31 marzo 2018

Rigoletto - Riepilogo

Scritto da Christian

Ecco un comodo elenco di tutti i post pubblicati sul "Rigoletto":

- Introduzione
- Preludio

Atto I
- "Questa o quella per me pari sono" ("Della mia bella incognita borghese", "Partite?... Crudele!")
- La maledizione di Monterone ("Ch'io gli parli", "Oh tu che la festa audace hai turbato")
- Sparafucile e "Pari siamo" ("Quel vecchio maledivami!")
- Padre e figlia ("Figlia!... - Mio padre!", "Deh, non parlare al misero", "Veglia, o donna, questo fiore")
- "È il sol dell'anima, la vita è amore" ("Giovanna, ho dei rimorsi", "Addio... speranza ed anima")
- "Caro nome" ("Gualtier Maldè!...", "È là... - Miratela")
- Il rapimento ("Riedo!... perché?", "Zitti, zitti, muoviamo a vendetta")

Atto II
- "Parmi veder le lagrime" ("Ella mi fu rapita!", "Scorrendo uniti remota via", "Possente amor mi chiama")
- "Cortigiani, vil razza dannata" ("Povero Rigoletto!")
- "Tutte le feste al tempio" ("Mio padre! - Dio! Mia Gilda!")
- "Sì, vendetta, tremenda vendetta" ("Compiuto pur quanto a fare mi resta")

Atto III
- "La donna è mobile" ("E l'ami? - Sempre", "È là il vostr'uomo...")
- "Bella figlia dell'amore" ("Un dì, se ben rammentomi")
- La tempesta ("M'odi, ritorna a casa", "È amabile invero cotal giovinotto", "Prends pitié de sa jeunesse")
- Finale ("Della vendetta alfin giunge l'istante!", "V'ho ingannato, colpevole fui")

- Verdi e il complesso di padre


27 marzo 2018

Rigoletto (18) - Verdi e il complesso di padre

Scritto da Marisa

Approfitto di questo blog e del bel lavoro di Christian su "Rigoletto" per fare qualche riflessione sulla figura del padre nelle opere di Verdi. Non sono una musicologa, ma come semplice amante e “fruitrice” dell'opera mi accorgo benissimo quando tra musica e contenuto c'è una vera corrispondenza e un potenziamento reciproco o meno. Persino fra le canzoni (la cosiddetta musica “leggera”, termine che aborro perché vorrebbe dire che quella classica è “pesante” e noiosa, mentre la musica è soltanto buona o cattiva e questo dipende solo da quel miracolo che è la creatività), a restare immortali sono quelle in cui anche il testo è altamente significativo e la musica ne esalta il contenuto. Non a caso un premio Nobel per la letteratura è stato assegnato a Bob Dylan, cantautore dai testi altamente poetici.

Sappiamo che i grandi compositori sceglievano con cura i libretti per le proprie opere, spesso affiancando i librettisti e correggendoli, difendendo il testo contro le censure, fino – nel caso estremo di Wagner – a scriverli in prima persona, non ritenendo nessun altro all'altezza del proprio intento. Bisogna quindi prestare molta attenzione al testo, se si vuol “possedere” l'opera e goderla pienamente, anziché snobbarlo per concentrarsi solo sulle doti vocali dei cantanti o sull'esecuzione orchestrale, come se il libretto fosse un mero pretesto per permettere ai cantanti e direttori d'orchestra di esibire il loro talento. Ricordiamo che l'opera è un miracolo di completezza perché mette insieme teatro, musica, canto, poesia e qualche volta anche la danza, in un godimento che non solo soddisfa il piacere estetico ed emotivo, ma – esattamente come il teatro greco – può educarci sentimentalmente e parlare ai nostri conflitti più profondi contribuendo a quella “catarsi” che è un balsamo, anche se spesso inconscio, per le nostre angosce. “Verdi amò e pianse per tutti noi”, disse Gabriele D'Annunzio alla morte del grande Maestro. E queste parole, incise ancora sulla sua tomba, sono “vere”, al di là di quel che si possa pensare sulla retorica dannunziana...

È evidente, anche per chi dà un'occhiata frettolosa ai libretti, che spesso Verdi ha scelto di musicare drammi pesantemente condizionati dalla figura di un padre, cattivo o buono che sia, e questo, per me che sono una psicanalista, non può non suscitare grande interesse e materia di riflessione. Tra la vita e l'opera di un artista c'è sempre una corrispondenza (scoperta o nascosta) e anche quando sembra che si tratti di pura fantasia, l'artista continua ad elaborare e rappresentare i temi portanti della sua vita in modo tale che il dramma o il conflitto personale tocchino le corde più profonde di tutti gli altri: questo perché riesce a pescare nei recessi di quell'inconscio collettivo che è la matrice portante della psiche di tutti. Così Flaubert poteva dire “Madame Bovary c'est moi!”, e la “Divina Commedia”, oltre che il dramma personale di Dante, la sua crisi e il suo esilio, dà voce immortale a ogni nostro profondo smarrimento nella “selva oscura” della vita, al nostro sentirci esiliati e al senso di perdita di appartenenza, ma anche alla possibilità di una “redenzione” e recupero della salvezza.

Sappiamo che Verdi nasce in una famiglia piuttosto umile e che il padre non ha grande influenza su un figlio così geniale, mentre molta importanza viene rivestita dal facoltoso Antonio Barezzi, che riconosce le doti del ragazzo e lo sostiene, promuovendone la formazione e aprendogli la propria casa fino a permettere il matrimonio con l'amata figlia Margherita. È lui dunque che riveste il ruolo di padre autorevole e da non deludere. Ma il destino si accanisce contro la felicità della giovane coppia: nel 1839, dopo solo tre anni di matrimonio, Verdi perde per una grave malattia infettiva sia la moglie che i due piccolissimi figli. Sono lutti che lo gettano in un dolore profondo, da cui comincerà a riemergere solo nel 1842 con l'accorata creazione del "Nabucco", in cui con il famoso coro “Va pensiero” esprime tutta la nostalgia non solo per la patria ma soprattutto per la perdita del proprio mondo affettivo. E il 1842 sarà anche l'anno della rinascita affettiva e sentimentale, perché conosce il soprano Giuseppina Strepponi, la donna che diventerà la sua seconda moglie e gli starà accanto per tutta la vita, sostenendolo e completandolo in tutti i modi. Proprio questa relazione lo porrà però in conflitto con Antonio Barezzi, colui che a tutti gli effetti considera il suo vero padre. Come non rintracciare il profondo dolore e il conflitto di questa vicenda nelle opere del grande Maestro di Busseto, attraverso le tracce dell'importanza della figura del padre nel destino dei figli? Anche se Verdi è riuscito a seguire il suo cuore e non lasciarsi condizionare dalla volontà del padre adottivo, a cui pur doveva tanto, la figura schiacciante di un genitore è talmente presente nelle sue opere da farci pensare come abbia lottato intensamente per elaborare la sua dipendenza e uscirne “vittorioso”, cosa che quasi mai riuscirà ai protagonisti delle sue opere, sempre sopraffatti e spesso “rovinati” dalle ragioni dei padri. Ma basta tutto questo per spiegarci il senso di profonda fatalità legata alla figura paterna che domina in tante sue opere?

In genere, pur essendo entrato nel linguaggio comune, del concetto di “complesso” si ha un'idea molto parziale o quanto meno approssimativa e spesso sbagliata. Se ci si riferisce poi ai due complessi fondamentali che condizionano pesantemente lo sviluppo psichico, quello “di madre” e quello “di padre”, le cose si complicano e ci si confonde, perché nel corso dello sviluppo della psicoanalisi le interpretazioni sono state diverse, a seconda delle scuole e delle correnti anche all'interno dello stesso schieramento teorico. Possiamo dire che un “complesso” è costituito da un nucleo psichico ad alta incidenza emotivo-affettiva, le cui radici sono in massima parte inconsce, e che si rivela soprattutto negli “agiti”, nelle ripetizioni coatte e nelle “narrazioni” deformate e spesso incorreggibili che colorano tutta la vita, costituendo degli illusori “romanzi famigliari” come risposta a vissuti antichi, sepolti nell'inconscio. Gli attuali studi delle neuroscienze, con l'importanza riconosciuta ai circuiti e ai sistemi sottocorticali (basi biologiche dell'inconscio) che si formano ben prima delle connessioni con la corteccia cerebrale, stanno supportando alcune intuizioni della psicoanalisi e cancellandone altre. Sono state rivalutate quelle intuizioni (Otto Rank, Alice Miller, C. G. Jung) che danno priorità e maggior importanza all'ambiente genitoriale e sociale in cui il bambino si trova ad essere catapultato ben prima di poter capire e farsene una ragione, al trauma del parto e alle situazioni di amore, seduzione, maltrattamenti o rifiuto da parte dai genitori, ai vari traumi che possono susseguirsi durante la fanciullezza, anche tenendo conto delle diverse predisposizioni genetiche di ogni individuo. L'inconscio insomma accumula e crea risposte molto prima di una possibile riflessione legata alla coscienza.

In realtà, quindi, hanno ragione i miti che hanno sempre posto le azioni dei padri e delle madri come antefatti determinanti per le successive azioni dei figli, che si formano inconsciamente come risposte di adattamento e di difesa, costituendo poi dei modelli ripetitivi e nuclei di future nevrosi. Per ritornare al complesso paterno, di cui ci stiamo occupando, bisogna ad esempio ricordarsi che la storia degli dèi non inizia con la ribellione e il parricidio (Saturno che evira Urano per esautorarlo e usurparne il comando, o Zeus che ingaggia la lotta con Saturno sconfiggendolo e relegandolo ai confini del cielo), ma con i padri che non permettono ai figli di nascere (Urano tenendoli schiacciati dentro il ventre materno di Rea, e Saturno divorandoli appena nati). La ribellione violenta dei figli, aiutati per fortuna dalle madri, appare così del tutto legittima e si configura come l'unica via per accedere alle conquiste adulte, scacciando i padri che non accettano di passare l'eredità al figlio e la legittimazione all'autonomia. Nel caso di Edipo poi, preso da Freud ad emblema di amore incestuoso per la madre e uccisione del padre per accedere ad essa, bisogna anche qui spostare l'attenzione sui fatti antecedenti che vedono proprio in Laio – il padre naturale di Edipo – colui che destina il figlio all'abbandono e alla morte ordinando ad un servo di lasciarlo con i piedi legati su un monte esposto alle intemperie e alle belve, spaventato da un oracolo che gli prediceva l'uccisione da parte del figlio. Il destino puntualmente si avvererà, ma solo perché Edipo, abbandonato, viene pietosamente raccolto da un pastore a portato al re e alla regina di Corinto che lo allevano come loro figlio, e solo incidentalmente (ma fatalmente) Edipo si troverà ad incrociare la strada di Laio e ucciderlo, ignorando che si tratti del suo vero padre. L'ulteriore cammino lo porterà poi a Tebe e a diventarne re, sposando la regina-madre Giocasta, premio per la vittoria sulla Sfinge. Da qui tutta la tragedia che ben conosciamo... E nella nostra tradizione biblica come non ricordare Abramo pronto a sacrificare il figlio Isacco, l'unico figlio avuto dalla amatissima Sara? Ma si sa, in qualche modo preferiamo sempre salvare i genitori e puntare il dito sui figli e le loro intemperanze e ribellioni, colpevolizzare i “giovani delinquenti” che tendono a sovvertire l'ordine costituito dai padri e dalla società ovviamente “patriarcale” in nome di un'anarchia irresponsabile e criminosa e di pulsioni incestuose. Ovviamente c'è un comandamento che recita ”Onora il padre e la madre”, ma non uno che imporrebbe di rispettare il figlio, non scandalizzarlo o violentarlo in ogni modo, sia fisico che morale, cose che preparano le future sciagure... Va da sé che, una volta cresciuto, il bambino maltrattato che ha introiettato il comportamento violento e sopraffattore dell'adulto tenderà a esercitare sul proprio figlio lo stesso potere col pretesto di “educarlo”.

Nel “complesso paterno” possiamo individuare almeno tre componenti fondamentali:
1) il rapporto con il padre personale o il suo sostituto;
2) lo spirito del tempo e l'ambiente patriarcale in cui si vive, con le sue usanze, le sue leggi e le sue censure;
3) la forza dell'Archetipo paterno, quell'imago che si può proiettare sulla divinità (il Dio severo dell'Antico Testamento, che comunque rimane nella coscienza cristiana come il “Dio che atterra e suscita” di Manzoni) o su qualsiasi forza transpersonale che incarni il depositario di un destino implacabile. Va da sé che queste raffigurazioni si colorano spesso di sensi di colpa tendendo a credere di meritare in qualche modo di essere puniti.
Nelle opere di Verdi, a guardar bene, queste componenti sono ben presenti tutte e tre.

Gli artisti hanno un filo privilegiato nel rapporto con l'inconscio e spesso, se li leggiamo bene, possiamo imparare da loro molto di più che dagli psicologi o dagli psicoanalisti. E sicuramente Verdi aveva un sesto senso per individuare ed esprimere musicalmente in modo altissimo i conflitti e le tragedie derivanti dal complesso paterno. Se scorriamo i titoli delle sue opere, ne troviamo, a mia memoria, ben nove in cui il padre è la figura chiave che condiziona l'intera vicenda: "I due Foscari", "Luisa Miller", "Don Carlo", "Rigoletto", "La Traviata", "Il Trovatore", "Simon Boccanegra", "La forza del destino" e "Aida". A queste si può anche aggiungere “Ernani”, in cui al posto del padre c'è Silva, uno zio anziano e potente.
Non tutti sono padri negativi, anzi ce ne sono alcuni molto affettuosi in senso realmente positivo ("Luisa Miller", "Simon Boccanegra"); chi, nonostante l'affetto, è tanto ligio al senso del dovere e alla ragion di stato da sacrificare il figlio ("I due Foscari", "Aida"); chi è affettuoso in senso troppo esclusivo e possessivo, tanto da causare la rovina della figlia ("Rigoletto"); chi, intrappolato dalla morale borghese, per proteggere la figlia e garantirle la felicità non esita a richiedere ad un'altra un grave sacrificio intromettendosi pesantemente nella vita del figlio ("La Traviata"); chi, per proteggere il figlio da un presunto maleficio di una zingara, non esita a condannarla al rogo, innescando un destino di tragiche vendette ("Il Trovatore"). E poi ci sono padri che alimentano una pesante conflittualità rubando la donna amata al figlio per sposarla essi stessi ("Don Carlo"), od ostacolando inconsideratamente l'amore della figlia solo per motivi dinastici e innescando la futura rovina ("La forza del destino"). Non si può semplicisticamente parlare quindi di “padri cattivi”, ma sicuramente sono tutti padri che determinano il destino dei figli in modo molto pesante e quasi sempre arrivando alla catastrofe.
A volte i figli sono attaccati al padre in modo molto affettuoso o dipendente, come Luisa Miller e Gilda, a volte sono abbastanza staccati, ma legati ai valori del mondo patriarcale e quindi ricattabili (Alfredo, Aida), a volte ambivalenti (Jacopo Foscari, Eleonora), a volte ostili (Don Carlo); ma per tutti il rapporto non risolto col padre è decisivo. E sempre nella totale assenza di figure materne: solo nel “Trovatore” vediamo una madre, ma si tratta di una madre anomala, una strana figura materna che in realtà non è la vera madre e che, anche se ama svisceratamente Manrico, non esita a rinfacciargli le cure che gli ha prodigato e il dolore che accompagna la sua vista che non può non ricordarle il tragico scambio... E comunque, anche qui è il padre, il Conte di Luna, che è all'origine del misfatto che attiva il bisogno di vendetta.

Ricordiamo che, oltre all'importanza della figura del padre reale, per la formazione di un complesso è determinante anche la situazione socio-culturale in cui si vive. E l'Ottocento è stato un secolo ancora completamente ”patriarcale”, rigido e moralmente bigotto, in cui le donne non avevano alcun diritto... Lo spirito del tempo ha sempre, nel bene e nel male, una grande influenza su tutti, ma gli artisti – che hanno una notevole libertà emotiva – spesso con le loro opere ne rivelano le trappole e le conseguenze negative e, attraverso alcune smagliature, riescono ad anticipare tendenze e alternative alla cultura dominante. E Verdi, pur essendo figlio del suo tempo, ha sempre dimostrato grande autonomia e libertà interiore, sfidando spesso la censura bigotta e conservatrice del tempo. Anche nella scelta affettiva ha saputo difendere il proprio amore dalla più o meno dichiarata disapprovazione collettiva, compresa quella del padre adottivo. Si può quindi dire che anche nell'elaborazione del conflitto socio-ambientale di stampo patriarcale dello spirito del tempo Verdi sia uscito vincitore, e la sua energia creativa e forza morale lo hanno posto al di sopra sia di un'adesione più o meno rassegnata che di un atteggiamento adolescenziale di perenne conflittualità e rifiuto rabbioso.

Ma c'è il terzo aspetto, forse il più importante, più profondo e nascosto ma proprio per questo più potente, che può aiutarci a capire il grande complesso di padre che domina nell'opera di Verdi: il senso del destino legato alla figura biblica di un Dio onnipotente e arbitro assoluto, possessivo e vendicativo, geloso e imperscrutabile; il Dio degli eserciti che trascende completamente il padre personale e può travolgere in un attimo anche un uomo “giusto” come Giobbe, gettandolo nell'abisso di disperazione più completo. Anche se il Cristianesimo ha cercato di addolcire la figura del Dio onnipotente e irato dell'Antico Testamento, chiamandolo col nome familiare di padre amorevole (cosa assolutamente impensabile per un Dio nascosto come Javhè, dal nome impronunciabile), la sua imprevedibile distruttività può sempre scatenarsi e colpire gli uomini che inutilmente cercano di propiziarselo con preghiere e sacrifici, anche andando in cerca delle proprie colpe. Tutti i profeti hanno sempre ammonito il popolo sbigottito e sofferente, convincendolo che tutte le disgrazie, l'esilio, le catastrofi e i massacri, non erano che la punizione per l'infedeltà a quel Dio così geloso e possessivo che intendeva così richiamarlo a sé e che lo avrebbe ancora aiutato a ritornare grande e felice se solo si fosse riconsegnato a lui con tutto il cuore, bandendo per sempre qualsiasi altro dio o interesse.

Anche per chi non è credente, nell'inconscio collettivo non può non rimanere traccia di questa terribile “volontà divina” che può piombare in ogni momento distruggendo tutto quello che si credeva appartenere al proprio mondo. E Verdi lo ha sperimentato duramente sulla propria pelle, come Giobbe, quando in un solo anno perse sia la moglie che i due piccolissimi figli! È questo il duro colpo del destino ad opera di un padre sovrapersonale che in modo sotterraneo continua a permeare la sua opera, rendendola così tragicamente potente e risuonando in tutti dal profondo del comune ed oscuro sentire di un destino che può travolgerci da un momento all'altro (“Come in un sol giorno tutto cangiò, l'altar si rovesciò”, dice Rigoletto).

Rigoletto, padre altamente problematico e possessivo, rimane la figura più emblematica e vittima del capovolgimento che il destino opera. Non a caso Verdi voleva che il titolo dell'opera fosse “La maledizione”. Anche costretto dalla censura a cambiare il titolo, il grido che conclude sia il primo che il terzo atto ci dice chiaramente come non si possa sfuggire ad essa. Ed anche nelle opere in cui non è la figura del padre reale a intromettersi nel destino dei figli, il rimando ad una forza oscura ancora più potente è determinante. Si pensi a "La forza del destino", "Otello", "Macbeth", "Nabucco"... Quando non è il padre terreno, ci pensa comunque una forza divina o demoniaca. Siamo ben lontani dal senso benevolo della “Provvidenza” che caratterizza un altro grande dell'Ottocento, quel Manzoni per la cui morte Verdi ha composto una bellissima e solenne messa da Requiem!

E venendo a parlare di Requiem, come non pensare a Mozart e al complesso paterno che non gli dà tregua, colorando di sé la figura del Commendatore del "Don Giovanni" fino a perseguitarlo (come ha intuito il regista Miloš Forman in una indimenticabile scena del film "Amadeus") nella veste di un inquietante uomo mascherato che gli commissiona, quando è già irreparabilmente malato, proprio una messa da Requiem?

24 marzo 2018

Rigoletto (17) - Finale

Scritto da Christian

Sta per suonare la mezzanotte (e quando avverrà, i suoi dodici rintocchi saranno sulla nota di Do, quella stessa nota che ci ha accompagnato per tutta l'opera nei momenti legati al destino e alla maledizione). Rigoletto fa ritorno all'osteria di Sparafucile, pregustando il compimento della sua vendetta. "Oh, come invero qui grande mi sento!", dice a sé stesso. E più tardi, quando è convinto di avere ai suoi piedi il cadavere del Duca, ribadisce: "Ora mi guarda, o mondo! Quest’è un buffone, ed un potente è questo! Ei sta sotto ai miei piedi! È desso! O gioia!". Sembra quasi che la sua vendetta travalichi i confini della questione personale, e si tinga di un orgoglio e di un'ambizione tale da ricordare il peccato di hybris, quel tema ricorrente nelle tragedie greche che vede un personaggio uscire dai propri limiti naturali, peccare di superbia o di tracotanza, ribellarsi contro l'ordine costituito (umano o divino che sia), per essere poi regolarmente punito dagli déi. E ci accorgiamo che il "Rigoletto" ha tutte le caratteristiche di una moderna tragedia greca.

Sparafucile consegna al buffone il presunto cadavere del Duca all'interno di un sacco, intimandogli di gettarlo al più presto nel fiume ("Lesti all’onda il gettiam"... "Presto, che alcun non vi sorprenda"): naturalmente è anche nel suo interesse che il corpo del delitto scompaia rapidamente, in modo che il gobbo non si renda conto che l'uomo ucciso non è quello per cui ha pagato. Dopodiché, si rinchiude in casa, visto che Rigoletto afferma di volerlo fare da solo. Ma proprio mentre il buffone sta per consegnare il cadavere alle profondità del Mincio ("All'onda, all'onda!"), ecco che la voce del Duca (che, risvegliatosi, torna a cantare "La donna è mobile"), rivelandogli che l'odiato nobile è ancora in vita.

In questa terza ripresa de "La donna è mobile", a differenza delle prime due, Verdi ha specificatamente indicato al tenore di concludere con l'acuto sostenuto: una nota che colpisce come una coltellata le mente e l'anima di Rigoletto (è solo in questa ripresa, fra l'altro, che la canzone del Duca acquista tutto il suo significato drammaturgico, elevandosi al di sopra di una semplice e futile melodia, per quanto gradevole e orecchiabile). Sconvolto e sopreso, il buffone apre il sacco e, con orrore, scopre sua figlia Gilda, la cui presenza è talmente inaspettata che per un breve istante dubita addirittura di ciò che i suoi occhi vedono ("Ah no... È impossibil! Fu vision...").

Gilda è ferita a morte, ma respira ancora. E con un filo di voce, spiega al padre che ha scelto di morire di propria volontà, che nessun altro è colpevole. Gli chiede perdono ma anche di non voler insistere con la sua vendetta sul Duca ("A me, a lui perdonate"). La scena è struggente: dopo un breve duetto caratterizzato da un andamento lento e solenne (qualcuno lo ha definito una specie di "danza della morte", colmo di sentimenti umani ma anche trascendenti), la ragazza spira (Julian Budden ha notato come "le quattro battute finali di Gilda contengono uno scarto armonico semitonale degno del Requiem"), lasciando il protagonista a disperarsi e, soprattutto, a rendersi conto che la profezia di Monterone si è finalmente compiuta: "Ah, la maledizione!", grida mentre cala il sipario.

«V’ho ingannata, colpevole fui» è una delle frasi più disperate che mai abbia pronunciato una donna verdiana, e tocca così profondamente il cuore da farci sembrare forse l’unico omaggio, del resto doveroso, alle convenzioni dei più: il momento in cui, accompagnata dagli arpeggi del flauto, Gilda offre al padre l’unica consolazione per i poveri e i reietti, «Lassù in cielo, vicino alla madre». Quel cielo di delizie incorporee non può esistere per il povero gobbo che, impotente, è messo di fronte al suo totale fallimento.
(Michele Girardi)
Lo stato allucinatorio che, quasi dall’inizio alla fine, accompagna il protagonista potrebbe poi essere il viatico per interpretazioni di taglio addirittura espressionistico. È un’allucinazione che, ancora una volta, trova sintesi in "Pari siamo", dove le immagini evocate – Sparafucile, Monterone, il Duca, i cortigiani – danno l’idea di scorrere come se passassero non sotto i nostri occhi, ma sotto quelli del monologante; e ci si può anche spingere più in là, ipotizzando – è la tesi di uno studioso di sicura fede verdiana come Gustavo Marchesi – che l’intero Rigoletto sia la storia di un’allucinazione, e tutti i personaggi siano fantasmi della mente del protagonista. Il finale della tragedia di Hugo, che prevede l’improvvisa apparizione di una folla attorno a Rigoletto sul cadavere di Gilda, e fa calare il sipario su una battuta tanto più asettica quanto più irreale (la diagnosi di decesso da parte d’un medico sopraggiunto all’ultimo momento), potrebbe corroborare una simile lettura. Verdi – anticonformista, sì, ma abbastanza pragmatico da non deludere ogni aspettativa del pubblico – preferì rinunciare a un epilogo così straniante, limitandosi a un ultimo duetto. Ma la macchina destinata a scompaginare tutte le certezze del lessico operistico, ormai, l’aveva messa in moto.
(Paolo Patrizi)
Forse perché giudicato troppo convenzionale, per qualche tempo (oggi fortunatamente non più) poteva capitare di assistere a rappresentazioni del "Rigoletto" che omettevano il duetto finale fra il protagonista e Gilda. Eppure, anche se melodrammatico e un po' patetico, il pezzo è importante per la risoluzione del dramma. Giusto per completezza, segnalo anche che negli anni immediatamente successivi alla prima esecuzione (dunque ancora a metà ottocento), quando il "Rigoletto" veniva allestito in altre città in versioni più o meno censurate o modificate, fu proposto anche un finale in cui Gilda non moriva affatto ma riacquistava miracolosamente la salute: e al posto di gridare "Ah, la maledizione", Rigoletto nel finale prorompeva in un ridicolo "Oh, clemenza del cielo!".

Sempre a proposito di censura, un'attenzione particolare va posta sul sacco dentro il quale Sparafucile nasconde il corpo di Gilda, oggetto di scena che prima ancora di comporre l'opera fu al centro di una delle tante contese fra Verdi e le autorità austriache, le quali (oltre alle modifiche di cui già sappiamo) gli avevano chiesto di eliminarlo. In una lettera a Martelli, Direttore dell’Ordine Pubblico, il compositore scriveva: "Non capisco perché siasi tolto il sacco! Cosa importava del sacco alla polizia? Temono dell’effetto? Ma mi si permetta dire: perché ne vogliono sapere in questo più di me? Chi può fare da Maestro? […] Una difficoltà di questo genere c’era pel corno d’Ernani: ebbene chi ha riso al suono di quel corno? Tolto quel sacco non è probabile parli una mezza ora a cadavere prima che un lampo venga a scoprirlo per quello della figlia".
Più importanti [...] sono le implicazioni del sacco, al di là di quello che rappresentava per la censura, vale a dire un oggetto in uso a macellai o bottegai, dunque di basso rango, per di più calcato simbolicamente dal piede di un miserabile che schiaccia un nobile. Esso cela per l’ultima volta la realtà alla vista del buffone, e gli consente di vivere per pochi, atroci istanti, una fallace riconciliazione col potere testé umiliato. Dentro al sacco, squarciato con rabbia e ansia indicibile nel riudire il Duca, c’è tutto il mondo dei suoi affetti, c’è quella figlia che sino a quel momento aveva salvato l’intimo del suo animo dall’ostilità del mondo esterno. Il gioco interno/esterno è dunque caleidoscopico, poiché mille fili s’intrecciano in telaio fittissimo: giunge un segnale musicale (la ripresa de «La donna è mobile») a giustiziare l’illusione di Rigoletto, visivamente rappresentata da una ruvida scorza che ricopre una materia palpitante. È come se un moto dell’animo venisse tradotto in evidenza rappresentativa.
(Michele Girardi)
Clicca qui per il testo di "Della vendetta alfin giunge l’istante".

(Rigoletto solo si avanza chiuso nel suo mantello. La violenza del temporale è diminuita, né più si vede e sente che qualche lampo e tuono.)

RIGOLETTO
Della vendetta alfin giunge l’istante!
Da trenta dì l’aspetto
di vivo sangue a lagrime piangendo,
sotto la larva del buffon.
Quest’uscio...
(esaminando la casa)
è chiuso!... Ah, non è tempo ancor!
S’attenda.
Qual notte di mistero!
Una tempesta in cielo,
in terra un omicidio!
Oh, come invero qui grande mi sento!
(Suona mezzanotte.)
Mezzanotte!

SPARAFUCILE (uscendo di casa)
Chi è là?

RIGOLETTO (per entrare)
Son io.

SPARAFUCILE
Sostate.
(Rientra e torna trascinando un sacco.)
È qua spento il vostro’uomo.

RIGOLETTO
Oh gioia!... Un lume!

SPARAFUCILE
Un lume?... No, il denaro.
(Rigoletto gli dà una borsa.)
Lesti all’onda il gettiam...

RIGOLETTO
No, basto io solo.

SPARAFUCILE
Come vi piace. Qui men atto è il sito.
Più avanti è più profondo il gorgo.
Presto, che alcun non vi sorprenda. Buona notte.
(Rientra in casa.)

RIGOLETTO
Egli è là!...morto!
Oh sì... Vorrei vederlo!
Ma che importa?... È ben desso!
Ecco i suoi sproni!
Ora mi guarda, o mondo!
Quest’è un buffone, ed un potente è questo!
Ei sta sotto ai miei piedi! È desso! O gioia!
È giunta alfine la tua vendetta, o duolo!
Sia l’onda a lui sepolcro,
un sacco il suo lenzuolo.
All’onda! All’onda!

(Fa per trascinare il sacco verso la sponda, quando è sorpreso dalla lontana voce del Duca, che nel fondo attraversa la scena.)

DUCA
La donna è mobile, ecc.

RIGOLETTO
Qual voce!... Illusion notturna è questa!
(trasalendo)
No!... No! egli è desso...
(verso la casa)
Maledizione! Olà... Dimon bandito!
(Taglia il sacco.)
Chi è mai, chi è qui in sua vece?
(lampeggia)
Io tremo... È umano corpo!
Mia figlia!... Dio!... Mia figlia!
Ah no... È impossibil!
Per Verona è in via!
(inginocchiandosi)
Fu vision... È dessa!
O mia Gilda: fanciulla, a me rispondi!
L’assassino mi svela... Olà?... Nessuno?
(Picchia disperatamente alla porta.)
Nessun!...
(tornando presso Gilda)
Mia figlia? Mia Gilda?... Oh, mia figlia!

GILDA
Chi mi chiama?

RIGOLETTO
Ella parla!... Si muove!...
È viva!... Oh Dio!
Ah, mio ben solo in terra...
Mi guarda... Mi conosci...

GILDA
Ah, padre mio!

RIGOLETTO
Qual mistero!... Che fu?...
Sei tu ferita?... Dimmi...

GILDA (indicando al core)
L’acciar qui mi piagò.

RIGOLETTO
Chi t’ha colpita?

Clicca qui per il testo di "V’ho ingannato... Colpevole fui...".

GILDA
V’ho ingannato... Colpevole fui...
L’amai troppo... Ora muoio per lui!

RIGOLETTO (da sé)
Dio tremendo! Ella stessa fu colta
dallo stral di mia giusta vendetta!
(a Gilda)
Angiol caro! Mi guarda, m’ascolta!
Parla, parlami, figlia diletta.

GILDA
Ah, ch’io taccia! A me, a lui perdonate.
Benedite alla figlia, o mio padre...
Lassù in cielo, vicina alla madre,
in eterno per voi pregherò.

RIGOLETTO
Non morire, mio tesoro, pietade!
Mia colomba, lasciarmi non dêi!

GILDA
Lassù in cielo, ecc.

RIGOLETTO
Oh, mia figlia!
No, lasciarmi non dêi, non morir.
Se t’involi, qui sol rimarrei.
Non morire, o ch’io teco morrò!

GILDA
Non più... A lui perdonate.
Mio padre... Addio!
Lassù in ciel, ecc.

RIGOLETTO
Oh mia figlia! Oh mia Gilda!
No, lasciarmi non dêi, non morir!

(Gilda muore.)

RIGOLETTO
Gilda! Mia Gilda!... È morta!
Ah, la maledizione!
(Strappandosi i capelli, cade sul cadavere della figlia.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda),
Ferruccio Furlanetto (Sparafucile), Luciano Pavarotti (Duca)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda),
Dimitri Kavrakos (Sparafucile), Roberto Alagna (Duca)
dir: Riccardo Muti (1994)


"V'ho ingannato, colpevole fui"
Renata Scotto, Dietrich Fischer-Dieskau (1964)

"V'ho ingannato, colpevole fui"
Joan Sutherland, Sherrill Milnes (1971)




La Maledizione: forse il nobile Monterone, tonante "convitato di pietra", uscirà dal carcere, ma l’umile reietto non può evitare il proprio destino – ed è questo il messaggio pessimistico che ci giunge da Rigoletto. La fiducia in un ideale di riscatto da questo momento lascia Verdi per sempre, segno che il suo laicismo sta per divenire radicale. Quella sorte che sfascia un uomo predestinato prenderà aspetti più concreti, vestendo gli abiti da sera dell’ipocrita società borghese che accelera il disfacimento di Violetta Valéry, o la tonaca del Grande Inquisitore, emblema del cupo potere clericale che annienta Elisabetta e Don Carlos, o il costume ieratico di Ramfis, gran sacerdote che condanna Radames e Aida. Contro di essa, in un utopico tentativo di riconciliazione, il soprano del Requiem invocherà «Libera me».
(Michele Girardi)

20 marzo 2018

Rigoletto (16) - La tempesta

Scritto da Christian

Rigoletto ordina alla figlia di tornare a casa, di vestirsi da uomo (per maggior sicurezza) e di partire a cavallo per Verona, dove lui la raggiungerà l'indomani a vendetta compiuta. Dopodiché prende gli ultimi accordi con Sparafucile ("Venti scudi hai tu detto? Eccone dieci, e dopo l’opra il resto"), confermandogli che vuole il Duca morto e spiegandogli che tornerà a mezzanotte per gettare il cadavere nel fiume. Non si capisce bene perché non rimanga ad assistere all'omicidio, se non per necessità drammaturgiche. Alla richiesta di Sparafucile di conoscere il nome della sua vittima (ricordiamo che il brigante è straniero, borgognone, e dunque è plausibile che non riconosca il volto del Duca), il gobbo risponde: "Egli è Delitto, Punizion son io". A parte Dostoevskij, impossibile non pensare a Sylvester Stallone che nel film "Cobra" diceva ai criminali: "Tu sei il male, io sono la cura"!.

Nel frattempo il Duca continua a intrattenersi con Maddalena, bevendo e ridendo: nel loro dialogo, ogni tanto, si può udire un richiamo musicale al quartetto precedente, "Bella figlia dell'amore". Ma sta per avvicinarsi una tempesta: si odono già i primi tuoni e l'inizio della pioggia. La rappresentazione di un temporale in musica è un classico luogo comune dell'opera italiana (si pensi in particolare agli esempi rossiniani ne "Il barbiere di Siviglia" o ne "La cenerentola"), ma qui Verdi non lo utilizza come elemento separatore bensì lo ingloba sullo sfondo di una scena che comprende recitativi e terzetti. Julian Budden commenta: "Diversamente dalla maggior parte dei temporali musicali, questo non è organizzato in modo continuo fino alla massima esplosione, ma è concepito in modo da sembrare sempre presente". Musicalmente le forze della natura sono tratteggiate in modo esemplare, dai primi brontolii in lontananza fino al ricorrere di tre elementi a più riprese: i lampi, i tuoni e il vento (reso, quest'ultimo, con le voci del coro dietro la scena). Visto il brutto tempo, il Duca conferma la sua intenzione di pernottare nella locanda (Sparafucile gli cede il suo letto), rifiutando l'invito di Maddalena a partire. La ragazza, infatti, lo ha preso in simpatia e vorrebbe risparmiargli la sorte funesta che il fratello ha in serbo per lui. Vediamo dunque il Duca spostarsi nel granaio, adagiarsi sul letto e addormentarsi canticchiando "La donna è mobile", la cui ripresa ci conferma come si tratti di una canzone sempre nei suoi pensieri.

Rimasta sola con Sparafucile, Maddalena comincia a esternare le sue perplessità: il giovane sconosciuto è "amabile invero", vale molto più di venti scudi... La prostituta che nel quartetto precedente scherzava sull'amore con un certo cinismo ha finito anche lei per innamorarsi. E alla fine chiede esplicitamente al fratello di risparmiare la vita al Duca: "Somiglia un Apollo quel giovane, io l’amo, ei m’ama... riposi... né più l’uccidiamo". E visto che Sparafucile è preoccupato soprattutto di intascare la ricompensa, Maddalena arriva persino a proporgli di uccidere Rigoletto quando tornerà con i restanti dieci scudi. Ma l'assassino dimostra di avere, nonostante tutto, una sua "deontologia professionale": "Un ladro son forse? Son forse un bandito? Qual altro cliente da me fu tradito? Mi paga quest’uomo, fedele m’avrà". Ma alla fine, dopo altre insistenze da parte della sorella, si offre di uccidere al posto del Duca la prima persona che giungerà alla locanda entro mezzanotte ("Se pria ch’abbia il mezzo la notte toccato / alcuno qui giunga, per esso morrà"). Certo, realisticamente la cosa ha poco senso: Rigoletto lo ha pagato per eliminare un uomo ben preciso, e non uno a caso. Ma un volta chiuso nel sacco e buttato nel fiume, pensa il brigante, un cadavere vale un altro: inoltre il buffone lascerà immediatamente la città, e dunque potrebbe non venire mai a conoscenza della verità (ricordiamo ancora una volta che Sparafucile ignora che la vittima designata sia il Duca, cioè un personaggio la cui scomparsa o meno è destinata a fare rumore).

Nel frattempo, all'esterno della locanda, è ricomparsa Gilda: vestita in abiti maschili, come le aveva chiesto il padre, non è però partita per Verona ma ha sentito il bisogno di tornare in questo luogo fatidico, come guidata dal destino o, meglio ancora, dall'amore ("Amor mi trascina...", dice in effetti). Assiste così al dialogo fra i due fratelli e apprende finalmente qual è il piano di vendetta del padre, nonché la sorte che attende l'amato Duca. Nell'udire i tentativi di Maddalena di salvargli la vita ("Oh, buona figliuola!", commenta: un po' fuori luogo, visto che poco prima la donna aveva proposto di uccidere a tradimento Rigoletto!), si stupisce anche lei di come una donna di questo tipo pianga per lui. E prende la risoluzione più terribile: quella di sacrificare la propria vita per salvare l'amato.

Che! piange tal donna! né a lui darò aita!
Ah, s’egli al mio amore divenne rubello,
io vo’ per la sua gettar la mia vita.
Come all'esterno la tempesta aumenta di intensità, così cresce il contrasto nell'animo dei tre personaggi. Anche il rintocco delle campane (naturalmente in Do), che annunciano l'approssimarsi della mezzanotte, concorre all'atmosfera musicale. Il percorso drammaturgico del personaggio di Gilda raggiunge qui il suo culmine.
Quella bimba ingenua sino al limite del credibile, dopo aver conosciuto l’amore in modo diverso da come l’immaginava, diviene traumaticamente, prima nella confessione dell’oltraggio subito (il rapimento e la rottura dell’illusione nell’incontro col Duca a palazzo, e chissà che altro ancora: «Tutte le feste al tempio»), poi nel quartetto "Bella figlia dell'amore" e infine nella «Scena, terzetto e tempesta», una donna matura e consapevole, assoluta dominatrice della scena.
(Michele Girardi)
La decisione è presa: Gilda bussa alla porta dell'osteria, fingendosi un mendicante, e va volontariamente incontro alla morte, nella consapevolezza di salvare così la vita di un uomo che pure non la ama. L'amore di Gilda, invece, è talmente grande che prima di compiere il gesto fatale non ha soltanto un pensiero per il padre ma persino per i suoi due carnefici ("Oh ciel, per quegl’empi ti chieggo perdono!"). Subito dopo che la ragazza è ferita a morte, la tempesta sembra cominciare a placarsi.
L’altro luogo dell’opera in cui un evento che si svolge all’esterno è posto in relazione col quadro visivo e con il dramma è la tempesta del terz’atto, citata anche come tale nell’indice dei pezzi (n. 13 «Scena, Terzetto e Tempesta»). E pensiamo anche alla portata metaforica di tale evento, visto che noi partecipiamo dell’azione in modo speciale, poiché vediamo contemporaneamente l’osteria da fuori e da dentro. Qui Verdi impiegò, ed è un unicum nel suo teatro, il coro maschile in funzione connotativa: lo schema della mimesi dell’atmosferico prevede il lampo, seguito dal tuono (cui da voce il rullo dalla gran cassa interna) e dal coro maschile, che vocalizza a bocca chiusa sopra un movimento cromatico di terze parallele, il cui ambito d’estensione, ampliato da una terza minore a una quinta diminuita, accompagna le varie fasi d’intensità del fenomeno. L’effetto ha mire realistiche, ma viene prodotto con mezzi onomatopeici – in termini riduttivi l’intervento del coro potrebbe essere definito come la mimesi del vento – rispecchiando fedelmente la celebre massima del maestro per cui era meglio «inventare il vero» piuttosto che imitarlo pedissequamente. Questo ‘vero’ ricreato è il clima ideale per un omicidio, poiché accresce a dismisura la tensione e interagisce con i personaggi: Sparafucile, da bravo professionista, intravede i vantaggi per il proprio lavoro («La tempesta è vicina!.. / Più scura fia la notte»), mentre Gilda torna sui suoi passi con l’animo scosso da oscuri presagi («Qual notte d’orror»). Maddalena, che per salvare il giovane di cui s’è invaghita ha convinto il fratello a uccidere il primo viandante che busserà alla porta, viene còlta da una comprensibile ansia («È buia la notte, il ciel troppo irato, / Nessuno a quest’ora da qui passerà»), dal canto suo il Duca rimane totalmente indifferente all’osservazione di Sparafucile («E pioverà tra poco – Tanto meglio / Io qui mi tratterrò »). Ma la tempesta ha l’effetto più forte su Rigoletto, al suo rientro in scena per riscuotere il sacco che ha commissionato: «Qual notte di mistero! Una tempesta in cielo!... In terra un omicidio!... Oh come invero qui grande mi sento!». Il fulminante parallellismo fra cielo e terra, fallace presupposto della sua grandezza, gli si rovescerà addosso poco dopo con tutta la forza di un’ironia che più tragica non potrebbe essere.
(Michele Girardi)
Clicca qui per il testo di "M’odi! Ritorna a casa".

RIGOLETTO (a Gilda)
M’odi! Ritorna a casa.
Oro prendi, un destriero,
una veste viril che t’apprestai,
e per Verona parti.
Sarovvi io pur doman.

GILDA
Or venite...

RIGOLETTO
Impossibil.

GILDA
Tremo.

RIGOLETTO
Va.

(Il Duca e Maddalena stanno sempre fra loro parlando, ridendo, bevendo. Partita Gilda, Rigoletto va dietro la casa, e ritorna parlando con Sparafucile e contandogli delle monete.)

RIGOLETTO
Venti scudi hai tu detto? Eccone dieci,
e dopo l’opra il resto.
Ei qui rimane?

SPARAFUCILE
Sì.

RIGOLETTO
Alla mezzanotte ritornerò.

SPARAFUCILE
Non cale;
a gettarlo nel fiume basto io solo.

RIGOLETTO
No, no; il vo’ far io stesso.

SPARAFUCILE
Sia... Il suo nome?

RIGOLETTO
Vuoi sapere anche il mio?
Egli è Delitto, Punizion son io.
(Parte; il cielo si oscura e tuona.)

SPARAFUCILE
La tempesta è vicina!
Più scura fia la notte.

DUCA
Maddalena?
(per prenderla)

MADDALENA (sfuggendogli)
Aspettate... Mio fratello viene.

DUCA
Che importa?

MADDALENA
Tuona!

SPARAFUCILE (entrando)
E pioverà tra poco.

DUCA
Tanto meglio.
Tu dormirai in scuderia...
All’inferno... Ove vorrai.

SPARAFUCILE
Oh, grazie.

MADDALENA (piano al Duca)
Ah no!... Partite.

DUCA (a Maddalena)
Con tal tempo?

SPARAFUCILE (piano a Maddalena)
Son venti scudi d’oro.
(al Duca)
Ben felice d’offrirvi la mia stanza.
Se a voi piace tosto a vederla andiamo.
(prende un lume e s’avvia per la scala)

DUCA
Ebben, sono con te... Presto, vediamo.
(Dice una parola all’orecchio di Maddalena e segue Sparafucile.)

MADDALENA
Povero giovin!... Grazioso tanto!
Dio! qual notte è questa!

DUCA
(giunto al granaio, vedendone il balcone senza imposte)
Si dorme all’aria aperta? Bene, bene.
Buona notte.

SPARAFUCILE
Signor, vi guardi Iddio.

DUCA
Breve sonno dormiam; stanco son io.
(Depone il cappello, la spada e si stende sul letto. Maddalena frattanto siede presso la tavola. Sparafucile beve dalla bottiglia lasciata dal Duca. Rimangono ambedue taciturni per qualche istante, e preoccupati da gravi pensieri.)
La donna è mobile,
qual piuma al vento,
muta d’accento
e di pensiero...
muta d’accento
e di pen...
la donna... è mobil... ecc.
(s’addormenta)

Clicca qui per il testo di "È amabile invero cotal giovinotto".

MADDALENA
È amabile invero
cotal giovinotto.

SPARAFUCILE
Oh sì... Venti scudi
ne dà di prodotto.

MADDALENA
Sol venti!... Son pochi!
valeva di più.

SPARAFUCILE
La spada, s’ei dorme,
va, portami giù.

(Maddalena sale al granaio e contempla il dormente, poi ripara alla meglio il balcone e scende portando con sé la spada. Nel frattempo Gilda comparisce nel fondo della via in costume virile, con stivali e speroni, e lentamente si avanza verso l’osteria, mentre Sparafucile continua a bere. Spessi lampi e tuoni.)

GILDA (da sé)
Ah, più non ragiono!
Amor mi trascina...
Mio padre, perdono!
(tuono)
Qual notte d’orrore!
Gran Dio, che accadrà?

MADDALENA
(posata la spada del Duca sulla tavola)
Fratello?

GILDA (osservando per la fessura)
Chi parla?

SPARAFUCILE (frugando in un credenzone)
Al diavol ten va!

MADDALENA
Somiglia un Apollo,
quel giovane, io l’amo,
ei m’ama... Riposi...
né più l’uccidiamo.

GILDA (ascoltando)
Oh cielo!

SPARAFUCILE (gettandole un sacco)
Rattoppa quel sacco!

MADDALENA
Perché?

SPARAFUCILE
Entr’esso il tuo Apollo, sgozzato da me,
gettar dovrò al fiume.

GILDA
L’inferno qui vedo!

MADDALENA
Eppure il denaro salvarti scommetto
serbandolo in vita.

SPARAFUCILE
Difficile il credo.

MADDALENA
M’ascolta... Anzi facil ti svelo un progetto.
De’ scudi già dieci dal gobbo ne avesti;
venire cogli altri più tardi il vedrai...
Uccidilo, e venti...

GILDA
Che sento!

MADDALENA
...allor ne avrai...

GILDA
Mio padre!

MADDALENA
...così tutto il prezzo goder si potrà.

SPARAFUCILE
Uccider quel gobbo! Che diavol dicesti!
Un ladro son forse? Son forse un bandito?
Qual altro cliente da me fu tradito?
Mi paga quest’uomo, fedele m’avrà.

MADDALENA
Ah, grazia per esso!

SPARAFUCILE
È d’uopo ch’ei muoia.

MADDALENA
Fuggire il fo adesso.
(Va per salire.)

GILDA
Oh, buona figliuola!

SPARAFUCILE (trattenendola)
Gli scudi perdiamo.

MADDALENA
È ver!

SPARAFUCILE
Lascia fare.

MADDALENA
Salvarlo dobbiamo.

SPARAFUCILE
Se pria ch’abbia il mezzo la notte toccato
alcuno qui giunga, per esso morrà.

MADDALENA
È buia la notte, il ciel troppo irato,
nessuno a quest’ora da qui passerà.

GILDA
Oh, qual tentazione! morir per l’ingrato?
Morire!... E mio padre!... Oh cielo, pietà!

MADDALENA
È buia la notte, ecc.

SPARAFUCILE
Se pria ch’abbia, ecc.

GILDA
Oh cielo, pietà, ecc.

(Battono le undici e mezzo.)

SPARAFUCILE
Ancor c’è mezz’ora.

MADDALENA (piangendo)
Attendi, fratello...

GILDA
Che! piange tal donna! né a lui darò aita!
Ah, s’egli al mio amore divenne rubello,
io vo’ per la sua gettar la mia vita.
(Picchia alla porta.)

MADDALENA
Si picchia?

SPARAFUCILE
Fu il vento.
(Gilda torna a bussare.)

MADDALENA
Si picchia, ti dico.

SPARAFUCILE
È strano!... Chi è?

GILDA
Pietà d’un mendico;
asil per la notte a lui concedete.

MADDALENA
Fia lunga tal notte!

SPARAFUCILE
Alquanto attendete.
(Va a cercare nel credenzone.)

MADDALENA
Su, spicciati, presto, fa l’opra compita:
anelo una vita con altra salvar.

SPARAFUCILE
Ebbene, son pronto; quell’uscio dischiudi,
più ch’altro gli scudi mi preme salvar.

GILDA (da sé)
Ah! presso alla morte, sì giovine sono!
Oh ciel, per quegl’empi ti chieggo perdono!
Perdona tu, o padre, a quest’infelice!
Sia l’uomo felice ch’or vado a salvar.

MADDALENA
Spicciati, presto, ecc.

SPARAFUCILE
Bene, son pronto, ecc.

MADDALENA
Spicciati!

SPARAFUCILE
Apri!

MADDALENA
Entrate!

GILDA (da sé)
Dio! Loro perdonate!

MADDALENA, SPARAFUCILE
Entrate!

(Sparafucile va a postarsi con un pugnale dietro alla porta; Maddalena apre e poi corre a chiudere la grande arcata di fronte, mentre entra Gilda, dietro a cui Sparafucile chiude la porta, e tutto resta sepolto nel silenzio e nel buio.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda),
Ferruccio Furlanetto (Sparafucile), Victoria Vergara (Maddalena), Luciano Pavarotti (Duca)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda),
Dimitri Kavrakos (Sparafucile), Mariana Pentcheva (Maddalena), Roberto Alagna (Duca)
dir: Riccardo Muti (1994)


Vladimir Stoyanov (Rigoletto), Rachele Gilmore (Gilda),
Kim Dae-young (Sparafucile), Kim Jung-mi (Maddalena), Chung Ho-yoon (Duca)
dir: Chung Chi-yong (2019)


"È amabile invero"
Maria Callas (Gilda), Nicola Zaccaria (Sparafucile), Adriana Lazzarini (Maddalena) (1955)

"È amabile invero"
Elena Mosuc (Gilda), Lászlo Polgár (Sparafucile), Katharina Peetz (Maddalena) (2006)



Quando nel 1858 il "Rigoletto" fu dato in francese al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles, l'interprete del personaggio di Maddalena (evidentemente insoddisfatta di figurare soltanto nel quartetto e nel terzetto durante la tempesta) chiese di avere un'aria tutta per sé. Léon Escudier, l'editore francese di Verdi, adattò allora una romanza del compositore di Busseto, "Il poveretto" (risalente al 1847, su parole di Manfredo Maggioni), trasformandola nel brano “Prends pitié de sa jeunesse” in cui la sorella di Sparafucile implora il fratello di risparmiare la vita del Duca. Tale brano solistico è riportato ancora oggi in numerosi libretti francesi. Il musicologo Julian Budden osserva: "È impensabile che Escudier potesse pubblicare questa cosiddetta “Romanza dal Rigoletto” senza l’autorizzazione di Verdi. Sembra che si abbia a che fare con uno di quei curiosi casi in cui il compositore, una volta certo della circolazione duratura di una delle sue opere, si mostrò sorprendentemente disposto a passare sopra l’integrità del suo testo, purché non si trattasse di pirateria editoriale".

Clicca qui per il testo di "Prends pitié de sa jeunesse".

MADDALENA
Prends pitié de sa jeunesse;
il vient libre et sans secours.
O mon frère, il m’intéresse;
n’attentez pas à ses jours.

Le sommeil clot sa paupière
calme, heureux, sans crainte il dort:
cede enfin à ma prière…
ou je vais sauver son sort.

Une soeur, ou bien sa mère
doit l’attendre en ce moment;
songe à sa douleur amère,
à ses larmes, son tourment.

Vois, je pleure et je t’implore…
sois sensible et sans rigoeur.
Ah, par grâce, laisse encore
vivre, hélas! un si beau coeur.
Ah, grâce! Pitié!
MADDALENA
Abbi pietà della sua giovinezza;
è venuto qui senza alcun soccorso.
Fratello, egli mi interessa;
non attentare ai suoi giorni.

Il sonno chiude le sue palpebre;
calmo, felice, dorme senza paura:
cedi infine alla mia preghiera…
o io lo salverò dalla sua sorte.

Una sorella, o forse sua madre
deve aspettarlo ora;
pensa al suo dolore amaro,
alle sue lacrime, al suo tormento.

Guarda, io piango e t’imploro…
sii sensibile e senza rigore.
Ah, per pietà, lascia ancora
vivere, ahimé, un cuore così nobile.
Ah, grazia! Pietà!


"Prends pitié de sa jeunesse"
(Manuela Custer)

"Il poveretto"
(Giuseppe di Stefano)

15 marzo 2018

Rigoletto (15) - "Bella figlia dell'amore"

Scritto da Christian


Si sono appena spenti gli echi de "La donna è mobile", e già la partitura verdiana ci offre un altro numero memorabile, forse il quartetto più celebre di tutta l'opera lirica, nonché il brano musicalmente più riuscito dell'intero "Rigoletto" (anche se, come già detto, "La donna è mobile" è probabilmente il più noto). Le quattro voci che lo compongono sono assolutamente distinte, non solo per melodia, registro vocale e stile di esecuzione, ma mettono in mostra anche quattro sentimenti ben diversi, addirittura agli antipodi, che pure si intrecciano nel canto in maniera mirabile (cantabile e leggero il Duca nel suo corteggiamento esplicito e sguaiato; irridente e punteggiata Maddalena, che finge di schernirsi e intanto ride; tragica, lamentevole e legata Gilda, abituata a tutt'altro sentimento; secco e duro Rigoletto, che spera che la figlia apra finalmente gli occhi sulla vera indole del suo amato).

Pare quasi che la dualità dell'allestimento scenico (sul palco, come detto, gli spettatori vedono sia l'interno dell'osteria, dove il Duca è stato raggiunto da Maddalena e i due cominciano il loro "gioco d'amore", che l'esterno, da cui Rigoletto e la figlia spiano il loro incontro: il gobbo spera che vedere il nobile "in azione" spenga definitivamente i residui sentimenti di Gilda nei suoi confronti) si rispecchi in quella musicale "per opposizioni incrociate di registri vocali (soprano e baritono contro mezzosoprano e tenore)". Ne risulta un gioiello assoluto, di contrappunto ma non solo. Il quartetto vero e proprio ("Bella figlia dell'amore"), un andante concertato, è introdotto da una prima sezione a dialogo accompagnato dall'orchestra ("Un dì, se ben rammentomi") in cui il Duca e Maddalena si divertono a recitare la parte del corteggiatore e della corteggiata, consapevoli entrambi che si tratta solo di un gioco, appunto, e che fra di loro non ci può essere vero amore: lei è evidentemente una prostituta (il nome Maddalena non è casuale, visto che richiama una delle prostitute più famose della storia, quella dei Vangeli!), peraltro "in costume da zingara" per alludere ancora di più a un'atteggiamento disinvolto; lui – anche se la donna ne ignora la vera identità – un gaudente dongiovanni ("Ah! Ah!... e vent’altre appresso / le scorda forse adesso? / Ha un’aria il signorino / da vero libertino"). E proprio come Don Giovanni con Zerlina, il Duca ricorre alla promessa standard: "Ti vo’ sposar...". Ma se c'è consapevolezza, allora non si tratta di un vero inganno: entrambi scherzano, si canzonano, si sminuiscono ("Sì, un mostro son", dice lui; "Son brutta", dice lei).

Anche drammaturgicamente, dunque, i quattro personaggi possono essere divisi in due coppie ben precise: se per il Duca e Maddalena (del tutto ignari della presenza degli altri due) l'amore è solo un gioco, da prendere con assoluta leggerezza (e chissà se nella scelta delle parole, come quel "pene", non ci sia una volgare irridenza), per Gilda e anche per Rigoletto non c'è spazio per lo scherzo e tutto è invece assolutamente serio. È quasi come se Verdi avesse voluto sovrapporre nello stesso brano un duetto da un'opera buffa e uno da un dramma tragico. Gilda soffre nel vedere e sentire l'uomo che le aveva fatto promesse d'amore ripeterle in maniera svagata a un'altra donna ("Ah, così parlar d’amore / a me l’infame ho udito!"), mentre suo padre la rimprovera quasi severamente ("Taci, il piangere non vale!"). In tanto tempestoso contrasto, è incredibile come le quattro voci e i sentimenti contrapposti riescano a dare vita a un risultato di questo livello, forse raggiunto in passato soltanto da Mozart (si pensi al quartetto "Non ti fidar, o misera" proprio dal "Don Giovanni"). È interessante leggere il testo in versione "sinottica", come era forse stato concepito da Piave, prima che Verdi lo "smontasse" per metterlo in musica:

DUCA
Bella figlia dell’amore,
schiavo son dei vezzi tuoi;
con un detto sol tu puoi
le mie pene consolar.
Vieni e senti del mio core
il frequente palpitar.
MADDALENA
Ah! ah! rido ben di core,
che tai baie costan poco.
Quanto valga il vostro gioco,
mel credete, so apprezzar.
Son avvezza, bel signore,
ad un simile scherzar.
GILDA
Ah, così parlar d’amore
a me pur l’infame ho udito!
Infelice cor tradito,
per angoscia non scoppiar.
Perché, o credulo mio cuore,
un tal uom dovevi amar!
RIGOLETTO
Taci, il piangere non vale!
Ch’ei mentiva sei sicura.
Taci, e mia sarà la cura
la vendetta d’affrettar.
Pronta fia, sarà fatale,
io saprollo fulminar.

Victor Hugo in persona, autore del dramma "Le roi s'amuse" su cui si basa il Rigoletto, dopo aver assistito a una rappresentazione dell'opera manifestò a Verdi la sua invidia per la capacità di mettere in scena quattro personaggi che cantano contemporaneamente con sentimenti contraddittori, cosa impossibile da fare nel teatro non musicale. Frequentatissimo nei recital anche al di fuori degli allestimenti operistici, come altri brani il quartetto è stato "arricchito" nel corso degli anni da molti abbellimenti creativi da parte degli interpreti, alcuni dei quali diventati ormai abituali (cadenze, crescendi e climax finale: vedi l'acuto conclusivo di Joan Sutherland in una delle clip sottostanti) pur non essendo presenti nella partitura di Verdi (come sempre, nella versione di Muti del 1994, qui sotto, si può ascoltare la versione originale).


Clicca qui per il testo di "Un dì, se ben rammentomi".

DUCA
Un dì, se ben rammentomi,
o bella, t’incontrai...
Mi piacque di te chiedere
e intesi che qui stai.
Or sappi che d’allora
sol te quest’alma adora.

GILDA (da sé)
Iniquo!

MADDALENA
Ah! Ah!... E vent’altre appresso
le scorda forse adesso?
Ha un’aria il signorino
da vero libertino.

DUCA
Sì, un mostro son.

GILDA
Ah, padre mio!

MADDALENA
Lasciatemi, stordito!

DUCA
Ah, che fracasso!

MADDALENA
Stia saggio!

DUCA
E tu sii docile,
non farmi tanto, chiasso.
Ogni saggezza chiudesi
nel gaudio e nell’amore.
(e prende la mano.)
La bella mano candida!

MADDALENA
Scherzate voi, signore.

DUCA
No, no.

MADDALENA
Son brutta.

DUCA
Abbracciami.

GILDA (da sé)
Iniquo!

MADDALENA
Ebbro!

DUCA
D’amore ardente.

MADDALENA
Signor l’indifferente,
vi piace canzonar?

DUCA
No, no, ti vo’ sposar...

MADDALENA
Ne voglio la parola.

DUCA (ironico)
Amabile figliuola!

RIGOLETTO (a Gilda che avrà tutto osservato ed inteso)
E non ti basta ancor?

GILDA
Iniquo traditor! ecc.

MADDALENA
Ne voglio la parola! ecc.

DUCA
Amabile figliuola! ecc.

RIGOLETTO
E non ti basta ancor? ecc.

Clicca qui per il testo di "Bella figlia dell’amore".

DUCA
Bella figlia dell’amore,
schiavo son dei vezzi tuoi;
con un detto sol tu puoi
le mie pene consolar.
Vieni e senti del mio core
il frequente palpitar.

MADDALENA
Ah! ah! rido ben di core,
che tai baie costan poco...

GILDA
Ah, così parlar d’amore...

MADDALENA
...quanto valga il vostro gioco,
mel credete, so apprezzar.

GILDA
...a me l’infame ho udito!

RIGOLETTO (a Gilda)
Taci, il piangere non vale!

GILDA
Infelice cor tradito,
per angoscia non scoppiar.

MADDALENA
Son avvezza, bel signore,
ad un simile scherzar.

DUCA
Con un detto sol tu puoi
le mie pene consolar.

GILDA
Infelice cor tradito,
per angoscia non scoppiar, ecc.

MADDALENA
Ah! Ah! Rido ben di core!
Che tai baie costan poco, ecc.

DUCA
Bella figlia dell’amore,
schiavo son de’ vezzi tuoi, ecc.

RIGOLETTO (a Gilda)
Ch’ei mentiva sei sicura.
Taci, e mia sarà la cura
la vendetta d’affrettar.
Pronta fia, sarà fatale,
io saprollo fulminar, ecc.




Luciano Pavarotti (Duca di Mantova), Isola Jones (Maddalena),
Joan Sutherland (Gilda), Leo Nucci (Rigoletto)
dir: Richard Bonynge (1987)


Roberto Alagna (Duca di Mantova), Mariana Pentcheva (Maddalena),
Andrea Rost (Gilda), Renato Bruson (Rigoletto)
dir: Riccardo Muti (1994)


Giuseppe di Stefano, Adriana Lazzarini,
Maria Callas, Tito Gobbi (1955)


Cesare Valletti, Blanche Thebom,
Roberta Peters, Cesare Siepi (1959)


Ramón Vargas, Elina Garanča,
Anna Netrebko, Ludovic Tézier (2007)


Juan Diego Flórez, Nadia Krasteva,
Olga Peretyatko, Carlos Álvarez (2016)


Enrico Caruso, Flora Perini,
Amelita Galli-Curci, Giuseppe De Luca (1917)

Beniamino Gigli, Jeanne Gordon,
Marion Talley, Giuseppe De Luca (1927)


Il quartetto è stato utilizzato ampiamente al cinema. Il film "Quartet" (2012) di Dustin Hoffman, tratto da una commedia teatrale di Ronald Harwood, è interamente incentrato su un gruppo di cantanti in pensione che intendono metterlo in scena durante un concerto per salvare la loro casa di riposo dal fallimento. Ma celebre è anche l'uso goliardico che se ne fa nel film "Amici miei" (1975) di Mario Monicelli.


da "Amici miei" (1975)


È inoltre oggetto di parodia nel cortometraggio Disney "Topolino professore d'orchestra" (Mickey's Grand Opera, 1936).


"Topolino professore d'orchestra" (1936)


Più seriamente, la sua popolarità spinse Franz Liszt a comporne una trascrizione assai "acrobatica", intitolata "Rigoletto Paraphrase" (1859, S. 434). E visto che Liszt era ungherese, ci aggiungo anche una clip del quartetto cantato in questa lingua!


Liszt, "Rigoletto Paraphrase"
pianista: György Cziffra

Péter Kelen, Klára Takács,
Magda Kalmár, Sándor Sólyom-Nagy (1977)

9 marzo 2018

Rigoletto (14) - "La donna è mobile"

Scritto da Christian

Il terzo atto si apre con una delle arie più famose dell'intero repertorio lirico. Se chiedessimo infatti a qualcuno, del tutto a digiuno di questo genere musicale, di citare o addirittura di provare a cantarne un brano, ci sono forti possibilità che la sua scelta ricada proprio su "La donna è mobile" (le alternative sono scarse, e forse si restringono a "Largo al factotum", a "Nessun dorma" e al brindisi della "Traviata"). E chi non l'ha mai canticchiata sotto la doccia o al mattino mentre si veste? La sua fama è tale da essere una delle poche arie ad avere una propria pagina dedicata su Wikipedia. Tecnicamente, a dire il vero, non si tratta di un'aria ma di una canzone, intonata cioè come tale dal Duca di Mantova anche nella finzione, e questo giustifica la sua estrema orecchiabilità, nonché il fatto che venga ripresa in altri due momenti successivi (mentre il Duca sta per addormentarsi e, nel finale, quando si risveglia, comunicando così a Rigoletto il fatto di essere ancora vivo).


da "Mafalda" di Quino


dal film "Family Man" di Brett Ratner (2000), con Nicholas Cage


Ma andiamo con ordine. Il sipario si apre sulla sponda destra del fiume Mincio (ma forse è un errore di trascrizione: il testo originale di Piave menzionava la "sponda deserta": che sia la destra o la sinistra non fa infatti alcuna differenza!), dove sorge la stamberga diroccata che ospita la locanda gestita da Sparafucile e dalla sorella Maddalena (quella citata in precedenza dal brigante come sua complice: "Per le vie danza... È bella... Chi voglio attira, e allor..."). Come nella seconda scena del primo atto, l'allestimento scenografico richiede che sul palco si mostri sia l'interno che l'esterno della casa: il libretto specifica che "il muro è sì pieno di fessure, che dal di fuori si può facilmente scorgere quanto avviene nell’interno".


Rigoletto, che si è già accordato con Sparafucile per eliminare il Duca, ha condotto con sé Gilda – che afferma di amare ancora il nobile, nonostante tutto – per aprirle finalmente gli occhi sulla reale indole libertina dell'uomo ("E se tu certa fossi ch’ei ti tradisse, l’ameresti ancora?", le chiede). Dall'esterno, i due spiano l'ingresso del Duca (che arriva "in assisa di semplice ufficiale di cavalleria": evidentemente in casi come questi è solito muoversi in incognito, anche memore della lezione di Don Giovanni: "Han poco credito con gente di tal rango gli abiti signorili") e lo odono chiedere al locandiere "Due cose, e tosto: una stanza e del vino", al che Rigoletto commenta con la figlia "Son questi i suoi costumi!". Lo scambio di battute ha poco senso, ma solo perché la censura austriaca aveva imposto a Piave e a Verdi di cambiare il dialogo in questo punto. Come spiega Riccardo Muti nella clip qui sotto, durante una lezione all'Università Bocconi tenuta poco prima di dirigere alla Scala un'edizione filologicamente accurata dell'opera, il testo originale prevedeva che il Duca domandasse sfacciatamente a Sparafucile "Tua sorella e del vino!".


Riccardo Muti all'Università Bocconi di Milano (1994)

Il Duca, evidentemente, conosce già Maddalena. E infatti poco più avanti scopriremo che è stato attirato lì proprio in seguito a un incontro con lei. Mentre attende che lei arrivi, si mette a cantare "La donna è mobile". Si tratta di una canzone leggera e senza troppe pretese, dallo stile melodico popolare e dal testo decisamente misogino se non addirittura volgare, che evidentemente il nobiluomo è solito intonare spesso e svagatamente quando si trova da solo, come dimostra la sua ripresa più avanti, mentre sta per addormentarsi. Che proprio il Duca canti dell'incostanza femminile potrebbe sembrarci ironico o ipocrita, visto che lui per primo passa da una conquista all'altra "qual piuma al vento". Ma naturalmente è un caso di proiezione. Inoltre qui sta parlando con sé stesso (a differenza delle parole dolci che rivolge alle donne durante i corteggiamenti, che si tratti dalla Contessa di Ceprano, di Gilda o di Maddalena), e dunque ci rivela che questo è ciò che pensa veramente delle donne (dando una certa motivazione e contesto a tutto il suo comportamento). Da notare che i versi di Piave sono adattati direttamente dal dramma originale di Victor Hugo ("Une femme souvent – N'est qu'une plume au vent!"), che a sua volta si sarebbe ispirato a una frase realmente pronunciata da Francesco I di Francia, il sovrano che nell'opera è stato trasposto nel Duca di Mantova: "Souvent femme varie, – Bien fol est qui s'y fie!".

Il tema melodico è introdotto inizialmente dall'orchestra, che però si arresta prima della frase conclusiva ("parodiando uno dei più antichi manierismi dell’opera italiana", scrive Julian Budden: per altri casi celebri, si pensi al Donizetti di "Una furtiva lagrima" e allo stesso Verdi di "Libiam nei lieti calici"). La scrittura, spiega Wikipedia, è "di tipo bandistico", con un "carattere popolaresco, quasi di stornello", e con "impertinenti staccati ("La - don - na è...") e accenti aggiunti sul secondo movimento, a mo' di mazurca ("mo - bìl" ... "ven - tò")". Il celebre acuto finale in Si naturale, anche in questo caso, nasce da un'abitudine interpretativa consolidatasi nel corso degli anni: la partitura di Verdi non lo prevede (ma ben pochi tenori si arrischierebbero a rinunciarvi, visto che ormai le platee e i loggioni se lo aspettano!), riservandolo invece al momento della terza ripresa della canzone nel finale dell'opera (ma in diminuendo, "perdendosi poco a poco in lontano"), quando svolgerà una precisa funzione drammatica. In effetti è solo nel finale che la canzone acquista la sua importanza drammaturgica.

Come ho già raccontato nel primo post, Verdi era ben consapevole della popolarità che questo brano avrebbe potuto raggiungere, e per evitare "fughe di notizie" e rovinare l'effetto, non solo consegnò soltanto all'ultimo momento lo spartito a Raffaele Mirate, il tenore che avrebbe interpetato il Duca di Mantova, ma gli proibì anche di intonare o persino di fischiettare il motivo al di fuori delle prove. E infatti il successo non mancò: già la mattina dopo la prima, si sentiva cantare "La donna è mobile" in tutte le strade di Venezia. La popolarità del brano non è mai venuta meno nel corso degli anni successivi: di fatto ha finito per identificarsi non solo con l'intero "Rigoletto" (facendo in questo un vero torto al lavoro verdiano) ma anche con il genere dell'opera lirica tout court. "La donna è mobile" è stato utilizzato come titolo per una commedia di Vincenzo Scarpetta del 1918, nonché per diversi film (fra cui quello di Mario Mattoli del 1942).

Mentre Maddalena ("in costume da zingara") scende la scala e raggiunge il Duca nel salone della locanda, Sparafucile esce sulla strada e scambia due parole con Rigoletto, che gli conferma che l'uomo (di cui il brigante ignora la vera identità) è la sua vittima designata, ma senza ancora specififare se "viver deve o morire": il tutto mentre l'orchestra continua a proporre la melodia della canzone, che si spegne poco a poco.



Clicca qui per il testo di "E l’ami? - Sempre".

La sponda destra del Mincio. (A sinistra è una casa a due piani, mezzo diroccata, la cui fronte lascia vedere per una grande arcata l’interno d’una rustica osteria al pian terreno, ed una rozza scala che mette al granaio, entro cui, da un balcone senza imposte, si vede un lettuccio. Nella facciata che guarda la strada è una porta che s’apre per di dentro; il muro poi è sì pieno di fessure, che dal di fuori si può facilmente scorgere quanto avviene nell’interno. In fondo, la deserta parte del Mincio, che scorre dietro un parapetto in mezza ruina; di là dal fiume è Mantova. È notte. Gilda e Rigoletto inquieti sono sulla strada, Sparafucile nell’interno dell’osteria.)

RIGOLETTO
E l’ami?

GILDA
Sempre.

RIGOLETTO
Pure tempo a guarirne t’ho lasciato.

GILDA
Io l’amo.

RIGOLETTO
Povero cor di donna! Ah, il vile infame!
Ma ne avrai vendetta, o Gilda.

GILDA
Pietà, mio padre!

RIGOLETTO
E se tu certa fossi
ch’ei ti tradisse, l’ameresti ancora?

GILDA
Nol so, ma pur m’adora.

RIGOLETTO
Egli?

GILDA
Sì.

RIGOLETTO
Ebben, osserva dunque.

(La conduce presso una delle fessure del muro, ed ella vi guarda.)

GILDA
Un uomo vedo.

RIGOLETTO
Per poco attendi.

(Il Duca, in assisa di semplice ufficiale di cavalleria, entra nella sala terrena per una porta a sinistra.)

GILDA (trasalendo)
Ah, padre mio!

DUCA (a Sparafucile)
Due cose e tosto...

SPARAFUCILE
Quali?

DUCA
Una stanza e del vino!

RIGOLETTO
Son questi i suoi costumi!

SPARAFUCILE
Oh, il bel zerbino!
(entra nella stanza vicina)

Clicca qui per il testo di "La donna è mobile".

DUCA
La donna è mobile
qual piuma al vento,
muta d’accento
e di pensier.
Sempre un amabile
leggiadro viso,
in pianto o in riso
è menzognero.
La donna è mobile, ecc.
È sempre misero
chi a lei s’affida,
chi le confida
mal cauto il cor!
Pur mai non sentesi
felice appieno
chi su quel seno
non liba amor!

Clicca qui per il testo di "È là il vostr’uomo".

(Sparafucile rientra con una bottiglia di vino e due bicchieri che depone sulla tavola: quindi batte col pomo della sua lunga spada due colpi al soffitto. A quel segnale una ridente giovane, in costume di zingara, scende a salti la scala. Il Duca corre per abbracciarla, ma ella gli sfugge. Frattanto Sparafucile, uscito sulla via, dice a parte a Rigoletto:)

SPARAFUCILE
È là il vostr’uomo. Viver dee o morire?

RIGOLETTO
Più tardi tornerò l’opra a compire.

(Sparafucile s’allontana dietro la casa verso il fiume.)





Luciano Pavarotti (Duca di Mantova),
Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda), Ferruccio Furlanetto (Sparafucile)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Roberto Alagna (Duca di Mantova),
Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda), Dimitri Kavrakos (Sparafucile)
dir: Riccardo Muti (1994)


Enrico Caruso (1908)


Mario del Monaco (1954)


Giuseppe di Stefano (1955)


Alfredo Kraus (1961)


Franco Corelli (1962)

Placido Domingo (1979?)



dal film "L'Opéra Imaginaire" di Pascal Roulin (tenore: Nicolai Gedda, regia: Monique Renault)
(qui i riferimenti artistici)


Pavarotti in bici in Cina


cantata a cappella (Vocal Song)


pubblicità Axe Random

dal film "The Punisher" (2004)

6 marzo 2018

Rigoletto (13) - "Sì, vendetta, tremenda vendetta"

Scritto da Christian

Proprio Monterone, a questo punto, riappare fugacemente. Le guardie lo stanno conducendo al carcere, e nel passare sotto il ritratto del Duca, il vecchio lamenta che la maledizione che aveva lanciato contro il nobiluomo non ha avuto effetto. "No, vecchio, t’inganni... un vindice avrai", risponde fra sé Rigoletto, intenzionato a fare giustizia in prima persona, sostituendosi a Dio ("Sì, vendetta, tremenda vendetta!"). Gilda lo implora inutilmente di dimenticare ogni cosa ("Perdonate: a noi pure una voce / di perdono dal cielo verrà!"), anche perché ama ancora "l'ingrato", ma il padre è del tutto sordo alle sue parole. Da qui si precipiterà nella tragedia.

La piena incomunicabilità tra i due diviene ancor più chiara nella cabaletta di questo secondo duetto, quando Rigoletto rimane sordo alle invocazioni di pietà e perdono della fanciulla, e dal suo angolo della scena si lancia in un solitario, fremente, inno di morte per il suo nemico. Gilda si limita a riprendere la melodia del padre, come aveva fatto nella corrispondente sezione del primo duetto («Veglia, o donna» – «Quanto affetto! ...»), quasi che la sua volontà s’annullasse di fronte a lui.
(Michele Girardi)
Il buffone vuole vendicare l'oltraggio alla propria figlia e allo stesso tempo farsi strumento della vendetta di Monterone, nel quale comincia persino a identificarsi: ormai non ripete più "Quel vecchio maledivami", forse perché ritiene che la parte di maledizione che lo riguardava si è già manifestata e conclusa, e che ora sarà il turno del Duca. Certo, Monterone e Rigoletto hanno due modi assai diversi di reclamare giustizia. Il primo, nobile a propria volta, aveva avuto l'ardire di sfidare faccia a faccia e apertamente il Duca, mettendo a rischio la propria vita, mentre Rigoletto non si rivolge direttamente al suo padrone ma medita una vendetta indiretta e a tradimento, attraverso il pugnale del sicario Sparafucile. A questo proposito parecchi critici hanno notato come, nonostante Verdi abbia costruito l'opera come "una filza interminabile di duetti", fra Rigoletto e il Duca non c'è mai alcun duetto: anzi, a parte le poche battute che scambiano insieme alla festa che apre il primo atto, i due personaggi più importanti dell'opera non si confrontano mai direttamente. Ovvio dunque che anche per vendicarsi il gobbo scelga una via traversa.
[La mancanza di] un confronto diretto fra servo e signore, enfatizza dunque la solitudine di Rigoletto: nella mancanza di dialogo col Duca è il buffone a farsi carico di una dimensione interiore gigantesca, proprio perché ognuno va per la propria strada a partire dall'inizio. Il signore interferirà sempre con le sorti di Rigoletto, ma come una volontà immanente.
(Michele Girardi)
Clicca qui per il testo di "Compiuto pur quanto a fare mi resta".

RIGOLETTO
Compiuto pur quanto a fare mi resta,
lasciare potremo quest’aura funesta.

GILDA
Sì.

RIGOLETTO (da sé)
E tutto un sol giorno cangiare potè!

(Entra un usciere ed il Conte di Monterone, che attraversa il fondo della sala fra gli alabardieri.)

USCIERE
Schiudete: ire al carcere Monteron dee.

MONTERONE
(fermandosi verso il ritratto)
Poiché fosti invano da me maledetto,
né un fulmine o un ferro
colpisce il tuo petto,
felice pur anco, o Duca, vivrai.
(Esce fra le guardie dal mezzo.)

RIGOLETTO
No, vecchio, t’inganni... Un vindice avrai.
(Si volge con impeto al ritratto.)

Clicca qui per il testo di "Sì, vendetta, tremenda vendetta".

RIGOLETTO
Sì, vendetta, tremenda vendetta
di quest’anima è solo desio.
Di punirti già l’ora s’affretta,
che fatale per te suonerà.
Come fulmin scagliato da Dio,
te colpire il buffone saprà.

GILDA
O mio padre, qual gioia feroce
balenarvi negli occhi vegg’io!

RIGOLETTO
Vendetta!

GILDA
Perdonate: a noi pure una voce
di perdono dal cielo verrà.

RIGOLETTO
Vendetta!

GILDA
Perdonate...

RIGOLETTO
No!

GILDA (fra sé)
Mi tradiva, pur l’amo; gran Dio,
per l’ingrato ti chiedo pietà!

RIGOLETTO
Come fulmin scagliato, ecc.

GILDA
Perdonate, ecc.
(Escono dal mezzo.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda)
dir: Riccardo Muti (1994)


Tito Gobbi, Maria Callas (1955)


Rolando Panerai, Margherita Rinaldi (1977)


Piero Cappuccilli, Márta Szűcs (1983)

Leo Nucci, Inva Mula (2001), con bis

2 marzo 2018

Rigoletto (12) - "Tutte le feste al tempio"

Scritto da Christian

A questo punto Gilda esce dalla camera del Duca e si getta, piangente, fra le braccia del padre. Inizialmente sollevato nel rivederla (tanto da domandare ai cortigiani: "Fu scherzo, non è vero? Io, che pur piansi, or rido"), Rigoletto apprende però dalla figlia che è stata violentata (anche se il libretto, per via delle censure imposte all'epoca, non può dirlo esplicitamente e lo lascia soltanto intuire). E allora il buffone scaccia furiosamente i cortigiani dalla stanza per poter restare da solo con Gilda e udire quel che lei ha da dirgli.

Le parole che Rigoletto utilizza per comandare ai cortigiani di uscire dalla stanza sono piene di autorità ("Ite di qua voi tutti! Se il Duca vostro d’appressarsi osasse, ch’ei non entri, gli dite, e ch’io qui sono") e di dignità, ben lontane dal tono di supplica e di richiesta di perdono che le aveva precedute. Il gobbo, fra l'altro, usa quella nota di Do che la sera prima aveva caratterizzato, in quella stessa stanza, lo sfogo di Monterone: ne usa lo stesso tono, le stesse note, lo stesso slancio, in quanto già sta identificandosi con lui. Come Monterone, è un padre cui è stata disonorata la figlia: e il sentimento di padre, più forte di qualsiasi altro potere, gli fa riacquistare quella dignità che aveva perduto in precedenza. Tanto che i cortigiani, pur con un tono di ironica accondiscendenza ("Coi fanciulli e co’ dementi..."), gli obbediscono senza alcuna replica e se ne vanno via, persino con un certo timore. Il loro ruolo nella storia è peraltro ormai concluso, e nel prosieguo dell'opera non li rivedremo più.

L'aria (che poi diventa un duetto) "Tutte le feste al tempio" inizia con la confessione della ragazza, che racconta al padre quello che noi spettatori già sapevamo: ogni volta che si recava in chiesa (l'unico luogo, fra l'altro, in cui le era concesso andare), la fanciulla incrociava lo sguardo di un giovane "bello e fatale": "Se i labbri nostri tacquero, dagli occhi il cor parlò". Si trattava ovviamente del Duca, che, come abbiamo visto, le si era poi presentato nei panni di un povero studente con l'intenzione di conquistarla lentamente. L'azione dei cortigiani ha fatto però precipitare le cose. Una curiosità: che la tentazione di Gilda avvenisse in un luogo sacro, ovvero in chiesa, "mentre pregava Iddio", non piacque ad alcuni censori che, in occasione di una ripresa dell'opera, modificarono il testo in "Tutte le feste al parco". Per fortuna una così ridicola modifica, a differenza di altre (come vedremo), non è mai passata nell'uso interpretativo.

Il canto di Gilda qui è diverso dalla svagata e cantilenante leggerezza di "Caro nome", anche se è ancora dolce e con reminescenze belliniane o donizettiane (l'oboe che anticipa il tema melodico ricorda il fagotto de "Una furtiva lagrima"). L'accompagnamento è circolare, come a suggerire la presenza del destino. E l'ingenuità e l'ottimismo di un tempo cominciano a lasciar spazio a una nuova consapevolezza, venata di tragica e patetica amarezza (la metamorfosi si compirà del tutto nel terzo atto). Alla sua voce subentra quella di Rigoletto ("Ah! Solo per me l’infamia / a te chiedeva, o Dio..."), trasformando appunto l'aria in un duetto. Tutti i timori che aveva in precedenza si sono trasformati in realtà, e il buffone scopre solo ora di ritrovarsi nella stessa situazione del vecchio Monterone, che tanto aveva preso in giro la sera precedente.

La struttura è assai complessa, visto che dalla scena in versi sciolti (con l’eccezione dell’inserto corale dei cortigiani, in versi ottonari) si passa direttamente a un lungo "Adagio" che principia con l’appassionata confessione da parte di Gilda («Tutte le feste al tempio»), una gemma melodica nel genere patetico, tale da commuovere chiunque. Non però il genitore, messo di fronte al fallimento delle sue legittime aspirazioni, che seguita imprecando. Ed è rivendicazione solitaria, un a parte di otto versi in partitura dal carattere eroico, che viene così a cozzare contro l’elemento patetico di Gilda. Anche pochi istanti dopo, quando è il momento di consolare la figlia per l’onta appena subita, il padre altro non fa che tradurre il suo impulso in un’esortazione lirica dove, ancora una volta, prende sulle sue spalle ogni responsabilità: "Piangi, fanciulla, e scorrer / fa il pianto sul mio cuor".
(Michele Girardi)

Clicca qui per il testo di "Mio padre! - Dio! Mia Gilda!".

(Gilda esce dalla stanza a sinistra e si getta nelle paterne braccia.)

GILDA
Mio padre!

RIGOLETTO
Dio! Mia Gilda!
Signori, in essa è tutta
la mia famiglia.
Non temer più nulla, angelo mio...
(ai cortigiani)
Fu scherzo, non è vero?
Io, che pur piansi, or rido.
(a Gilda)
E tu a che piangi?

GILDA
Ah, l’onta, padre mio!

RIGOLETTO
Cielo! che dici?

GILDA
Arrossir voglio innanzi a voi soltanto...

RIGOLETTO (ai cortigiani)
Ite di qua voi tutti!
Se il Duca vostro d’appressarsi osasse,
ch’ei non entri, gli dite, e ch’io qui sono.

BORSA, MARULLO, CEPRANO, CORO (fra loro)
Coi fanciulli e co’ dementi
spesso giova il simular;
partiam pur, ma quel ch’ei tenti
non lasciamo d’osservar.
(Escono.)

RIGOLETTO
Parla... Siam soli.

GILDA (da sé)
Ciel! dammi coraggio!

Clicca qui per il testo di "Tutte le feste al tempio".

GILDA
Tutte le feste al tempio
mentre pregava Iddio,
bello e fatale un giovine
offriasi al guardo mio...
Se i labbri nostri tacquero,
dagli occhi il cor parlò.
Furtivo fra le tenebre
sol ieri a me giungeva...
“Sono studente e povero”,
commosso mi diceva,
e con ardente palpito
amor mi protestò.
Partì... Il mio core aprivasi
a speme più gradita,
quando improvvisi apparvero
color che m’han rapita,
e a forza qui m’addussero
nell’ansia più crudel.

RIGOLETTO (da sé)
Ah! Solo per me l’infamia
a te chiedeva, o Dio...
ch’ella potesse ascendere
quanto caduto er’io.
Ah, presso del patibolo
bisogna ben l’altare!
Ma tutto ora scompare,
l’altar si rovesciò!
(a Gilda)
Piangi, fanciulla, piangi...

GILDA
Padre!

RIGOLETTO
...scorrer fa il pianto sul mio cor.

GILDA
Padre, in voi parla un angiol
per me consolator, ecc.

RIGOLETTO
Piangi, fanciulla, ecc.




Edita Gruberova (Gilda), Ingvar Wixell (Rigoletto)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Andrea Rost (Gilda), Renato Bruson (Rigoletto)
dir: Riccardo Muti (1994)


Maria Callas, Tito Gobbi (1955)


Anna Moffo, Robert Merrill (1963)


Renata Scotto, Dietrich Fischer-Dieskau (1964)

Joan Sutherland, Sherrill Milnes (1971)


Il brano si può sentire in una sequenza del film "La luna" (1979) di Bernardo Bertolucci: