A questo punto Oscar Wilde scrive soltanto “Salomè danza la danza dei sette veli” e non fornisce alcuna indicazione su che tipo di danza si tratti e su come occorresse danzare (forse l'attrice veniva sostituita da una ballerina, o forse no, perché in teatro si trattava di una scena piuttosto breve: ricordiamo peraltro che Wilde aveva scritto il dramma pensando a Sarah Bernhardt nel ruolo principale). Strauss ovviamente approfitta di questa scena per dilatarla e farne uno dei fulcri principali e sicuramente il più atteso e suggestivo di tutta l'opera. Il brano, che dura circa dieci minuti, è espressivamente ricchissimo.
L'interpretazione della danza di Salomè come danza di seduzione e fascinazione per infiammare ancor più i sensi dell'uomo e compiacerne la libido, offrendosi come oggetto di piacere per ottenerne dei favori, è la prima e più ovvia, in una millenaria società patriarcale in cui il ruolo della donna, confinata tra le mura domestiche come moglie e madre, trova nel compiacimento della sensualità maschile uno dei mezzi più efficaci per soddisfare scopi o desideri (onesti o perversi che siano) che non possono essere dichiarati e ottenuti alla luce del sole o secondo un diritto che per le donne non esisteva e che ancora oggi forse esiste solo sulla carta.
Ma di questa danza e delle sue motivazioni ci possono essere letture più sottili e interessanti.
Non solo il compiacimento della libidine maschile, ma una possibilità di espressione di una parte di sé, in genere repressa e non accettata dalla società borghese e conformista, una vera liberazione della propria natura femminile sensuale e libera! Quella parte che già Carmen aveva rivendicato nel famoso proclama “Io canto per me sola!” e che le femministe, non tutte per la verità, riprenderanno come diritto ad una sessualità non assoggettata ai bisogni dell'uomo, ma alla riscoperta del piacere che alla donna era stato sempre negato. Riappropriarsi del proprio corpo e anche delle sue seduzioni per un esclusivo ritorno di piacere, insomma. Anche se sembra scandaloso e immorale, ammettere di avere piacere di essere guardate e desiderate, senza per questo dover compiacere e cedere all'agito sessuale del maschio, è uno dei “segreti” femminili e delle sue provocazioni.
Salomè può danzare in modo così voluttuoso apparentemente per soddisfare il desiderio di Erode e ottenere dal potente il premio promesso, ma in fondo lo fa anche per sé stessa, perché le piace danzare e farlo in modo voluttuoso, liberando e vivendo tutte le gamme di sensualità che il corpo guidato da una musica dionisiaca le permette. Per sé stessa, quindi, e per il proprio piacere, ma davanti a un maschio che la desidera e che mentre lei si esibisce non la può nemmeno toccare ("guardare e non toccare!").
Nel suo libro “Salomè, il mito, la danza dei sette veli”, Maria Strova sposa decisamente la versione della danza come liberazione ed espressione delle parti più autentiche di sé, e rivendica la possibilità e il diritto per ogni donna di scoprire e danzare la sua danza.
Ma l'interpretazione più profonda riguarda il mistero dei “sette veli”. Perché proprio sette?
E qui entriamo nell'affascinante campo della simbologia dei numeri e dei precedenti mitologici che ci portano diritti fino al mondo misterioso delle iniziazioni, in cui il numero sette la fa da padrone incontrastato e da guida...
Nella nostra cultura giudaico-cristiana, il numero sette è legato alla creazione: i sette giorni (compreso quello del riposo) in cui Dio crea tutto l'universo (cielo, terra, luce, buio...), poi il mondo con i suoi regni vegetale e animale, e infine l'uomo, prima bisessuato, poi differenziato in maschio e femmina, posto nel Giardino dell'Eden. La caduta di Adamo porta l'uomo fuori dal “Paradiso” e lo catapulta nel tempo e nella storia, con i suoi conflitti e le tragedie, segnando la nascita della coscienza con inevitabili sensi di colpa. Il numero sette rimane come misura del tempo, non più quello mitico e primordiale della creazione ma il tempo umano, scandito dalle settimane, che si ordinano dal ritmo lunare. La nostalgia e il desiderio di recuperare però la pienezza originaria e la beatitudine dello stato edenico permangono come forte tensione spirituale e guidano tutti i processi di cammino interiore per riaccedere in qualche modo all'unione mistica col divino, da cui l'orgoglioso peccato di Adamo ci ha escluso. Come risalire la scala e recuperare la salvezza? Tutti i percorsi spirituali, che sono veri e propri percorsi iniziatici, tendono a questo, e le prove da superare per accedere alla grazia sono segnate dal numero sette, come a ricreare dentro di sé la creazione allo stato iniziale di purezza e perfezione!
Dante ha magistralmente e per sempre codificato tale percorso nella faticosa ascesa al monte del Purgatorio, il “monte dalle sette balze” appunto, sette come i giorni della creazione e sette come i peccati capitali da cui deve emendarsi prendendone coscienza balza dopo balza...
Prendere coscienza dei propri peccati o meglio, della forte tendenza ad essere sopraffatti da essi (superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria sono i peccati che stanno espiando attraverso le sette cornici le anime purganti) vuol dire “spogliarsi” dall'attaccamento dell'Io a tutto quello che sollecita il suo individualistico potere, piacere o convenienza, liberarsene per accedere al sommo del colle, dove è posto il Paradiso terrestre a cui Dante arriva e dove finalmente ritrova Beatrice, l'anima-guida che lo condurrà ancora più in alto, verso la Luce, “puro e disposto a salire a le stelle”.
Ma l'approfondimento più interessante rispetto ai “sette veli” e il loro significato iniziatico si trova se rileggiamo con attenzione e moderna sensibilità l'antico mito sumerico (terzo millennio a.C.) del viaggio agli inferi di Inanna, la potente dea dell'amore e della fertilità, conosciuta come Ishtar presso i Babilonesi, Iside presso gli Egizi, Afrodite tra i Greci e Venere tra i Romani.
Si tratta di un mito molto complesso, centro religioso e sacrale di tutta la civiltà sumerica. In rete si trovano facilmente i riferimenti necessari. Un'analisi approfondita del mito in chiave junghiana è svolta da Sylvia Brinton Perera nel magnifico saggio “La grande Dea. Il viaggio di Inanna, regina dei mondi” (Red Edizioni).
Qui voglio sottolineare la parte centrale del mito, quando Inanna decide di andare nel regno sotterraneo della morte, il regno della sorella Ereshkigal, addolorata per la recente morte del marito. Un viaggio molto pericoloso, da cui in genere non c'è ritorno. Per raggiungere il centro e presentarsi davanti al trono della triste regina degli inferi, Inanna deve attraversare “sette porte”, che corrispondono a sette livelli, e davanti ad ognuno di essi deve togliersi un indumento o un gioiello, fino a restare completamente “nuda”. Non solo: quando Inanna, nuda e china a terra, è davanti alla “sorella infernale”, viene “mutata in cadavere, un pezzo di carne putrescente e appesa ad un chiodo”. Rimane così per tre giorni e tre notti, e solo grazie all'intervento del Padre celeste Enki ottiene la possibilità di tornare in vita, a patto che al suo posto trovi qualcuno disposto a scendere nel regno dei morti. Sarà lo sposo, il pastore e dio della vegetazione Dumuzi (Tammuz in Babilonia) a sacrificarsi per lei, ma per intercessione della sorella Geshtinanna otterrà di trascorrere sei mesi negli inferi e sei mesi fuori, nel mondo dei vivi e della luce. Questo schema, che viene ripreso al femminile dalla vicenda di Persefone (che è costretta a dividersi tra il regno sotterraneo e il mondo superiore), è tipico dei miti che alludono alla vegetazione e alla rinascita della natura in primavera. Ma non solo, perché i miti sono molto di più che semplici allegorie, e dietro il velo del ciclo delle stagioni si stratificano significati più profondi per la psiche che da sempre, attraverso le analogie con la natura, esprime i suoi misteri.
L'impianto iniziatico è evidente. Ma mentre per Dante, che è già stato nel suo “inferno”, l'iniziazione coincide con una “salita” sempre più leggera, la visione diventa sempre più chiara e infine ogni senso di colpa sarà lavato dall'immersione nel fiume Lete (aiutato da Matelda), per Inanna invece, che parte adorna di preziosi gioielli e splendente di gloria (tutti simboli dell'importanza data all'Io e ai ruoli di potere), la prova iniziatica è in discesa e consiste nello “spogliarsi” completamente, velo dopo velo, raggiungere la “nuda verità” attraverso le sette porte fino a guardare in faccia la “sorella interiore”, la controparte sotterranea che nulla concede ai fasti del mondo e alle lusinghe dell'amore. Si tratta di fare i conti con sé stessi fino in fondo, morire ad ogni vanità e orgoglio, al narcisismo onnipotente, per poter “risorgere” infine grazie all'aiuto del “Padre” e al parziale sacrificio del rapporto amoroso inteso come felicità sessuale innocente. Il contatto con le profondità dell'inconscio porta con sé un inevitabile momento depressivo (la crisi necessaria per ogni conoscenza della propria parte “oscura”), ma prepara una pienezza di coscienza più “umana” e matura, coscienza che include anche il male e la consapevolezza della propria ombra.
I riferimenti alla passione e morte del Cristo (che in fondo è l'ultimo degli dèi giovani che muoiono e rinascono) sono evidenti...
La danza dei sette veli può essere quindi non solo seduzione, offerta alla libidine e al desiderio maschile, o voluttuoso compiacimento del proprio corpo in movimento e piacere di una libertà dionisiaca e orgiastica, ma diventare un vero e proprio rito iniziatico di “svelamento” di sé stessi fino al riconoscimento di quella “nuda” verità che è la premessa per ogni ulteriore riscoperta di un Sé più completo. Vedremo però che per Salomè l'iniziazione si capovolge in un agito perverso, e non ci sarà “rinascita” ma solo l'abisso della perdita nel tentativo fusionale con l'altro da sé...
La polifonia di modi d'essere si fonde in un magma musicale che non conosce soste, mancando ovviamente in Salome ogni forma di stroficità chiusa. L’unica eccezione, l'unico brano cioè "chiuso", formalmente autonomo e dunque estrapolabile dal contesto, è la celebre, seducente danza orchestrale dei sette veli, l'ultima pagina che Strauss compose prima di licenziare alle stampe la partitura.(Dizionario dell'Opera, ed. Baldini & Castoldi)
Per la «danza dei sette veli» i musicanti attaccano le sincopi primitive d'una danza esotica eseguita da strumenti stridenti e strepitosi, ma Salome li contiene col gesto imperativo, accompagnato dal motivo «voglio la testa di Jochanaan»; dopo di che «il ritmo furioso tosto si placa e dà luogo ad una melodia soavemente cullante». Con questa fantasia sinfonica è creato un nuovo tipo di movimento: non danza da balletto, ma danza d'espressione; non esibizionismo erotico, ma pittura del più intimo di una anima. È un poema danzato, nel quale tutto si svolge intorno ad un unico avvenimento, nel quale tutto e riferito ad un conflitto drammatico. [E tuttavia, venticinque anni dopo, Strauss esigeva che nell'eseguire la danza, Salome si movesse entro uno spazio ristretto e in pose ieratiche, le quali sono in curiosa posizione antitetica alla sua musica dionisiaca.](Otto Erhardt)
Teresa Stratas (Salomè)
dir: Karl Böhm (1974)
Catherine Malfitano (Salomè)
dir: Giuseppe Sinopoli (1990)
Catherine Naglestad (Salomè)
dir: Simone Young (2015)
Erika Sunnegårdh (Salomè)
dir: Nicola Luisotti (2010)
dir: Erich Leinsdorf (1968) | dir: Herbert von Karajan (1977) |
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