariscono sulla strada.)

CEPRANO (a Borsa)
Il loco è qui.

DUCA (pensando)
Mi nomino...

BORSA (a Ceprano)
Sta ben.

(Ceprano e Borsa partono.)

DUCA
...Gualtier Maldè.
Studente sono, e povero.

GIOVANNA (tornando spaventata)
Rumor di passi è fuori!

GILDA
Forse mio padre...

DUCA (da sé)
Ah, cogliere potessi il traditore
che sì mi sturba!

GILDA
Adducilo
di qua al bastione... Or ite...

DUCA
Di’, m’amerai tu?

GILDA
E voi?

DUCA
L’intera vita... Poi...

GILDA
Non più, non più... Partite.

TUTT’E DUE
Addio! Speranza ed anima
sol tu sarai per me.
Addio! Vivrà immutabile
l’affetto mio per te.
Addio, ecc.
(Il Duca esce scortato da Giovanna. Gilda resta fissando la porta ond’è partito.)




Luciano Pavarotti (Duca di Mantova), Edita Gruberova (Gilda), Fedora Barbieri (Giovanna)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Roberto Alagna (Duca di Mantova), Andrea Rost (Gilda), Antonella Trevisan (Giovanna)
dir: Riccardo Muti (1994)


Giuseppe di Stefano, Maria Callas (1955)


Ferruccio Tagliavini, Lina Pagliughi (1954)


Alfredo Kraus, Anna Moffo (1963)

Rolando Villazón, Anna Netrebko (2007)

9 febbraio 2018

Rigoletto (6) - Padre e figlia

Scritto da Christian

Non appena Rigoletto apre la porta di casa, sembra quasi entrare in un altro mondo e per un attimo dimentica la maledizione. Oltre alla figlia, anche l'orchestra lo accoglie con una luminosità e un brio che erano del tutto assenti nella precedente scena in strada. "La bella incognita borghese" che il Duca di Mantova citava nei primissimi versi dell'opera è infatti Gilda, la figlia del buffone di corte, proveniente dalla campagna e che il padre ospita segretamente da tre mesi nella propria casa ("Già da tre lune son qui venuta / né la cittade ho ancor veduta"). Nessuno è al corrente di questa parentela. Se il Duca sa soltanto che la ragazza sui cui ha messo gli occhi abita "in un remoto calle", e che nella sua dimora "misterioso un uom v’entra ogni notte" (vale a dire Rigoletto stesso), i cortigiani – e anche, come abbiamo visto nella scena precedente, Sparafucile – pensano invece che la donna che il gobbo custodisce gelosamente sia una sua amante.

Il rapporto con il padre, quasi sempre in chiave fortemente conflittuale, è un tema centrale nelle opere di Giuseppe Verdi: basti pensare, fra le tante, a "La traviata", ad "Aida", a "La forza del destino". Spesso i padri sono gli autentici villain di tali opere, coloro che ostacolano le aspirazioni o la storia d'amore dei protagonisti, anche quando sono mossi da buone intenzioni. Forse non a caso, una figura paterna ha avuto un'enorme importanza nella vita dello stesso Verdi: non parliamo del suo padre naturale, Carlo, oste, contadino e piccolo commerciante al quale il figlio non è stato mai particolarmente legato, quanto di quello d'adozione, Antonio Barezzi, mecenate del compositore nonché padre della sua prima moglie Margherita, che tuttavia disapprovò fortemente il suo successivo legame con Giuseppina Strepponi.

Nel "Rigoletto", però, è proprio il padre il protagonista dell'opera. E fra i numerosi tratti negativi del personaggio, fisici (la deformità) e morali (la crudeltà), lo smisurato amore per la figlia ("Oh, quanto amore, padre mio!", commenta la stessa Gilda) e il sentimento "umano e protettivo" della paternità contribuiscono a riscattarlo almeno in parte, caratterizzandolo in chiave positiva. Solo fino a un certo punto, però: da un lato, la gelosia e le precauzioni che lo portano a isolare la figlia affinché non sia esposta ai pericoli del mondo esterno, facendola sorvegliare dalla domestica Giovanna e lasciando che esca di casa solo per recarsi in chiesa ("al tempio"), sembrano eccessive. Proprio queste precauzioni lasceranno Gilda in uno stato di ingenuità tale da farla cadere facilmente preda delle lusinghe del Duca. Dall'altro lato, l'affetto per Gilda rende ancora più odioso il suo atteggiamento precedente nei confronti di Monterone, che a sua volta intendeva difendere l'onore della propria figlia. Alcune interpretazioni del personaggio lasciano intendere che quello di Rigoletto per Gilda non sia vero amore, ma un rapporto unilaterale e di puro egoismo ("Mia vita sei! Senza te in terra qual bene avrei?"). Sicuramente non mancano indizi in questo senso (il musicologo Michele Girardi fa notare come fra padre e figlia, anche nel loro duetto, in realtà non c'è un vero dialogo: "nel loro primo incontro egli mostra tutta la sua preoccupazione per la precarietà del loro destino, le riversa addosso tutto l’affetto di cui è capace, e le fornisce, non senza esitazioni, qualche scarna informazione su un passato che par quasi non esistere, perché annullato nel presente, l’unico tempo che sembri contare qualcosa per lui".

Rigoletto si trasforma in mostro davanti al precipitare degli eventi o è già un mostro di per sé? Nei primi decenni del Novecento i baritoni di ceppo belcantistico (Mattia Battistini prima, i suoi numerosi epigoni poi) hanno rigettato quest’ipotesi: l’eventualità che, dietro la facciata dell’amore paterno, quello con Gilda fosse un rapporto egoistico e patologico («Mia colomba… lasciarmi non dêi… / Se t’involi… qui sol rimarrei…») non era presa in considerazione. La raffigurazione violenta – inevitabile corollario d’una vocalità ciclopica – di Titta Ruffo ha poi aperto una nuova prospettiva: nelle generazioni successive più d’un grande interprete ha preferito vedere in Rigoletto il «vil scellerato» di "Pari siamo", e in quella cavalcata a precipizio verso il male che è "Sì, vendetta" la vera epitome del personaggio, piuttosto che una figura all’ultimo stadio della degradazione ma con un’ineliminabile nobiltà di fondo. E che oggi si torni verso un Rigoletto “belcantista”, sia pure aggiornato rispetto al gusto battistiniano, rientra in una normale dialettica di corsi e ricorsi. La chiave di volta, probabilmente, sta in quella frase nevralgica che è «Ma in altr’uom qui mi cangio», dove Rigoletto commenta la propria metamorfosi da criminoso pagliaccio a genitore che cerca rifugio tra le mura domestiche (una trasformazione sottolineata anche dalla scrittura vocale, con il passaggio di registro, all’attacco della frase, dal Si naturale al Mi). È proprio questo “altro uomo” che, almeno in parte, viene a mancare nelle interpretazioni più sensibili agli impulsi negativi del personaggio; ma in questa bipolarità tra crudezza espressiva d’un recitar cantando che esalta l’aspetto mostruoso del buffone, da un lato, e armamentario canoro del baritono grand seigneur che sfuma i momenti più scabri attraverso il proprio aplomb vocalistico, dall’altra, non è sempre facile schierarsi con le ragioni del belcanto.
(Paolo Patrizi)
Dopo aver chiesto inutilmente al padre informazioni su di lui e sul suo lavoro, Gilda lo interroga a proposito della propria madre ("Se non di voi, almen chi sia / fate ch’io sappia la madre mia"). Anche su questo punto il gobbo è reticente (e l'argomento rimane così ignoto anche a noi spettatori), limitandosi a comunicare il proprio dolore per averla perduta. Persino in questo caso, però, il dolore è venato di egoismo per aver perso l'unica donna che aveva saputo avere pietà di lui:
Deh, non parlare al misero
del suo perduto bene.
Ella sentia, quell’angelo,
pietà delle mie pene.
Solo, difforme, povero,
per compassion mi amò.
Gilda prova a consolarlo, ma torna anche a chiedegli di parlarle di sé ("Il nome vostro ditemi, / il duol che sì v’attrista"). Rigoletto rifiuta ancora, anche se notiamo come torni a citare la maledizione ("Altri mi maledicono..."). E poi ribadisce: "Il mio universo è in te!". Preoccupato che qualcuno possa seguirla, rapirla o "disonorarla", raccomanda ancora una volta alla figlia di non uscir mai di casa. E infine ordina alla domestica, Giovanna, di sorvegliarla continuamente ("Veglia, o donna, questo fiore / che a te puro confidai"). Il gobbo ignora però che proprio Giovanna, dietro compenso, intende facilitare gli incontri di Gilda con un misterioso giovane che si rivelerà essere il Duca.
Quella sezione del duetto è intrisa di una tragica ironia: la raccomandazione alla serva corrotta, intonata con voce soave quale in nessun altro momento dell’opera gli sentiremo, suona come il più cupo presagio del Rigoletto-padre, che sa già dentro di sé che perderà la figlia.
(Michele Girardi)
"Veglia, o donna" è stato per decenni dimidiato nella prassi esecutiva (cantato cioè solo nella sua seconda esposizione a due voci, sia pure su parole diverse, con il soprano, negando al baritono la prima esposizione solistica), appunto in un’ottica volta a minimizzare quanto di soffice e affettuoso si trova nella vocalità di Rigoletto; e tuttavia il "Veglia, o donna" preziosamente centellinato, atto a far delibare smorzature e rallentandi, è a sua volta un arbitrio che imprime un tempo più lento di quello previsto da Verdi, togliendo al brano quella carica di ansia che, dietro la facciata dell’affettuosità, lascia trapelare tutte le patologie del protagonista.
(Paolo Patrizi)
Durante il toccante duetto fra Rigoletto e Gilda, il Duca di Mantova ("in costume borghese") si avvicina alla casa, e spiando viene a conoscenza del fatto che la ragazza è figlia del gobbo. Questi, cui è parso di udire un rumore, si insospettisce ed esce a guardare fuori sulla strada. Il Duca approfitta proprio di questo momento per entrare in cortile, nascondendosi dietro un albero (non prima di aver gettato una borsa di denaro alla compiacente Giovanna). Rigoletto saluta la figlia e si allontana, raccomandando nuovamente alla serva di non aprire la porta di casa a nessuno ("Nemmeno al Duca?" "Non che ad altri a lui").

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RIGOLETTO
(Apre con chiave ed entra nel cortile. Gilda esce dalla casa e si getta nelle sue braccia.)
Figlia!

GILDA
Mio padre!

RIGOLETTO
A te d’appresso
trova sol gioia il core oppresso.

GILDA
Oh, quanto amore, padre mio!

RIGOLETTO
Mia vita sei!
Senza te in terra qual bene avrei?
Ah, figlia mia!

GILDA
Voi sospirate! che v’ange tanto?
Lo dite a questa povera figlia.
Se v’ha mistero, per lei sia franto:
ch’ella conosca la sua famiglia.

RIGOLETTO
Tu non ne hai.

GILDA
Qual nome avete?

RIGOLETTO
A te che importa?

GILDA
Se non volete
di voi parlarmi...

RIGOLETTO (interrompendola)
Non uscir mai.

GILDA
Non vo che al tempio.

RIGOLETTO
Oh, ben tu fai.

GILDA
Se non di voi, almen chi sia
fate ch’io sappia la madre mia.

RIGOLETTO
Deh, non parlare al misero
del suo perduto bene.
Ella sentia, quell’angelo,
pietà delle mie pene.
Solo, difforme, povero,
per compassion mi amò.
Morìa... Le zolle coprano
lievi quel capo amato.
Sola or tu resti al misero...
O Dio, sii ringraziato!

GILDA (singhiozzando)
Oh quanto dolor! che spremere
sì amaro pianto può?
Padre, non più, calmatevi...
Mi lacera tal vista.

RIGOLETTO
Tu sola resti al misero, ecc.

GILDA
Il nome vostro ditemi,
il duol che sì v’attrista.

RIGOLETTO
A che nomarmi? è inutile!
Padre ti sono, e basti.
Me forse al mondo temono,
d’alcuno ho forse gli asti.
Altri mi maledicono...

GILDA
Patria, parenti, amici
voi dunque non avete?

RIGOLETTO
Patria! parenti! amici!
Culto, famiglia, la patria,
il mio universo è in te!

GILDA
Ah, se può lieto rendervi,
gioia è la vita a me!

RIGOLETTO
Culto, famiglia, ecc.

GILDA
Già da tre lune son qui venuta
né la cittade ho ancor veduta;
se il concedete, farlo or potrei...

RIGOLETTO
Mai! mai! Uscita, dimmi, unqua sei?

GILDA
No.

RIGOLETTO
Guai!

GILDA (da sé)
Ah! Che dissi!

RIGOLETTO
Ben te ne guarda!
(da sé)
Potrien seguirla, rapirla ancora!
Qui d’un buffone si disonora
la figlia e se ne ride... Orror!
(forte)
Olà?
(Giovanna esce dalla casa.)

GIOVANNA
Signor?

RIGOLETTO
Venendo mi vede alcuno?
Bada, di’ il vero.

GIOVANNA
Oh, no, nessuno.

RIGOLETTO
Sta ben. La porta che dà al bastione
è sempre chiusa?

GIOVANNA
Ognor si sta.

RIGOLETTO
Bada, di’ il ver.

Ah, veglia, o donna, questo fiore
che a te puro confidai;
veglia, attenta, e non fia mai
che s’offuschi il suo candor.
Tu dei venti dal furore
ch’altri fiori hanno piegato,
lo difendi, e immacolato
lo ridona al genitor.

GILDA
Quanto affetto! quali cure!
Che temete, padre mio?
Lassù in cielo presso Dio
veglia un angiol protettor.
Da noi stoglie le sventure
di mia madre il priego santo;
non fia mai disvelto o franto
questo a voi diletto fior.

(Il Duca in costume borghese viene dalla strada.)

RIGOLETTO
Ah, veglia, o donna, questo fiore
che a te puro confi...
Alcun v’è fuori!
(Apre la porta della corte e, mentre esce a guardar sulla strada, il Duca guizza furtivo nella corte e si nasconde dietro l’albero; gettando a Giovanna una borsa la fa tacere.)

GILDA
Cielo!
Sempre novel sospetto!

RIGOLETTO (a Giovanna tornando)
Alla chiesa vi seguiva mai nessuno?

GIOVANNA
Mai.

DUCA (da sé)
Rigoletto!

RIGOLETTO
Se talor qui picchian,
guardatevi d’aprire...

GIOVANNA
Nemmeno al Duca?

RIGOLETTO
Non che ad altri a lui.
Mia figlia, addio.

DUCA (da sé)
Sua figlia!

GILDA
Addio, mio padre.

RIGOLETTO
Ah! veglia, o donna, ecc.
Figlia, addio!

GILDA
Oh, quanto affetto! ecc.
Mio padre, addio!
(S’abbracciano e Rigoletto parte chiudendosi dietro la porta. Gilda, Giovanna e il Duca restano nella corte.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda)
dir: Riccardo Muti (1994)


"Figlia!" - Mio padre!", "Deh, non parlare al misero"
Piero Cappuccilli, Ileana Cotrubas (1980)


"Deh, non parlare al misero"
Titta Ruffo, Maria Galvany (1912)


"Veglia, o donna"
Tito Gobbi, Maria Callas (1955)

"Veglia, o donna"
Sherrill Milnes, Joan Sutherland (1971)

5 febbraio 2018

Rigoletto (5) - Sparafucile e "Pari siamo"

Scritto da Christian


Rigoletto è rimasto tremendamente scosso dalla maledizione che il vecchio Monterone gli ha lanciato. La scena ricomincia con la stessa tonalità con cui si era chiusa quella precedente, come se un'eco perdurasse nell'aria e nella mente del personaggio. E infatti, mentre sta tornando a casa, lo vediamo rimuginare su quanto è accaduto. "Quel vecchio maledivami", dice a sé stesso come per rendersi meglio conto di cosa è successo, cantando su una sola nota (il do, che per tutta l'opera resterà associato a Monterone e alla maledizione stessa). L'orchestra accompagna tutta la scena in maniera sinistra, restando sullo sfondo, facendo a meno dei violini e ricorrendo solo a viole, violoncelli e contrabbassi.

Giunto quasi sotto casa, gli si presenta innanzi Sparafucile. Non un mendicante, come in un primo momento Rigoletto crede, ma "un uom di spada", ovvero – come lui stesso spiega con chiarezza – un sicario, che in cambio di pochi denari è disposto a togliergli di mezzo "un rivale". "E voi ne avete", aggiunge, "La vostra donna è là" (anch'egli, come i cortigiani, è infatti convinto che la misteriosa dama rinchiusa nella casa di Rigoletto sia una sua amante, e non la figlia). Rigoletto, tanto per parlare, e pur appellandolo "Demonio!", si informa su quanto ammonti la tariffa del bandito "per un signor" (ovvero per un nobiluomo: che stia già pensando al Duca?), sulle modalità del pagamento ("Una metà s'anticipa, il resto si dà poi...") e soprattutto sui metodi che egli usa (e qui Sparafucile rivela come riesca ad attirare in casa propria le sue vittime: "M’aiuta mia sorella. Per le vie danza... è bella... Chi voglio attira, e allor...". "Comprendo", chiosa il gobbo).

Si vede già qui come, nonostante il suo mestiere, Sparafucile sia un uomo d'onore: non si fa timore di illustrare la propria attività e i metodi che usa, conduce la trattativa in forma esplicita e sincera, insomma non ricorre a pubblicità disonesta. Per adesso Rigoletto dichiare di non aver bisogno di lui, ma in futuro "chissà...", e si informa dove trovarlo all'occasione. Naturalmente, la sua presentazione nel primo atto, quasi all'inizio dell'opera, è un corrispettivo della "pistola di Cechov": è chiaro che, nel prosieguo della vicenda, i suoi servizi saranno effettivamente richiesti.

Rimasto solo, mentre guarda Sparafucile che si allontana (dopo che gli ha ricordato più volte il proprio nome, quasi come un jingle in chiusura di uno spot pubblicitario: "Sparafucil, sparafucil..."; nel dramma originale di Victor Hugo il personaggio si chiamava Saltabadil e, come l'equivalente verdiano, era un "borgognone", ossia originario della Borgogna), Rigoletto prorompe nel famoso monologo "Pari siamo", nel quale si paragona al sicario:

Pari siamo!... io la lingua,
egli ha il pugnale.
L’uomo son io che ride,
ei quel che spegne!
Quasi immediatamente, i suoi pensieri ritornano a dove erano stati interrotti, a Monterone. "Quel vecchio maledivami", riprende: per lui ormai è un'ossessione, dalla quale non si libererà più per tutta l'opera. La maledizione è già un tema ricorrente. Eppure, in quanto compresenti in questo stesso monologo, il personaggio di Sparafucile e la maledizione di Monterone si fondono tematicamente, e contribuiscono allo stesso modo a caratterizzare la personalità di Rigoletto. Quello che dovrebbe essere un buffone, che dovrebbe far ridere la gente e dunque alleggerire lo spirito, è legato invece a temi forti e passioni come la vendetta, la maledizione, l'omicidio e la morte.

Che Rigoletto fosse tutt'altro che un personaggio "leggero" ce lo avevano già suggerito la sua deformità, ma soprattutto la crudele ferocia con cui aveva schernito Ceprano e Monterone nella scena precedente. Ma finora lo avevamo visto calato in un contesto più vasto, quello della corte del Duca, dove risate e crudeltà la facevano da padrone (anche per opera del Duca stesso o dei cortigiani). Da questa scena, il carattere del buffone comincia a delinearsi in maniera più originale e personale, benché, quasi per paradosso, inizi a farlo rispecchiandosi in un altro personaggio, Sparafucile appunto. Ma non è certo un caso: ricordiamo che Verdi aveva pensato a quest'opera come a "una filza interminabile di duetti", ed è proprio rispecchiandosi negli altri (Sparafucile, Gilda, il Duca) che la figura di Rigoletto viene fuori in tutta la sua tragicità.
Scorrendo l’indice dei numeri, il dato che balza subito agli occhi è la schiacciante prevalenza di forme dialogiche. Ben cinque sono infatti i duetti, di cui tre di fila al prim’atto: in essi Rigoletto compare quattro volte, e in tre casi insieme alla figlia. Si può ben dire che la sua figura venga definita all’interno di un sistema di relazioni col mondo intimo dei propri affetti, in aperta dialettica col mondo esterno in cui talora si specchia, ed è il caso di Sparafucile in cui vede, con orrore, un suo doppio.
(...) Peraltro il buffone può solo beffare, e l’unico modo in cui può realizzare i suoi propositi è quello di servirsi del pugnale di un sicario. Per questo l’unico duetto in cui egli intrattiene un reale rapporto di scambio con un altro personaggio dell’opera è quello con Sparafucile, grande pezzo drammatico in cui ogni convenzione salta per aria, essendo costruito su un lungo dialogo in stile parlante: sopra le voci dei due interlocutori scorre una sinistra melodia in Fa maggiore di un violoncello e un contrabbasso. Tutto è scuro, tutto è sinistro: la tessitura degli archi che accompagnano su una figura ostinata, cui si aggiungono nella seconda parte clarinetti e fagotti, non passa mai il Do3 se non nelle ultime battute, dunque le voci insieme ai due archi gravi si fondono in un mare di cupezza.
(Michele Girardi)
Nonostante sia un recitativo accompagnato più che un'aria, "Pari siamo" è una delle pagine più importanti e significative dell'opera, su cui si è scritto molto. Fra l'altro, serve a caratterizzare sempre più Rigoletto, che in essa attacca il duca e i cortigiani, dichiarando tutto il proprio odio per loro ("Se iniquo son, per cagion vostra è solo"). Non solo: se la prende con l'intero creato ("O uomini! O natura! Vil scellerato mi faceste voi!"), compreso sé stesso ("O rabbia! esser difforme, esser buffone!"). La musica punteggia le sue invettive contro il Duca, come a sottolineare le azioni di una marionetta, costretta a far ridere anche se questo va contro la sua natura.

Appena prima di apprestarsi ad entrare in casa, l'accompagnamento cambia e la musica inizia a instaurare un senso di pace. La casa è per Rigoletto un altro luogo, l'unico dove i suoi sentimenti non sono iniqui ma colmi d'amore (grazie alla presenza della figlia Gilda), tanto che egli stesso afferma "Ma in altro uomo qui mi cangio". L'invettiva contro il Duca e i cortigiani si è esaurita e il gobbo entra in un diverso stato d'animo. Nel film "Pulp Fiction" (1994) di Quentin Tarantino accade qualcosa di simile, ma al contrario: i due gangster Vincent (John Travolta) e Jules (Samuel Jackson) passano da una svagata affabilità a modi minacciosi prima di entrare nella casa delle loro vittime, dicendo a sé stessi: "Entriamo nei personaggi". Eppure, nonostante si sforzi, la maledizione non esce ancora dalla mente di Rigoletto: "Quel vecchio maledivami", ripete una terza volta, domandandosi perché non riesca a togliersi di dosso questo pensiero. "Mi coglierà sventura? ... Ah no, è follia!", conclude (in tono sommesso e piano, aveva scritto Verdi, ma è diventato popolare cantarlo forte e con enfasi).
Il famoso monologo di Rigoletto “Pari siamo” è un classico esempio di recitativo con tutta l’ampiezza e il peso formale di un’aria. Rigoletto lamenta la sua condizione di giullare: suscitare il riso del suo signore in qualunque momento, non importa quali siano i propri sentimenti. Egli inveisce contro i cortigiani senza cuore; quindi una tenera frase del flauto riporta i suoi pensieri alla figlia e al cambiamento che avviene in lui quando entra in casa. Come il Prologo del clown nei "Pagliacci" (chiaramente ispirato dal pezzo verdiano) questo monologo esplora l’intero ambito espressivo della voce baritonale. La ritmica è in parte rigorosa, in parte libera, ma ci sono due fattori unificanti. Il primo è il ritorno del tema della maledizione, “Quel vecchio maledivami!”, una volta subito dopo l’inizio e un’altra appena prima della fine, sempre nella stessa tonalità e con la medesima strumentazione. Le tre progressioni centrali sono fra tonalità a distanza di una terza minore, mentre il salto dal Fa al Re bemolle sulle parole “O uomini! O natura!” è quasi rispecchiato dalla discesa dal Mi maggiore al Do dopo “Ma in altr’uom qui mi cangio!”. (…) Solo con uno sforzo di volontà Rigoletto riesce a scacciare il ricordo della maledizione di Monterone e allo stesso tempo a trascinare la musica fuori da un implicito Fa minore a un Do maggiore solare.
(Julian Budden)
Verdi in questa pagina riesce a costruire uno dei modelli più logici e coerenti di perfetta aderenza tra il testo e la musica. È stato notato da Marcello Conati, nel suo studio "Rigoletto: un’analisi drammatico-musicale", il rigoroso uso delle aree tonali in funzione drammaturgica attuato dal compositore in tutta la partitura. Nella fattispecie, abbiamo la tonalità di Do minore legata alla maledizione, quella di Re connessa al pugnale e al delitto quando il testo evoca il Duca, e il Mi legato a Gilda, sulla frase “Ma in altr’uom qui mi cangio!” anticipata dalla melodia esposta dal flauto che tornerà identica nel recitativo precedente il duetto tra la ragazza e il Duca, sulle parole “No, che troppo è bello e spira amore!”. Anche il Mi acuto finale del baritono è un’allusione musicale legata al fatto che il buffone sta per incontrare la figlia. Da sempre i baritoni sostituiscono questa nota con un Sol acuto (anche Toscanini lo permetteva), svisando in questo modo l’architettura musicale della scena. Occorrerebbe eseguire come sta scritto, e del resto Verdi, in una celebre lettera a Marzari scritta durante la composizione dell’opera, diceva: “Le mie note, o belle o brutte che sieno, non le scrivo mai a caso e […] procuro sempre di darvi un carattere”.
(Gianguido Mussomeli, dal blog Mozart2006)


Clicca qui per il testo di "Quel vecchio maledivami!".

L’estremità d’una via cieca. (A sinistra, una casa di discreta apparenza con una piccola corte circondata da mura. Nella corte un grosso ed alto albero ed un sedile di marmo; nel muro, una porta che mette alla strada; sopra il muro, un terrazzo sostenuto da arcate. La porta del primo piano dà sul detto terrazzo, a cui si ascende per una scala di fronte. A destra della via è il muro altissimo del giardino e un fianco del palazzo di Ceprano. È notte. Entra Rigoletto chiuso nel suo mantello; Sparafucile lo segue, portando sotto il mantello una lunga spada.)

RIGOLETTO (da sé)
Quel vecchio maledivami!

SPARAFUCILE
Signor?...

RIGOLETTO
Va, non ho niente.

SPARAFUCILE
Né il chiesi: a voi presente
un uom di spada sta.

RIGOLETTO
Un ladro?

SPARAFUCILE
Un uom che libera
per poco da un rivale,
e voi ne avete.

RIGOLETTO
Quale?

SPARAFUCILE
La vostra donna è là.

RIGOLETTO (da sé)
Che sento!
(a Sparafucile)
E quanto spendere
per un signor dovrei?

SPARAFUCILE
Prezzo maggior vorrei.

RIGOLETTO
Com’usasi pagar?

SPARAFUCILE
Una metà s’anticipa, il resto si dà poi.

RIGOLETTO (da sé)
Demonio!
(a Sparafucile)
E come puoi
tanto securo oprar?

SPARAFUCILE
Soglio in cittade uccidere,
oppure nel mio tetto.
L’uomo di sera aspetto;
una stoccata e muor.

RIGOLETTO (da sé)
Demonio!
(a Sparafucile)
E come in casa?

SPARAFUCILE
È facile.
M’aiuta mia sorella.
Per le vie danza... è bella...
Chi voglio attira, e allor...

RIGOLETTO
Comprendo.

SPARAFUCILE
Senza strepito...

RIGOLETTO
Comprendo.

SPARAFUCILE
È questo il mio strumento.
(Mostra la spada.)
Vi serve?

RIGOLETTO
No... al momento.

SPARAFUCILE
Peggio per voi.

RIGOLETTO
Chi sa?

SPARAFUCILE
Sparafucil mi nomino.

RIGOLETTO
Straniero?

SPARAFUCILE (per andarsene)
Borgognone.

RIGOLETTO
E dove all’occasione?

SPARAFUCILE
Qui sempre a sera.

RIGOLETTO
Va.

SPARAFUCILE
Sparafucil, Sparafucil.
(Sparafucile parte.)

RIGOLETTO (guarda dietro a Sparafucile)
Va, va, va, va.

Clicca qui per il testo di "Pari siamo!".

RIGOLETTO
Pari siamo!... Io la lingua,
egli ha il pugnale.
L’uomo son io che ride,
ei quel che spegne!
Quel vecchio maledivami...
O uomini! o natura!
Vil scellerato mi faceste voi!
O rabbia! esser difforme, esser buffone!
Non dover, non poter altro che ridere!
Il retaggio d’ogni uom m’è tolto, il pianto.
Questo padrone mio,
giovin, giocondo, sì possente, bello,
sonnecchiando mi dice:
Fa ch’io rida, buffone!
Forzarmi deggio e farlo! Oh dannazione!
Odio a voi, cortigiani schernitori!
Quanta in mordervi ho gioia!
Se iniquo son, per cagion vostra è solo.
Ma in altr’uomo qui mi cangio!...
Quel vecchio maledivami!... Tal pensiero
perché conturba ognor la mente mia?
Mi coglierà sventura?
Ah no, è follia!




Ingvar Wixell (Rigoletto), Ferruccio Furlanetto (Sparafucile)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Dimitri Kavrakos (Sparafucile)
dir: Riccardo Muti (1994)


Tito Gobbi (Rigoletto),
Giulio Neri (Sparafucile)
dir: Tullio Serafin (1946)


Sherrill Milnes (Rigoletto),
Samuel Ramey (Sparafucile)
dir: Julius Rudel (1978)


"Pari siamo"
Titta Ruffo (1908)


"Pari siamo"
Piero Cappuccilli (1980)


"Pari siamo"
Cornell MacNeil (1977)

"Pari siamo"
Dmitri Hvorostovsky (2002)

1 febbraio 2018

Rigoletto (4) - La maledizione di Monterone

Scritto da Christian



I paralleli con il "Don Giovanni" proseguono con l'improvvisa irruzione alla festa di Monterone, quasi un alter ego (anche vocalmente, con il registro di basso profondo: "La voce mia qual tuono vi scuoterà dovunque") del "convitato di pietra". L'atmosfera musicale si muta improvvisamente. L'allegria dei canti e delle danze (pur solo apparente, visto che dietro la letizia delle melodie si nascondevano propositi di inganno, odio e tradimento che soltanto ora cominciano a essere espliciti anche sul piano musicale) si arresta, per lasciar spazio a un momento di silenzio e poi a un accompagnamento cupo e solenne da parte dell'orchestra (che recupera gli accordi del preludio). L'anziano Monterone è giunto a lamentarsi per l'offesa che il Duca gli ha impartito, avendone sedotto la figlia. Prima che il suo padrone possa anche solo interventire, è Rigoletto a rispondere per lui, dapprima facendo il verso alle parole stesse di Monterone ("Ch’io gli parli") e poi parlando in seconda persona ("Voi congiuraste contro noi, signore, / e noi, clementi invero, perdonammo..."), in un certo senso ridicolizzando al tempo stesso anche il Duca e rivelandoci che odia anche lui. In ogni caso, le sue parole ("Qual vi piglia or delirio... a tutte l'ore / di vostra figlia a reclamar l'onore?") provocano il vecchio e irridono i suoi sentimenti: la cosa ci apparirà ancora più grave quando scopriremo, più avanti, che lo stesso Rigoletto ha una figlia al cui onore e alla cui purezza tiene più di ogni altra cosa al mondo.

Monterone non sopporta la derisione di Rigoletto, l'ultima goccia che fa traboccare il vaso, e sfida orgogliosamente e apertamente il Duca, che lo fa arrestare. Ma prima che venga portato via dalle guardie, il vecchio lancia la sua maledizione al Duca ("Se al carnefice pur mi darete, spettro terribile mi rivedrete": ancora un parallelo con il Commendatore mozartiano?) e soprattutto allo stesso Rigoletto ("E tu, serpente, tu che d’un padre ridi al dolore, sii maledetto!").



Da questo momento in poi, in effetti, la maledizione diventerà per Rigoletto un'ossessione che non lo abbandonerà più per il resto dell’opera. Il gobbo, evidentemente, è assai più superstizioso del suo padrone: se questi ignora bellamente le parole di Monterone (anche perché, come come abbiamo già visto, egli è incurante delle conseguenze delle proprie azioni), il buffone ne resta invece profondamente colpito ("Orrore!", grida sul finire della scena). Il Duca non manifesterà quasi mai consapevolezza della tragedia di cui recita una parte, mentre il gobbo comincia già qui a mostrare nuove aspetti e nuove sfaccettature del proprio personaggio. La miscela di qualità negative (l'odio, la cattiveria) e positive (la tenerezza paterna) ne fa una figura così complessa che diversi interpreti, nel corso degli anni, sceglieranno di evidenziarne maggiormente l'uno o l'altro aspetto. Anche la deformità fisica concorre al quadro complessivo: Verdi e Piave lottarono parecchio contro la censura dell'epoca, che avrebbe voluto eliminare la gobba del personaggio, ritenuta di cattivo gusto oltre che inutile ai fini della vicenda. Naturalmente, invece, la gobba (già presente nel personaggio di Victor Hugo) rappresenta anche visivamente e scenicamente la deformità morale del personaggio, chiarendo subito allo spettatore che aveva a che fare con una figura quanto meno piena di contraddizioni (come può un gobbo malvagio far ridere o addirittura amare?).

Rigoletto sin dall’inizio fa il possibile per guadagnarsi l’odio di chi lo circonda in palcoscenico e l’antipatia di chi lo guarda dalla sala ma, a differenza dei suoi superficiali nemici, egli ci spalanca l’abisso della propria anima, e le sue confessioni esprimono un infinito tormento interiore.
(Michele Girardi)
Sono i baritoni comici che hanno sottolineato meglio di altri il lato malvagio di Rigoletto. Estrapolata dal suo contesto, che era un tentativo di salvare le caratteristiche del dramma di fronte alle modifiche richieste dalla censura, la celebre frase di Verdi («Un gobbo che canta… esternamente difforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore») ha finito per offrire il destro a una serie di raffigurazioni smussate, che glissano sull’aspetto diabolico e le tare psichiche di Rigoletto per concentrarsi sull’afflato patetico e la dolcezza paterna. È una forma d’idealizzazione (e in fondo anch’essa di censura), (...) [ma] sarebbe azzardato pensare che la crudeltà sia solo la maschera del personaggio, e la dolcezza il suo vero volto.
Il Triboulet di Hugo è ancora peggiore di Rigoletto, è lui che istiga al vizio il suo signore e fa circolare nella corte il contagio della depravazione. Pretendere che, nell’opera di Verdi, la corruzione del Duca e dei cortigiani sia un prodotto dell’arte manipolatrice del loro buffone non avrebbe fondamento, ma la questione resta aperta: Rigoletto si trasforma in mostro davanti al precipitare degli eventi o è già un mostro di per sé?
(Paolo Patrizi)
Una curiosità: dopo questa scena, il Duca e Rigoletto cessano di interagire direttamente l'uno con l'altro: per tutto il resto dell'opera non li ritroveremo più contemporaneamente sul palco, se non nel terzo atto quando però il Duca è ignaro della presenza del buffone all'esterno della taverna.

Clicca qui per il testo.

(Entra il Conte di Monterone.)

MONTERONE
Ch’io gli parli.

DUCA
No.

MONTERONE (avanzando)
Il voglio.

BORSA, RIGOLETTO, MARULLO, CEPRANO, CORO
Monterone!

MONTERONE
(fissando il Duca, con nobile orgoglio)
Sì, Monteron. La voce mia qual tuono
vi scuoterà dovunque...

RIGOLETTO
(al Duca, contraffacendo la voce di Monterone)
Ch’io gli parli.
(Si avanza con ridicola gravità.)
Voi congiuraste contro noi, signore,
e noi, clementi invero, perdonammo.
Qual vi piglia or delirio a tutte l’ore
di vostra figlia a reclamar l’onore?

MONTERONE
(guardando Rigoletto con ira sprezzante)
Novello insulto!
(al Duca)
Ah sì, a turbare
sarò vostr’orgie; verrò a gridare
fino a che vegga restarsi inulto
di mia famiglia l’atroce insulto;
e se al carnefice pur mi darete,
spettro terribile mi rivedrete,
portante in mano il teschio mio,
vendetta chiedere al mondo e a Dio.

DUCA
Non più, arrestatelo.

RIGOLETTO
È matto.

CORO
Quai detti!

MONTERONE (al Duca e Rigoletto)
Oh, siate entrambi voi maledetti!

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO
Ah!

MONTERONE
Slanciare il cane a leon morente
è vile, o Duca.
(a Rigoletto)
E tu, serpente,
tu che d’un padre ridi al dolore,
sii maledetto!

RIGOLETTO (da sé, colpito)
Che sento! Orrore!

TUTTI (meno Rigoletto, a Monterone)
O tu che la festa audace hai turbato
da un genio d’inferno qui fosti guidato;
è vano ogni detto, di qua t’allontana,
va, trema, o vegliardo, dell’ira sovrana, ecc.

RIGOLETTO
Orrore!
Che orrore! ecc.

MONTERONE
Sii maledetto! E tu serpente! ecc.

TUTTI (meno Rigoletto)
Tu l’hai provocata, più speme von v’è,
un’ora fatale fu questa per te.

(Monterone parte fra due alabardieri; tutti gli altri seguono il Duca in altra stanza.)



Ingvar Wixell (Monterone, Rigoletto), Luciano Pavarotti (Duca di Mantova)
dir: Riccardo Chailly (1983)

Da notare come, nella versione qui sopra riportata (tratta dal film di Jean-Pierre Ponnelle, diretto da Chailly), Monterone e Rigoletto abbiano lo stesso interprete. Scrive ancora Patrizi: "Marcello Conati, nel suo "Rigoletto. Un’analisi drammatico-musicale" (Marsilio 1992), sottolinea il transfert vocale tra Monterone e il protagonista, entrambi padri offesi nell’onore della figlia ed entrambi chiamati a gravitare, nella gran scena dove si fronteggiano, sulla nota di Do."



Giorgio Giuseppini (Monterone), Renato Bruson (Rigoletto), Roberto Alagna (Duca di Mantova)
dir: Riccardo Muti (1994)


Ildebrando D'Arcangelo (Monterone),
Vladimir Chernov (Rigoletto)
dir: James Levine (1998)

Stanislav Shvets (Monterone),
Carlos Álvarez (Rigoletto)
dir: Jesus-Lopez Cobos (2004)