Mi sembra particolarmente significativo il fatto che la nascita del melodramma coincida con la riproposizione del mito di Orfeo, un fatto forse del tutto casuale ma simbolicamente pregnante, perché è come ripartire dalle origini riallacciandosi alla fonte originaria di ogni canto. Avvicinarsi ad Orfeo è infatti come entrare nel tempio stesso dell'arte, nelle intime fibre che la rendono possibile e nelle premesse che sono all'origine dell'anelito dello spirito umano verso il bello e la trascendenza.
La mitologia è, secondo Joseph Campbell, “letteratura dello spirito”, e i miti sono “le tracce che ci guidano verso le potenzialità spirituali della vita umana”. Campbell continua così il discorso di Jung che ha posto le basi del mito nelle strutture archetipiche dell'inconscio collettivo, grande fiume sotterraneo che collega tutta l'umanità. La possibilità di dare ordine e struttura a quei semi istintuali di conoscenza originaria sepolti nell'intimo stesso della materia organica, di per sé irraggiungibile e che sottende la psiche, si organizza nelle immagini e nelle cangianti storie dei miti, che compaiono e si sviluppano in modo diverso nelle varie culture, ma che partono dalla stessa radice. I miti esprimono così i “sogni” primordiali dell'umanità e possono essere avvicinati e trattati come si fa con i sogni, senza pretendere di esaurirli con una comprensione solo razionale che ne impoverirebbe e limiterebbe il significato, ma ampliandone continuamente i rimandi.
Orfeo, il divino cantore, occupa un posto privilegiato nella mitologia perché è la premessa e il modello archetipico di ogni possibilità di espressione artistica e di conoscenza misterica: l'origine di tutti i canti (Omero, Esiodo, Pindaro, Dante, Mozart, Rilke...) e la prefigurazione del mediatore dell'armonia tra cielo e terra, persino di Cristo. Il “regno di Dio” sulla Terra, con il leone vicino all'agnello (la sospensione cioè di ogni conflitto e la pacificazione nell'ascolto della parola divina, che la figura del Cristo incarna), è anticipato dall'immagine di Orfeo che col suo canto calma e attira a sé tutti gli animali, facendoli convivere nello stesso spazio di ascolto. Anche la fine di Orfeo, lo smembramento a opera delle Menadi scatenate, è paragonabile con il sacrificio della crocifissione, voluta dalla rabbia aizzata del popolo; ma di questo parleremo più avanti, alla fine dell'opera.
Ora, per non smarrirci nel labirinto del mito e dei suoi numerosi rimandi, procediamo con ordine.
Oltre che nei frammenti degli Inni orfici, molto danneggiati, dove compare nella sua forma più esoterica e misteriosa, Orfeo ci viene presentato in età classica da Virgilio e Ovidio. Kerényi include il mito di Orfeo nel "Libro degli eroi"; ma, come in un gioco di scatole cinesi, ogni livello rimanda ad altri precedenti e i tempi si perdono nell'oscurità delle origini in cui gli dèi della Grecia non erano ancora così luminosi e ben definiti. Il nome stesso di Orfeo ha a che fare con il buio perché deriva da orphne, l'oscurità, e oscuro era il vestito che indossava per fare sacrifici ad Ecate per conto degli Argonauti, durante la famosa spedizione alla ricerca del vello d'oro che deve a lui e alla sua lira molto del suo successo.
Forse di origine tracia, Orfeo era figlio di Eagro, il cacciatore solitario (ma alcuni attribuiscono la paternità ad Apollo stesso) e della musa Calliope (quella del bel canto, il canto epico). Addestrato alla musica da Apollo, che gli regalò la sua lira (quella stessa lira che il dio dell'armonia e della luce aveva ricevuto in dono da Ermes, a riparazione del torto subito con il furto dei buoi), Orfeo comincia a vagare e ad esercitare il suo fascino non solo sugli uomini ma su tutta la natura: gli animali lo seguono incantati, sospendendo la loro ferocia e le loro lotte, e persino gli alberi e i sassi si muovono per ascoltarlo...
Gli inizi di Orfeo sono quindi sotto la totale protezione di Apollo, e lui stesso viene raffigurato non dissimile dal luminoso dio solare, il signore del distacco e dell'ispirazione profetica. Viene così evidenziato il suo aspetto "apollineo"; ma Dioniso è in agguato e presto costringerà Orfeo a diventare suo sacerdote, dividendoselo con il luminoso fratello, perché è proprio con la lira di Apollo che Orfeo canta i misteri dionisiaci. Lo strumento e la forma sono apollinei, ma i contenuti sono dionisiaci (le passioni e le emozioni legate alla vita e alla morte). Solo il canto rasserena e permette di prendere distanza dal fondo oscuro e turbolento delle emozioni che montano invadendo la coscienza e sopraffacendola. Incanalandole entro la forma del canto, anche le passioni più feroci si ingentiliscono e possono essere espresse senza agire immediatamente in modo distruttivo.
Fermiamoci un poco su questa prima fase del mito, quella in cui Orfeo compare come incarnazione del potere della musica, perché non si tratta di semplice piacere dell'ascolto ma di un vero potere, qualcosa che “agisce” e che trasforma. In Orfeo la musica non compare da sola ma insieme al canto: parole e musica non sono ancora dissociati, le corde della lira e le corde vocali vibrano all'unisono e suscitano risonanza in tutto il creato. In oriente solo Krishna, che è un avatar di Vishnu e quindi manifestazione del divino, ha questo potere, e con il suo flauto incanta tutti (non soltanto le gopi, le pastorelle che si innamorano di lui) e compie prodigi. Nel “Flauto magico” di Mozart vediamo che Tamino riesce a passare indenne attraverso i pericoli dell'iniziazione solo grazie al potere della musica emessa dallo strumento donatogli dalla Regina della Notte; anche qui l'origine della musica che incanta è divina e il suo scopo è quello di operare un passaggio da un livello terreno a un altro più elevato e spirituale. Questi canti sono mantra? Sicuramente sì, se per mantra intendiamo canti che con la loro vibrazione entrano in risonanza con le energie più profonde della vita e che trasformano la mente di chi li ascolta, calmandola ed elevandola oltre la caducità e le forze selvagge dell'istinto solo naturale.
Il poeta che nella sua evoluzione si è addentrato di più nella comprensione di Orfeo e ne ha fatto il proprio centro poetico-spirituale è sicuramente Rainer Maria Rilke. E non possiamo non seguirlo, se vogliamo andare oltre le prime apparenze del mito. Già nel 1904 pubblica una lirica intitolata "Orfeo. Euridice. Ermes"; ma è nei “Sonetti a Orfeo” del 1922 che si precisa e si compie tutto il percorso che lo consacra per sempre sacerdote e adepto del dio del canto, di colui che “addestra l'orecchio alle creature”. Davanti alla sua scrivania Rilke teneva un'immagine di Orfeo tratta da un disegno di Cima da Conegliano e regalatagli nel novembre 1920 da Baladine Klossowska, l'ultima sua amante; e possiamo facilmente immaginare come abbia contribuito a catalizzare “l'innominato turbine” che lo travolse gioiosamente e gli permise di regalarci nel giro di due settimane le Elegie complete (iniziate da più di dieci anni e soffertamente interrotte) e in sovrappiù i Sonetti (“che non erano nel mio disegno”), arrivati come una tempesta direttamente dall'ispirazione, come una possessione divina.
Leggiamo il primo sonetto, importante perché introduce subito Orfeo e ne coglie già il nucleo trasformativo:
Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare!
Orfeo canta! Grandezza dell'albero in ascolto!
E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere
avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento.
Animali di silenzio irruppero dal chiaro
bosco liberato, da tane e nascondigli
e si capì ch'essi non per astuzia
o per terrore in sé eran sì sommessi,
ma per l'ascolto. Ruglio, grido, bramito
parve piccolo nel loro cuore. E dove quasi
non v'era che una capanna al suo ricetto,
un anfratto dalle più scure brame ordito,
con un adito dagli stipiti sconnessi, –
tu creasti per loro un tempio nell'udito.
Non posso qui soffermarmi sulle tante suggestioni presenti, ma voglio mettere in risalto solo due aspetti fondamentali: il silenzio ("E tutto tacque"!), che rende possibile l'ascolto e che prepara la possibilità del cambiamento, e l'addestramento del selvaggio dentro di noi (gli animali) verso una forma più elevata di esperienza. La musica può nascere solo dal silenzio, vive nel silenzio e torna nel silenzio, come ogni autentica esperienza meditativa. Piano vegetativo (l'albero in ascolto) e piano animale si esaltano attraverso l'ascolto e ci si apre al sacro: il "tempio nell'udito". La natura in cui è immerso il canto è ovviamente la natura dentro di noi, a ricordarci che tutto in noi è natura ed è su questa che dobbiamo continuamente operare e agire: la nostra evoluzione è contemporaneamente biologica, psichica e spirituale, altrimenti sarebbe parziale e mutilata.
L'armonia che aleggia intorno ad Orfeo è più di un vagheggiamento nostalgico di un Eden perduto: è una reale possibilità di placare i conflitti attraverso l'ascolto profondo di ogni parte di noi e di ogni senso, un momento di sospensione magica che l'arte trasforma in canto. Si tratta quindi di un progetto molto difficile e impegnativo, in cui l'artista (chi fa della propria vita un'opera d'arte) diventa il mistico maestro che aiuta l'uomo a educare i propri istinti senza rimuoverli, anzi chiamandoli direttamente alla presenza della coscienza e usando un linguaggio così dolce e persuasivo da ottenerne l'assoluto ascolto. Ma questo è un modello archetipico, la tendenza all'assoluto che è dentro di noi ma mai raggiungibile (Orfeo rimane una figura divina, e la sua lira sarà riportata in cielo e posta tra le costellazioni), una specie di freccia luminosa che indica la via. Ed è su questa via (il 'tao' degli orientali), non importa se il traguardo si sposta sempre più in là, che lo spirito umano si è incamminato dietro la lira di Orfeo.
10 commenti:
Leggo - tutto, non solo questo post - con grande ammirazione.
Un saluto a te, a voi.
Appena scoperto questo bellissimo blog. Complimenti per le analisi dettagliate e ben documentate, e per lo stile chiaro e piacevole. Vi seguirò assiduamente
un saluto
Amfortas: sono-siamo lusingati dalle tue visite. Aspetta i prossimi post perchè forse si andrà fuori dal seminato, almeno io :-)
Megacle: grazie per la visita, speriamo di non deludere.
Bellissimo come sempre il commento psicologico di Marisa, ricco di riferimenti culturali e profondo nell'analisi ma nello stesso tempo scorrevole e "leggibile" anche ai "non addetti ai lavori".Spero quindi che chi legge il blog spinto in prima istanza dall'amore per la musica , possa essere stimolato ad aprirsi anche alla dimensione psicologica della conoscenza. Superfluo ogni commento sull'ammirevole lavoro di ricerca di Christian. Giovanni
Grazie, Giovanni. Detti da te, che sei un grande amatore della musica e molto addentro nell'arte della cura della psiche, i tuoi apprezzamenti fanno doppiamente piacere.
Leggendo il sonetto di Rilke e pensando agli animali che tengono sospesa, al suono della musica, la dipendenza dalla necessità ( di attaccare o difendersi ), ho inevitabilmente pensato alla portata salvifica dell'arte. Armonia è pace, assenza di tensione, equilibrio.
"Lo strumento e la forma sono apollinei, ma i contenuti sono dionisiaci (...) . Solo il canto rasserena e permette di prendere distanza dal fondo oscuro e turbolento delle emozioni che montano invadendo la coscienza e sopraffacendola. Incanalandole entro la forma del canto, anche le passioni più feroci si ingentiliscono e possono essere espresse senza agire immediatamente in modo distruttivo".
La musica, l'arte danno sorprendentemente forma, come il mito, all'inespresso. E'questo a dar pace?
Sì, cara Giacinta, il grande potere dell'arte non è quello di edulcorare e annacquare i dolori, ma di trovare il punto magico di equilibrio per esprimere "l'inesprimibile" e trascendere così la nostra impotenza e disperazione.
Un lavoro molto interessante e che incuriosisce molto!
Sicuramente troverò il tempo di leggerlo tutto! :)
Caro Daniele, grazie per l'interesse e spero che continuerai a seguire il lavoro perchè credo che avrai delle sorprese. Il mio modo di leggere Orfeo è infatti piuttosto diverso dal solito.
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