L'interpretazione della danza di Salomè come danza di seduzione e fascinazione per infiammare ancor più i sensi dell'uomo e compiacerne la libido, offrendosi come oggetto di piacere per ottenerne dei favori, è la prima e più ovvia, in una millenaria società patriarcale in cui il ruolo della donna, confinata tra le mura domestiche come moglie e madre, trova nel compiacimento della sensualità maschile uno dei mezzi più efficaci per soddisfare scopi o desideri (onesti o perversi che siano) che non possono essere dichiarati e ottenuti alla luce del sole o secondo un diritto che per le donne non esisteva e che ancora oggi forse esiste solo sulla carta.
Ma di questa danza e delle sue motivazioni ci possono essere letture più sottili e interessanti. Non solo il compiacimento della libidine maschile, ma una possibilità di espressione di una parte di sé, in genere repressa e non accettata dalla società borghese e conformista, una vera liberazione della propria natura femminile sensuale e libera! Quella parte che già Carmen aveva rivendicato nel famoso proclama “Io canto per me sola!” e che le femministe, non tutte per la verità, riprenderanno come diritto ad una sessualità non assoggettata ai bisogni dell'uomo, ma alla riscoperta del piacere che alla donna era stato sempre negato. Riappropriarsi del proprio corpo e anche delle sue seduzioni per un esclusivo ritorno di piacere, insomma. Anche se sembra scandaloso e immorale, ammettere di avere piacere di essere guardate e desiderate, senza per questo dover compiacere e cedere all'agito sessuale del maschio, è uno dei “segreti” femminili e delle sue provocazioni.
Salomè può danzare in modo così voluttuoso apparentemente per soddisfare il desiderio di Erode e ottenere dal potente il premio promesso, ma in fondo lo fa anche per sé stessa, perché le piace danzare e farlo in modo voluttuoso, liberando e vivendo tutte le gamme di sensualità che il corpo guidato da una musica dionisiaca le permette. Per sé stessa, quindi, e per il proprio piacere, ma davanti a un maschio che la desidera e che mentre lei si esibisce non la può nemmeno toccare ("guardare e non toccare!"). Nel suo libro “Salomè, il mito, la danza dei sette veli”, Maria Strova sposa decisamente la versione della danza come liberazione ed espressione delle parti più autentiche di sé, e rivendica la possibilità e il diritto per ogni donna di scoprire e danzare la sua danza.
Nella nostra cultura giudaico-cristiana, il numero sette è legato alla creazione: i sette giorni (compreso quello del riposo) in cui Dio crea tutto l'universo (cielo, terra, luce, buio...), poi il mondo con i suoi regni vegetale e animale, e infine l'uomo, prima bisessuato, poi differenziato in maschio e femmina, posto nel Giardino dell'Eden. La caduta di Adamo porta l'uomo fuori dal “Paradiso” e lo catapulta nel tempo e nella storia, con i suoi conflitti e le tragedie, segnando la nascita della coscienza con inevitabili sensi di colpa. Il numero sette rimane come misura del tempo, non più quello mitico e primordiale della creazione ma il tempo umano, scandito dalle settimane, che si ordinano dal ritmo lunare. La nostalgia e il desiderio di recuperare però la pienezza originaria e la beatitudine dello stato edenico permangono come forte tensione spirituale e guidano tutti i processi di cammino interiore per riaccedere in qualche modo all'unione mistica col divino, da cui l'orgoglioso peccato di Adamo ci ha escluso. Come risalire la scala e recuperare la salvezza? Tutti i percorsi spirituali, che sono veri e propri percorsi iniziatici, tendono a questo, e le prove da superare per accedere alla grazia sono segnate dal numero sette, come a ricreare dentro di sé la creazione allo stato iniziale di purezza e perfezione!
Ma l'approfondimento più interessante rispetto ai “sette veli” e il loro significato iniziatico si trova se rileggiamo con attenzione e moderna sensibilità l'antico mito sumerico (terzo millennio a.C.) del viaggio agli inferi di Inanna, la potente dea dell'amore e della fertilità, conosciuta come Ishtar presso i Babilonesi, Iside presso gli Egizi, Afrodite tra i Greci e Venere tra i Romani. Si tratta di un mito molto complesso, centro religioso e sacrale di tutta la civiltà sumerica. In rete si trovano facilmente i riferimenti necessari. Un'analisi approfondita del mito in chiave junghiana è svolta da Sylvia Brinton Perera nel magnifico saggio “La grande Dea. Il viaggio di Inanna, regina dei mondi” (Red Edizioni).
L'impianto iniziatico è evidente. Ma mentre per Dante, che è già stato nel suo “inferno”, l'iniziazione coincide con una “salita” sempre più leggera, la visione diventa sempre più chiara e infine ogni senso di colpa sarà lavato dall'immersione nel fiume Lete (aiutato da Matelda), per Inanna invece, che parte adorna di preziosi gioielli e splendente di gloria (tutti simboli dell'importanza data all'Io e ai ruoli di potere), la prova iniziatica è in discesa e consiste nello “spogliarsi” completamente, velo dopo velo, raggiungere la “nuda verità” attraverso le sette porte fino a guardare in faccia la “sorella interiore”, la controparte sotterranea che nulla concede ai fasti del mondo e alle lusinghe dell'amore. Si tratta di fare i conti con sé stessi fino in fondo, morire ad ogni vanità e orgoglio, al narcisismo onnipotente, per poter “risorgere” infine grazie all'aiuto del “Padre” e al parziale sacrificio del rapporto amoroso inteso come felicità sessuale innocente. Il contatto con le profondità dell'inconscio porta con sé un inevitabile momento depressivo (la crisi necessaria per ogni conoscenza della propria parte “oscura”), ma prepara una pienezza di coscienza più “umana” e matura, coscienza che include anche il male e la consapevolezza della propria ombra. I riferimenti alla passione e morte del Cristo (che in fondo è l'ultimo degli dèi giovani che muoiono e rinascono) sono evidenti...
La danza dei sette veli può essere quindi non solo seduzione, offerta alla libidine e al desiderio maschile, o voluttuoso compiacimento del proprio corpo in movimento e piacere di una libertà dionisiaca e orgiastica, ma diventare un vero e proprio rito iniziatico di “svelamento” di sé stessi fino al riconoscimento di quella “nuda” verità che è la premessa per ogni ulteriore riscoperta di un Sé più completo. Vedremo però che per Salomè l'iniziazione si capovolge in un agito perverso, e non ci sarà “rinascita” ma solo l'abisso della perdita nel tentativo fusionale con l'altro da sé...
La polifonia di modi d'essere si fonde in un magma musicale che non conosce soste, mancando ovviamente in Salome ogni forma di stroficità chiusa. L’unica eccezione, l'unico brano cioè "chiuso", formalmente autonomo e dunque estrapolabile dal contesto, è la celebre, seducente danza orchestrale dei sette veli, l'ultima pagina che Strauss compose prima di licenziare alle stampe la partitura.(Dizionario dell'Opera, ed. Baldini & Castoldi)
Per la «danza dei sette veli» i musicanti attaccano le sincopi primitive d'una danza esotica eseguita da strumenti stridenti e strepitosi, ma Salome li contiene col gesto imperativo, accompagnato dal motivo «voglio la testa di Jochanaan»; dopo di che «il ritmo furioso tosto si placa e dà luogo ad una melodia soavemente cullante». Con questa fantasia sinfonica è creato un nuovo tipo di movimento: non danza da balletto, ma danza d'espressione; non esibizionismo erotico, ma pittura del più intimo di una anima. È un poema danzato, nel quale tutto si svolge intorno ad un unico avvenimento, nel quale tutto e riferito ad un conflitto drammatico. [E tuttavia, venticinque anni dopo, Strauss esigeva che nell'eseguire la danza, Salome si movesse entro uno spazio ristretto e in pose ieratiche, le quali sono in curiosa posizione antitetica alla sua musica dionisiaca.](Otto Erhardt)
Teresa Stratas (Salomè)
dir: Karl Böhm (1974)
Catherine Malfitano (Salomè)
dir: Giuseppe Sinopoli (1990)
Catherine Naglestad (Salomè)
dir: Simone Young (2015)
Erika Sunnegårdh (Salomè)
dir: Nicola Luisotti (2010)
dir: Erich Leinsdorf (1968) | dir: Herbert von Karajan (1977) |
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