Nell'iconografia e nell'arte capita a volte di far fatica a distinguere se la donna rappresentata con la testa tagliata di un uomo potente in mano sia effettivamente Salomè oppure Giuditta (si pensi a Klimt, Caravaggio e molti altri).
Se, come nei tanti dipinti di Artemisia Gentileschi, si vede la donna che decapita l'uomo personalmente, con la spada o un coltello in mano, non c'è dubbio: è Giuditta, l'intrepida eroina biblica, donna libera (perchè vedova) e ricca (ha ereditato la fortuna del marito), che opera la vendetta direttamente e con le proprie mani (anche se assistita da un'ancella), decapitando il potente Oloferne, re degli Assiri che assediavano Gerusalemme.
Sappiamo che l'ossessione della Gentileschi nel ritrarre il vivo della scena in modo così forte e cruento nasce presumibilmente dal bisogno di vendicarsi sugli uomini, sentimento nato dallo stupro subito a 18 anni da Agostino Tassi, un pittore a cui il padre Orazio l'aveva affidata perchè perfezionasse la tecnica del paesaggio. La fanciulla tentò di difendersi con tutte le sue forze, come poi lei stessa coraggiosamente ricorda nei suoi diari, ma la violenza subita rimarrà una ferita profonda per tutta la vita e alimenterà un bisogno di “vendetta” verso l'uomo che troverà la sua espressione più compiuta proprio nella figura di Giuditta.
La differenza fondamentale tra Salomè e Giuditta consiste non solo nell'agire direttamente (Salomè, lo ricordiamo, ottiene il taglio della testa di Giovanni attraverso il potere di Erode), ma anche nel fatto che Giuditta è mossa da un sentimento patriottico e religioso (vuole liberare il proprio popolo dall'assedio e restituirgli la libertà), mentre Salomè pratica solo una vendetta personale: su ordinazione della madre offesa, come dice il Vangelo, o per soddisfare la propria passione, come immagina Wilde.
La vicenda di Giuditta molto probabilmente non è storicamente vera, trattandosi di un libro tardivo, accettato solo dai cristiani cattolici e ortodossi ma messo in dubbio dagli ebrei e considerato apocrifo dai protestanti. Tuttavia è rimasta nell'immaginario comune come emblema della possibilità di sconfiggere il nemico oppressore con tutti i mezzi, tanto che anche una donna, considerata dalla tradizione giudaico-cristiana un essere inferiore sotto ogni aspetto e destinata solo a tacere e procreare, può diventare strumento di redenzione e liberazione se opera nel nome di Dio. Un po' come il fanciullo David che riesce vincitore sul gigante Golia.
Nella storia e nell'immaginario ci sono altre donne “castranti” che usano “decapitare” l'uomo. La più celebre è sicuramente Tomiri, regina dei Massageti (un popolo iranico, situato in Asia centrale, ad est del Mar Caspio), che, visto morire il figlio Spargapise, generale dell'esercito, per opera di Ciro il grande, re dei Persiani che assediava il suo regno per conquistarlo, dopo essere riuscita a sconfiggere e catturare Ciro stesso, lo decapita e ne immerge la testa in un bacile pieno di sangue dicendo: “Saziati del sangue di cui fosti assetato!”. Si racconta anche che per il resto della sua vita usasse poi la testa svuotata e mummificata di Ciro come boccale...
Erodoto per primo ne fa un ampio racconto, a testimonianza di come i potenti non sappiano fermare la loro sete di conquista e finiscano per incorrere in una catastrofe che è sempre il frutto della loro stessa Hybris!
Dante la mette nel XII canto del Purgatorio, come esempio di strumento per umiliare i potenti troppo arroganti. Nonostante l'atrocità del fatto, la sua storia risulta per la coscienza collettiva abbastanza comprensibile perchè inquadrata nella crudezza delle guerre dell'antichità e in un sentimento “materno” che trova sempre i suoi sostenitori, mentre per Salomè la carica erotica e perversa rimane fondamento di uno scandalo più sottile e inquietante...
E concludiamo con Turandot, la gelida principessa cinese della fiaba di Carlo Gozzi, che usava far tagliare la testa dei giovani principi innamorati di lei che non riuscivano a risolvere i tre enigmi proposti come prova per poterla sposare, immortalata da Puccini nel suo ultimo ed incompiuto capolavoro (in questo blog ne potete trovare una lunga trattazione, a cui rimando).
Qui ci interessa ricordarla per confrontarla con Salomè e notarne le differenze. Intanto già la situazione iniziale è capovolta: in Turandot sono i giovani uomini ad essere affascinati dalla principessa fino ad accettare di rischiare la propria “testa”, mentre nell'opera di Wilde e Strauss è la donna a subire il fascino di un uomo indifferente a lei e che si rifiuta con disprezzo alla sua passione.
La crudeltà di Turandot viene spiegata da lei stessa come vendetta sugli uomini per riscattare la figura della sua ava, la dolce principessa stuprata brutalmente e uccisa da un principe straniero e “conquistatore”. La rabbia di Turandot e il suo bisogno di vendicarsi spariranno con l'amore che Calaf, il principe che risolve gli enigmi, riesce a suscitare in lei attraverso le vicende che tutti conosciamo, compreso il sacrificio di Liù.
Mentre quella che in Salomè appare come “vendetta” è in realtà un improvviso moto compulsivo, più vicino all'agire del bambino capriccioso e tirannicamente dominato ancora dalla pulsione piacere-odio, per Turandot il processo è molto lungo ed elaborato, un vero progetto di vendetta, strutturato meticolosamente mediante la scelta degli enigmi e che si scioglie attraverso l'esperienza della capacità di amare di Calaf e di Liù.
Salomè non può accedere a tali esperienze di un amore vero e duraturo, e tutto in lei rimane ancora prigioniero di una pulsione oscura che nessuno aiuta a dipanare e “trasformare”.
Ambedue le principesse hanno a che fare con la “Luna” e il mondo notturno, ma mentre per Turandot sorgerà l'alba invocata da Calaf ad illuminare e sciogliere i conflitti, per Salomè non arriverà mai la luce solare e rimarrà solo la luna, la spettrale testimone della sua “follia”.
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