26 giugno 2011

La traviata (14) - Il padre: legge e conformismo

Scritto da Marisa

La figura del padre ne "La Traviata" ci dà l'occasione di riflettere su alcune caratteristiche e luoghi comuni che accompagnano nella nostra cultura i vissuti intorno ad essa.

Nelle culture patriarcali, rafforzate dalle religioni monoteiste in cui Dio è vissuto come Padre, tradizionalmente spetta a lui essere il detentore della legge, il custode delle normative che regolano i comportamenti sociali, e ne stabilisce le punizioni a tutti i livelli, dalla microsocietà della famiglia alla grande società della città e dello stato (i padri costituenti, i giudici, ecc...). Se pure, come si ipotizza, c'è stata nella preistoria un'epoca matriarcale, questa è così lontana che praticamente ha lasciato tracce solo nei miti (le Amazzoni, l'epoca della “Grande Madre”...), ma a memoria storica tutta l'organizzazione civile è sempre stata regolata dalla “legge del padre”. Basti ricordare il “Pater familiae” romano, che aveva potere assoluto già nel riconoscimento del figlio con il semplice gesto di sollevarlo dal suolo per attribuirsene la paternità e legittimarlo. Anche nel mondo greco classico, dove c'è ancora un Olimpo popolato anche di grandi Dee, la supremazia spetta comunque a Zeus col titolo di “Padre degli Dei”.

La psicoanalisi, con Freud e poi soprattutto con Lacan, in tempi moderni ha ulteriormente legittimato il padre come fonte e detentore della legge, ponendolo come unico baluardo alla fusione incestuosa della coppia madre-figlio; la presenza del terzo che rompe la dualità e costringe il figlio ad accettare la frustrazione della separazione che darà poi origine al bisogno di simbolizzare (da cui nasce la parola) e alla formazione del Super-Io, primo elemento fondante della voce della coscienza, pena la castrazione. La madre rimane il primo referente affettivo, contenitore e sfondo di tutto lo sviluppo pulsionale, soprattutto per quel che riguarda l'Eros, mentre il padre diventa il fondamento e il garante del “Logos”.

Ma la società non è regolata solo dal diritto e dai suoi codici che garantiscono la giustizia, da leggi che derivano da un'esigenza etica già presente dai tempi delle tavole di Mosé e pertanto universali, ma anche da norme non codificate che riflettono lo spirito del tempo, norme convenzionali, che mutano con l'evolvere delle coscienze e che possono apparire persino strane o immorali alle generazioni successive, o essere completamente diverse rispetto ad altri popoli ed altre culture. Si tratta di una morale collettiva, che tiene massimamente in conto l'orientamento del pensiero dominante e del “buon nome”, dell'opinione che circola, sostenuta dal bisogno di adeguamento sociale e di approvazione da parte delle istituzioni forti, soprattutto la Chiesa.

La figura di Germont, il padre di Alfredo, è sicuramente caratterizzata dall'essere portavoce di principi ed esigenze completamente dominati dallo spirito del tempo, e in questo mostra tutta la sua forza e la sua debolezza. È talmente stereotipato che, conoscendo l'epoca in cui vive e l'ambiente borghese da cui proviene, si potrebbe prevedere tutto quello che dice e tutte le sue argomentazioni. La borghesia rappresenta infatti la classe sociale maggiormente esposta alla tirannia delle convenzioni, perché le classi più elevate si permettono devianze che vengono perdonate come “stravaganze” di nobili e quelle troppo basse sono già escluse dal rispetto perché sentite strutturalmente deboli e degradate.

Chiuso dentro questa gabbia della “rispettabilità”, Germont non sospetta minimamente l'ipocrisia e la crudeltà che incarna, ed è questa “buona fede” che ne fa un personaggio tragico e non odioso. I suoi valori sono talmente condivisi che persino Violetta li accetta e si inchina davanti ad essi. Pur col cuore straziato, sente che il padre di Alfredo ha pienamente il diritto di chiederle di rinunciare al suo amore per permettere alla giovane “sì casta e pura” un matrimonio convenzionale, che sarebbe saltato solo perché il fratello conviveva con lei, ed è addirittura d'accordo con l'esplicita malignità sulla durata effimera dell'amore dell'uomo all'infuori del matrimonio, unica garanzia di durata attraverso i “sacri nodi”.

Tutto il sacrificio di Violetta è in fondo una capitolazione di fronte alla morale convenzionale, e si capisce solo se teniamo presente il suo senso di colpa per essersene dimenticata, per averla rimossa, nella felicità dell'amore. Non si è mai veramente affrancata dalle convenzioni e dai pregiudizi moralistici, come faranno più avanti con un pensiero forte le femministe, ma si è semplicemente illusa di non essere raggiunta e di non dover pagare un prezzo troppo alto a quelle regole che lei stessa ritiene superiori.

Solo alla fine Germont padre esce dall'atteggiamento convenzionale e mostra la possibilità di una scelta individuale e personale, vedendo in Violetta una donna reale e sofferente e non soltanto una cortigiana da allontanare dal figlio. Ma è troppo tardi e non sappiamo neanche se ormai può permetterselo perché ha ottenuto quel che voleva, visto che il matrimonio della figlia “pura siccome un angelo” si è celebrato.

L'intrusività del padre e il suo strapotere nella vita dei figli è un tema ricorrente nelle opere di Verdi: basti pensare a “Rigoletto” e “Aida”, dove l'intervento dei padri è direttamente responsabile della catastrofe finale. Colpisce ogni volta la grande umanità e nobiltà della musica di Verdi, che riesce sempre ad avvolgere questi personaggi in un'atmosfera complessa, mai banale. Il complesso padre-figlio o padre-figlia viene presentato con tali sfumature e profondità da toccare intimamente e giustificare in qualche modo qualsiasi vessazione, in nome dell'amore.