Quando, per la prima del 7 dicembre 2012, la Scala ha messo in scena il "Lohengrin" con la direzione di Daniel Barenboim e la regia di Claus Guth, le aspettative erano tante e piuttosto confuse, ma mai mi sarei immaginata una realizzazione così “bassa” e “brutta”. Bassa perché il regista ha fatto di tutto per abbassare il piano “alto”, quasi sovrumano-misterioso, in cui si muove l'opera; brutta (nonostante il tenore Jonas Kaufmann, bello e bravo anche!) perché esteticamente ridicola e poverissima.
Da allora mi è nato il desiderio di rivisitare questa bellissima opera di Wagner per liberarla dalla brutta patina psichiatrica che le è stata gettata addosso (a detta dello stesso regista, per il luminoso cavaliere sconosciuto si è ispirato nientemeno che alla figura di Kaspar Hauser, il povero smemorato semiselvaggio, immortalato dal film di Herzog ma pur sempre un povero disgraziato, abbruttito dall'aver vissuto in semi-animalità) e restituirla a quel mondo mitico-archetipico senza spazio e tempo che è proprio della grande arte quando si occupa delle vicende umane esemplari, senza lasciarsi intrappolare dalla cronaca e proprio per questo diventando universale e altamente significativa come “rispecchiamento” di nodi cruciali dello sviluppo psichico di tutti.
Non intendo fare un lavoro sulla musica di Wagner, perché non ne ho le competenze e sarebbe comunque assurdo voler “spiegare” la musica, ma mi occuperò del contenuto, ricordando come la scelta dei temi mitici fosse essenziale per il grande artista, che non delegava a nessuno la stesura dei libretti, a conferma di come musica e parola fossero per lui strettamente legate, e di come alla solennità e sublimità della musica non può che corrispondere altrettanta altezza di contenuto.
Nei suoi “Aforismi”, Wols (musicista oltre che grande pittore e fotografo) scrive: “Le parole sono camaleonti / la musica ha il diritto di essere astratta / l'esperienza dell'inspiegabilità delle cose conduce al sogno / non spiegate la musica / non spiegate i sogni. / L'inafferrabile pervade tutto / bisogna sapere che ogni cosa fa rima”.
Non spiegherò quindi la musica, e ricordando che “le parole sono camaleonti” mi aspetto che esse continuamente mi facciano brutti scherzi cambiando colore e significato sotto i miei occhi e giochino a trasformarsi anche, a seconda di chi legge, in ulteriori ed imprevisti significati... Pazienza, è il rischio che si corre sempre, non solo scrivendo, ma anche parlando: quello di essere fraintesi, distorti, ma magari anche arricchiti. Figuriamoci in un argomento così sfuggente ed ambiguo come quello che pesca nelle favole e nei miti.
“Bisogna saper che ogni cosa fa rima”. Come riassumere in modo più esatto e sintetico la legge dell'Analogia, quella misteriosa concordanza e corrispondenza che lega aspetti apparentemente così lontani ad un occhio e un orecchio superficiale, ma che è alla base della possibilità di cogliere il senso (non la spiegazione!) della vita che ci scorre davanti non in modo casuale e caotico, ma legata insieme e pervasa da “quell'Amor che muove il sole e l'altre stelle”? Ecco, è solo così, tenendo presente che “Tutto è simbolo e analogia” (come dice Pessoa nel suo “Faust”), che posso accingermi ad entrare nel mondo altamente simbolico del Lohengrin e restituire ad esso quei significati che possono essere ancora validi per la nostra coscienza.
“Gli dei cacciati diventano malattie”, ha detto Jung costatando già ai suoi tempi la perdita della capacità di accedere al mondo simbolico e di saper guardare ai contenuti dell'inconscio senza lasciarsene travolgere. È quello che è avvenuto psichiatrizzando i personaggi del Lohengrin, perché si è persa la capacità di accedere al modello archetipico, assistendo a come possa influenzare il comportamento umano ma distinguendo sempre i vari piani.
Tutta la costruzione dell'opera, anche se fa riferimento a fatti e personaggi storici (il re tedesco Enrico l'Uccellatore, Goffredo di Brabante...) e collocata nell'Anversa del X secolo, si organizza intorno a una vicenda leggendaria avente come protagonista il favoloso secondo figlio di Parsifal, di cui si parla nel finale del poema di Wolfram von Eschenbach, quel Garin il loreno (dal francese antico “le loheren Garin") che diventa Lohengrin già in un poema di un anonimo del XIII secolo e poi ripreso dal poema medioevale “Le chevalier au cygne”, ma si arricchisce di riferimenti mitologici classici (soprattutto la favola di Amore e Psiche raccontata da Apuleio) e suggestioni scaturite come rispecchiamenti nel tumultuoso animo di Wagner (autore e quindi necessariamente ri-creatore del mito), che ne rendono molto complessa e polivalente la lettura.
Riassumiamo brevemente la storia narrata da Wolfram von Eschenbach. Viveva in un paese (classico inizio di ogni favola!) una figlia di re, Elsa, principessa di Brabante, tanto pura, elevata e di nobile sentire, che non voleva accogliere nessuna passione umana ed aveva già rifiutato molti illustri pretendenti, attratti dalla sua virtù, ma che sentendosi rifiutati presero ad odiarla e calunniarla finché lei decise che avrebbe accettato come marito solo quell'uno che Dio le avrebbe mandato. Un cigno appare portando il cavaliere atteso, bello e splendente di valore, che si offre come sposo, ma chiede di non essere mai interrogato sulla sua identità, pena la perdita dell'amore e di sé stesso.
Elsa promette, e le nozze avvengono allietate poi anche da “leggiadri figliuoli”. Solo dopo un certo tempo Elsa non resiste alla tentazione di conoscere l'identità dello sposo misterioso, e la sua richiesta provoca la ricomparsa del cigno che porta via il cavaliere che rivela di essere Loherangrin, cavaliere del Sacro Graal, figlio di Parsifal. Partendo, lascia come prezioso segno del suo passaggio un corno, una spada e un anello. Il racconto non parla della morte per crepacuore di Elsa, ma ne rimarca moralisticamente la mancanza di parola.
Ed ecco brevemente la favola di Amore e Psiche, contenuta nelle “Metamorfosi o l'Asino d'oro” di Apuleio e che ne costituisce il nucleo centrale, ponendosi come un vero modello di iniziazione in un romanzo che a sua volta è tutto centrato sul percorso di iniziazione di Lucio, che passa dallo stato di “asino” (succube della propria libidine) a quello di sacerdote di Iside, dopo la liberazione e l'iniziazione ai sacri misteri.
Psiche è la terzogenita figlia di un Re e una Regina, che supera per virtù e per la splendida bellezza le pur bellissime sorelle, e per questo viene acclamata da tutti come una “novella Venere” e venerata (appunto) come tale, tanto che tutti si recano da lei a renderle omaggio trascurando gli altari e i templi di Venere stessa. Questa, offesa, medita la vendetta affidando al figlio Eros l'incarico di colpire Psiche con le sue frecce e farla innamorare dell'uomo più brutto e abbietto che ci sia. I genitori di Psiche, allertati da un responso di Apollo che predice come la fanciulla sia destinata a nozze non umane ma mostruose, conducono Psiche su indicazione del dio su un'alta rupe e la lasciano esposta al suo destino. Eros però, contravvenendo agli ordini della madre Venere, si innamora di Psiche e ordina a Zefiro di condurla in un palazzo bellissimo, pieno di ogni ristoro e piacevolezze, dove lui la visita ogni notte gustando insieme le delizie dell'amore, ma dandole l'assoluto divieto di cercare di conoscere il suo aspetto e il suo nome. Psiche vive la propria condizione di isolamento e di “luna di miele” con piacere, fin quando la nostalgia e il desiderio di rivedere almeno le sorelle le fanno strappare al marito il permesso di vederle. Queste, mosse da invidia, la spingono a conoscere finalmente il volto dell'amato: insinuando velenosi sospetti su di lui, le suggeriscono di ucciderlo e le lasciano una lucerna e un pugnale. Psiche, dopo un tormentoso conflitto con sé stessa, si decide ad attuare il piano delle sorelle: dopo l'amplesso notturno vorrebbe ucciderlo, ma con la lucerna scopre che accanto a lei dorme il più bello e amabile degli dei, Eros in persona. Nell'agitazione dell'emozione, la ragazza si ferisce con una freccia del dio alato, mentre una goccia di olio bollente cade dalla lucerna sulla spalla di Eros che, svegliatosi per il dolore, scappa via in volo rimproverando all'ingenua consorte la propria disobbedienza.
Disperata, Psiche (che ora è realmente innamorata perché si è ferita con la freccia del dio) lo cerca per tutta la terra e, dopo avere anche tentato il suicidio, si reca nel palazzo di Venere per sottomettersi a lei e cercare di riacquistarne i favori in vista di un possibile ritrovamento di Eros. Venere la sottopone a durissime prove (separare in una sola notte un grandissimo mucchio di semi, recuperare fiocchi di lana d'oro dal vello di montoni feroci, riempire un'ampolla di acqua da una sorgente inaccessibile), che Psiche porta a buon fine con l'aiuto di animali soccorrevoli (le formiche, un'aquila) o di elementi della natura (le canne). C'è infine la prova più difficile, che la conduce addirittura nel regno dei morti per chiedere alla Regina degli inferi, Persefone, un vasetto della sua bellezza da portare a Venere, prova che Psiche porta a buon esito con l'aiuto di un elemento costruito dall'ingegno umano: una torre (il significato simbolico degli elementi che aiutano Psiche è ampiamente trattato da Neumann). Ma nel tornare nel mondo terreno Psiche incappa in un'altra trasgressione, perché apre il vasetto per avere anche lei un po' della bellezza di Persefone, sperando così di riconquistare il fuggitivo Eros. Ma appena aperto il vasetto, cade in un sonno “mortale” e viene salvata da Eros in persona che, finalmente guarito dalla bruciatura, stava cercandola per porre fine alla separazione e alle sofferenze dell'amata. Seguono il perdono di Venere, auspicato da Giove stesso, e le nozze celesti di Eros e Psiche, che viene divinizzata. Dalla loro unione nasce una figlia che era già stata concepita prima della fatale rivelazione e che viene chiamata “Voluttà”.
La lettura di una favola così complessa è stata tentata da diversi autori, ma io rimando a chi volesse addentrarsi in essa all'opera del suddetto Erich Neumann, “Amore e Psiche. Un'interpretazione nella psicologia del profondo” (ed. Astrolabio), e a quella di James Hillman, “Il mito dell'analisi” (ed. Adelphi).
Per ora basti dire che Amore e Psiche è veramente la “madre” delle fiabe più famose della nostra tradizione (Cenerentola, La Bella e la Bestia, Biancaneve...) e che costituisce il modello archetipico più completo non solo dello sviluppo del femminile, ma – dal nome stesso della protagonista – di tutta la psiche umana e del suo lavoro per passare da una fase di inconsapevole godimento dell'istinto tout-court ad una più matura e sofferta “consapevolezza” dell'amore come sentimento individuativo.
Vedremo nel corso del lavoro sul Lohengrin le analogie (soprattutto il tema dell'amante sconosciuto) e le differenze con questa favola fondamentale, e soprattutto cercheremo di capire il nodo del diverso destino di Elsa rispetto alla felice conclusione delle sofferenze di Psiche.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Chi sono
Collaboratori
Archivio blog
Opere
- Carmen (30)
- Così fan tutte (36)
- Die Zauberflöte (39)
- Don Giovanni (43)
- Il barbiere di Siviglia (21)
- Il matrimonio segreto (23)
- L'Orfeo (14)
- La Bohème (26)
- La Cenerentola (21)
- La pietra del paragone (26)
- La traviata (24)
- Le nozze di Figaro (34)
- Lohengrin (20)
- Lucia di Lammermoor (16)
- Norma (21)
- Rigoletto (19)
- Salomè (14)
- Turandot (21)
0 commenti:
Posta un commento