26 dicembre 2010

Turandot (20) - Una lettura intrapsichica/2

Scritto da Marisa

Vediamo ora la storia dalla parte di “lei”.

Da sempre le donne sono portate a credere nel Principe Azzurro e ad aspettarlo per risolvere i loro problemi. Questo è un equivoco pieno di disastrose conseguenze. Rende la donna passiva e la relega in un ruolo subordinato all'attività dell'uomo, sentito come salvatore e dispensatore di amore e di vita. È vero che nelle favole c'è sempre un Principe Azzurro a risvegliare la Bella Addormentata e risolvere la situazione, e nei miti compare un giovane Eroe pronto ad affrontare il Drago per ucciderlo e liberare la principessa, ma dopo l'insegnamento di Jung a queste storie bisogna finalmente dare un significato simbolico e imparare a leggerle come passaggi fondamentali "intrapsichici", legati cioè all'intima storia di ogni donna e alla sua emancipazione da una situazione infantile e dipendente a una "adulta" e padrona di sé stessa e della totalità delle proprie risorse.
Il Principe Azzurro simboleggia il maschile dentro la donna, l'Animus, il proprio cavaliere interno che bisogna attivare per liberare un femminile troppo passivo e prigioniero delle paure e delle convenzioni di millenni di cultura patriarcale, che da una parte vuole la donna debole e sottomessa, incapace di badare a sé stessa, ma dall'altra la idealizza come madre affettuosa e dolce, sposa fedele, angelo della casa.

Nella fiaba di Turandot ci sono due figure femminili che rappresentano due atteggiamenti diametralmente opposti, ciascuno dei quali può prevalere anche nella realtà. Ci può essere la donna più vicina a Liù, amorevole e sottomessa ma serva del sistema patriarcale, probabilmente reiterando il modello materno, che ha rimosso la parte autonoma e che vive all'ombra dell'uomo attraverso la propria dedizione, per accorgersi spesso di non essere mai amata per sé stessa ma solo per i suoi servizi. In "Donne che amano troppo" di Robin Norwood (ed. Feltrinelli) troviamo un'ampia descrizione di tale tipo di donna e della coazione del suo reiterato comportamento di non riconoscimento di sé stessa e delle proprie esigenze. Si spera sempre che l'altro cambi per darci tutto l'amore e il riconoscimento di cui abbiamo bisogno. E poi c'è il tipo di donna più vicina a Turandot, ribelle e spavalda, competitiva e fiera della propria testa, ma come congelata e priva di eros (che ha completamente rimosso), a cui capita spesso di sfidare gli uomini e costringerli a superarla per accedere a lei. Ma così facendo non può che disprezzare quelli più deboli che si lasciano sopraffare, e praticamente si offre al più forte e prepotente, riconfermando paradossalmente la logica patriarcale della superiorità maschile e ripermettendo proprio quella violenza che voleva evitare. In ogni caso non si esce dalla spirale di violenza e di lotta tra i sessi.

In genere siamo in presenza di un "complesso paterno" che condiziona la scelta. Spesso c'è un padre debole o assente (nel caso della donna simile a Liù) e la ragazza cerca quindi la protezione dell'uomo, in sostituzione della carenza paterna, sottomettendosi. Oppure, se ha avuto un padre violento, ripete l'esperienza traumatica, pensando che questo sia l'unico destino della donna, seguendo ovviamente l'esempio materno e cercando persino di superarla in masochismo... Nel caso opposto, il complesso paterno si manifesta con un padre forte e autoritario con gli altri ma debole con la figlia amatissima, che vizia troppo e che quindi cresce spavalda e "saputella", senza una madre in grado di contrastare un Edipo così marcato. Si tratta in entrambi i casi di personalità unilaterali, di aspetti che bisogna sacrificare per uno sviluppo più armonico e fecondo. E per operare la trasformazione, deve entrare in gioco un aspetto nuovo: non più il padre ma un maschile interno, appassionato e amico del femminile, un'energia che non colluda con il buonismo e la convenzionalità, in grado di tener testa e di risolvere i problemi veri o fittizi che l'io femminile arrabbiato e vendicativo si pone, per condurre a un vero amore di sé stessa, senza il quale non è possibile nemmeno amare gli altri.

Sembra che ormai non si possa più far ricorso al modello tradizionale della madre, perché da troppo tempo questa rappresenta solo uno stereotipo e rinforza l'assetto della famiglia patriarcale rendendo alle figlie molto difficile uno sviluppo autentico, e quindi bisogna trovare una strada ancora sconosciuta, percorrere una nuova avventura della coscienza per superare uno schema che non regge alla crisi del patriarcato e alla rabbia della ragazza che non si rassegna ad essere "conquista" dell'uomo. Occorre quindi che sia la donna stessa ad attivare le proprie energie "maschili" interne (rappresentate da Calaf, l'eroe positivo) per risolvere i conflitti e ritrovare un'integrità che permetta lo sviluppo di tutta la personalità, in cui l'eros non deve più essere disgiunto conflittualmente dal logos. Solo così, con il sostegno e la riunificazione col proprio cavaliere interno (il vecchio mito platonico dell'unità originaria da riconquistare, simboleggiata dalla figura dell'ermafrodito e che in oriente ritroviamo rappresentato nell'unione mistica di Shiva e Parvati), potranno scomparire sia la parte troppo sottomessa, sempre a rischio abbandonico, sia la parte arroccata in una difesa armata. La nuova donna sarà pronta sia a vivere con coraggio senza appoggiarsi continuamente all'uomo, sia – avendo ritrovato una vera autostima e amore per sé stessa – ad aprirsi a un'autentica reciprocità.

17 dicembre 2010

Turandot (19) - Una lettura intrapsichica/1

Scritto da Marisa

Abbiamo visto come la vicenda di Calaf e Turandot si possa leggere come emblematica storia di due personaggi che partono da situazioni critiche gravemente carenti (all'uomo manca una patria e un ruolo e alla donna manca la capacità d'amare) ma che, grazie all'intelligente generosità del principe che sblocca la situazione, ottengono insieme all'amore un rinnovamento del regno. Si supera il vecchio principio patriarcale della divisione dei ruoli – che vede nel maschile il detentore del potere e della supremazia mantenendo la donna in un costante ruolo subalterno di supporto affettivo – instaurando un nuovo e più equilibrato rapporto di coppia, soddisfacente per entrambi.
Inoltre si può leggere l'intera vicenda in modo più allargato e includervi tutta la storia del passaggio violento dal matriarcato al patriarcato, con le tragiche conseguenze di progressivo irrigidimento della coscienza su un atteggiamento di "lotta, vittoria, conquista, sopraffazione" e un inevitabile rancore che piano piano aumenta fino a diventare opposizione altrettanto violenta, vendicativa e distruttiva. Lungi dal tornare indietro alla fase matriarcale, la fiaba indica una soluzione di autentica ricomposizione del conflitto instaurando un nuovo modello di rispetto reciproco e di armonia.
Questo discorso vale anche per la violenza perpetrata sulla natura e ci indica, se non vogliamo subirne le vedette di inaridimento progressivo e sterilità che ci stanno minacciando, la strada per un recupero ponendoci "sotto" la natura in modo intelligente e amorevole e non continuando a sfruttarla con arrogante egoismo.
Ma una fiaba si può e si deve leggere anche a livello intrapsichico, tenendo cioè presente l'individuo e i suoi conflitti interni, come se tutta la vicenda riguardasse un solo personaggio e la fiaba fosse una specie di drammatizzazione del suo problema; un vero e proprio sogno da interpretare.

Prendiamo in considerazione prima la vicenda dalla parte dell'uomo, simbolicamente rappresentato da Calaf. Si può ipotizzare la vicenda di un giovane (ma l'età è relativa, perché certi passaggi possono avvenire in qualsiasi momento, anche se sarebbe meglio affrontarli nella prima metà della vita) che si trovi in una situazione di grande smarrimento e disorientamento perchè ha perso tutto quello che fino ad ora gli dava sicurezza e protezione (il regno come organizzazione della coscienza, luogo certo dove aveva un ruolo di prestigio e di rispecchiamento positivo). Ci possono essere motivi esterni perchè ciò sia avvenuto (un fallimento dell'azienda del padre su cui contava, una malattia, una crisi per cui perde prospettive di lavoro, ecc.), ma ciò che conta è la risonanza interna e il sentore di una crisi personale: la perdita di un vecchio orientamento, dell'illusione giovanile che possa bastare essere bravi e buoni per inserirsi con successo nella società e nel mondo del lavoro, la scoperta del fallimento dei padri (come nel '68), e così via. Anche se la crisi viene innestata da motivi esterni, perché parta una ricerca ci deve sempre essere un minimo di consapevolezza che ogni evento ci riguarda in pieno e che attiva ed esige un nostro totale coinvolgimento e una nostra responsabilità. In ogni caso arriva il momento in cui il figlio, crescendo, si accorge che il padre non rappresenta più il Re, l'incarnazione cioè dell'autorità e della saggezza; lo vede improvvisamente vecchio e depotenziato, non può più prenderlo a modello e guida, e, pur amandolo, deve staccarsi da lui e seguire altre strade, deve girovagare alla ricerca di qualcosa di nuovo e di diverso...

E cosa avviene con la madre? In questa fiaba apparentemente c'è una grossa lacuna: mancano le madri. Ci sono due donne importanti, Liù e Turandot, ma non ci sono le madri. Come può essere e cosa può voler dire per un giovane, visto che stiamo prendendo in considerazione un lui e per ogni figlio la prima rappresentante del femminile e quindi dell'Anima è la madre?
Evidentemente la madre è morta. Qui si dà per scontato, ma nella fiaba di Carlo Gozzi è detto esplicitamente che la vecchia regina, moglie di Timur, non ha retto ai disagi dell'esilio e al dolore della presunta perdita del figlio, ed è morta. Spesso nelle fiabe assistiamo al motivo della morte della madre (Biancaneve, Cenerentola...) e a volte il suo posto viene preso da una matrigna cattiva. Più precoce è l'avvenimento, maggiori sono i danni, passando dalla madre idealizzata come fata alla strega, perché la coscienza del bambino non ha potuto ancora riunire le due immagini, passando attraverso la fase depressiva della consapevolezza che si tratta dei due aspetti della stessa madre.
Qui la madre "strega" non compare mai, perché sembra si sia trattato di una madre solo "buona", a pieno servizio della famiglia, del marito e del figlio, dei "suoi uomini" insomma.
Il figlio non conosce altro aspetto del femminile e, nella crisi, di colpo si accorge che la madre tanto amata è solo un riflesso del padre, non ha un suo vero centro autonomo in quanto vive solo come custode di quei valori patriarcali da cui è anche protetta e quindi non è portatrice di "altro", di un vero punto di vista lucido e intelligente. Quindi per lui è come morta, ma è l'unico tipo di donna che conosce e che gli viene riproposto nella variante della "brava ragazza" che basa la sua vita sull'accudimento e la dedizione (Liù), che apprezza ma di cui non può innamorarsi. Manca qualcosa che lui non conosce ma che la sua anima presagisce e a cui anela. A questo punto il disorientamento e la disperazione possono essere grandi.

Grazie comunque all'amore ricevuto, il giovane ha un buon sentimento; è sempre stato un “bravo ragazzo”, ma ora si accorge di avere anche una grande rabbia, qualcosa di vendicativo e distruttivo che si oppone a ogni soluzione di buon senso, perché ha un'oscura ma intuitiva sensazione di essere stato in qualche modo ingannato e deviato da uno sviluppo più completo, di aver subito quasi un'antica violenza. Sente il fascino di una parte nuova e sconosciuta, un "totalmente altro" dagli aspetti rassicuranti del pensiero comune e ordinato della famiglia patriarcale, un bisogno di conoscenza e una curiosità per l'oscuro e il diverso che lo spinge irresistibilmente a interrogarsi sui temi fondamentali della vita e su sé stesso. Può darsi che vada in analisi, o comunque che cerchi di mettersi in contatto con i suoi sogni e i suoi "enigmi" alla ricerca di quella parte di sé che era stata ferita perché non rispettata e riconosciuta nella sua autonomia, e comincia quindi un serrato dialogo e confronto con l'inconscio, attraverso le sue immagini. Simbolicamente siamo nel momento cruciale della lotta col Drago, passaggio fondamentale attraverso cui si libera dal complesso materno una propria parte femminile (l'Anima), autonoma e diversa da quella impersonata ma anche imprigionata fino ad ora dalla madre. Turandot rappresenta tutto questo: un femminile interno totalmente altro da conquistare, Drago e Principessa nello stesso tempo, portatrice del pericolo e del fascino per accedere alla nuova situazione.
Se le cose vanno bene (tanti ci hanno provato e si sono persi, come i principi che ci hanno rimesso la testa...) l'uomo scopre che tutto l'impegno d'intelligenza non basta. Dopo aver capito i problemi posti dalla propria Anima trascurata e arrabbiata (gli enigmi da risolvere), bisogna fare un atto di fede e sottomissione, lasciando ad essa il tempo di riconciliarsi e di tornare ad amare, affinché il recupero e l'integrazione siano possibili. Solo allora, dopo un lungo colloquio interno, quando l'Io ha perso la sua arroganza ed è pronto a riconoscere ai valori dell'Anima la vera autonomia, emerge l'uomo nuovo, sensibile e intelligentemente propositivo, non più infantilmente legato ai genitori, con un nuovo centro e quindi un nuovo "regno". Ricongiunto alla propria “principessa interna”, è ora pronto ad affrontare la vita e la relazione con la donna adulta alla pari, con una completezza e una forza rinnovata.
La riunione con la propria parte psichica controsessuale era anche la meta finale del processo alchemico nel Rosarium Philosophorum, in cui, dopo le vicende di morte e rinascita della coppia regale, col ritorno della luce vediamo l'apparizione del Rebis, l'immagine vittoriosa dei due ormai fusi in un unico essere, a significare l'unità interiore ritrovata e l'integrazione della personalità.

11 dicembre 2010

Turandot (18) - La nuova coppia

Scritto da Marisa

Ormai Turandot confessa con il primo bacio e il primo pianto ("Del primo pianto...") l'innamoramento e la lotta sostenuta per opporvisi, ma scongiura il giovane a partire e ritenersi pago solo per il fatto di aver assistito al suo cedimento e all'ammissione della sua sconfitta. Non accetta ancora il matrimonio, la pubblica dichiarazione e l'assunzione del ruolo di moglie. E qui Calaf compie per la terza volta un atto di sottomissione e di spontanea offerta al potere del femminile: le rivela il proprio nome, rimettendosi ancora alla sua mercè: se Turandot vuole, può ancora ucciderlo.
È un atto straordinario, soprattutto se pensiamo che avviene dopo aver ottenuto l'ammissione dell'innamoramento da parte della stessa Turandot e dopo l'audacia dimostrata baciandola quasi di forza. Non basta infatti la resa se questa comporta ancora una ferita perché c'è ancora squilibrio, e Turandot che si dichiara vinta si vergogna del suo amore come di una debolezza. Perciò è necessario che Calaf rinunci per la terza volta e aspetti che il cambiamento sia consolidato attraverso una nuova possibilità e un nuovo rischio.

È importante anche evidenziare la ricorrenza del numero tre in tutta l'opera: Calaf chiede per tre volte di affrontare la prova, gli enigmi sono tre, le tentazioni sono tre e per tre volte Calaf rischia la vita (le ultime due su sua ulteriore iniziativa dopo la vittoria).
Il tre è un numero estremamente simbolico e universalmente fondamentale: rappresenta un ordine intellettuale e spirituale altamente dinamico perché segna l'uscita dalla dualità paralizzante degli opposti o della simbiosi in una triade che continuamente si riapre a nuovi sviluppi. Il tempo si svolge in un ritmo ternario di passato, presente e futuro, come l'esistenza è scandita da nascita, vita e morte. Tutta la vita biologica del pianeta presenta tre aspetti, vegetale, animale e umana, e a sua volta l'uomo ha tre aspetti fondamentali: materiale, razionale e spirituale, o per dirla in altro modo, corpo, psiche e spirito. L'intero cosmo è stato diviso dagli antichi in tre strati o regni: il Sopra o regno celeste (Zeus), la Terra propriamente detta come regno umano, e il Sotto come regno infero (Ade). La Trinità è per i cristiani dogma fondamentale, come per gli induisti la Trimurti: Brahma che crea, Vishnu che regge e conserva l'universo e Shiva che distrugge per permettere una nuova creazione, un nuovo ciclo, sono gli aspetti basilari su cui poggia tutta la vita, aspetti esaltati e cantati in continuazione dalla sacra sillaba AUM, il mantra per eccellenza, attraverso le sue tre lettere. Anche nelle fiabe il tre ricorre spessissimo come motivo fondamentale per svolgere vicende esemplari (tre figli o figlie, le tre melarance, i tre capelli d'oro del diavolo, le tre piume, le tre prove...). In sintesi, il tre è un numero iniziatico, maschile nella sua dinamicità, che prelude e prepara il quattro: la totalità e la completezza (i quattro punti cardinali, le quattro funzioni della psiche, i quattro amminoacidi del DNA, ecc.)

Tornando a Turandot, dopo la rivelazione del nome direttamente da Calaf, si compie la vera scelta e il superamento della parte vendicativa e dell'orgoglio ferito. Davanti all'imperatore e a tutto il popolo riunito, la principessa, ormai radiosa e felice, annuncia che il nome dello straniero è "Amore". È importante sottolineare che si tratta di una vera scelta e non di una accettazione passiva per "diritto di conquista", e questo cambia completamente il rapporto di coppia e le sue dinamiche.
Il tre diventa quattro perché ognuno dei componenti ha integrato il proprio lato controsessuale e questo ha un corrispettivo esterno adeguato: l'uomo si pone con la sua funzione animica in rapporto alla donna che ama senza pretendere di dominarla con la forza, e la donna accetta l'amore senza dover competere e difendersi con l'Animus. Si tratta, per dirla con Jung, di una vera coniunctio, il matrimonio perfetto a quattro.
Va ricordato e sottolineato che entrambi erano partiti piuttosto male e in condizioni di notevole difficoltà. Calaf era fuggiasco e isolato dopo aver perso un regno, e Turandot era isolata nel suo odio che metteva in pericolo la continuità stessa di tutto l'impero. Si può dire quindi che entrambi erano estraniati dal loro centro più vitale, perché il maschile di Calaf era estraniato dal centro del potere e dell'azione (dopo secoli di dominio da parte della coscienza orientata secondo un principio maschile che si sta sgretolando), mentre il femminile di Turandot era congelato e imprigionato da un Animus che la estraniava dall'eros. Per fortuna l'apparizione quasi fortuita di Turandot ha attivato immediatamente un impulso irresistibile alla riconquista, attraverso l'amore, di tutto ciò che era stato ottenuto con la forza e che ora risulta perso. Solo la tenace "intelligenza dell'Anima" del giovane principe riesce a portare a termine l'impresa e tutto il regno ne esce rinnovato.

Clicca qui per il testo del finale.

CALAF
Sei mia! Mia!

TURANDOT
Questo chiedevi. Ora lo sai.
Più grande vittoria non voler!
Parti, straniero, col tuo mister!

CALAF
Il mio mistero?
Non ne ho più! Sei mia!
Tu che tremi se ti sfioro,
tu che sbianchi se ti bacio,
puoi perdermi se vuoi!
Il mio nome e la vita insiem ti dono!
Io sono Calaf, figlio di Timur!

TURANDOT
So il tuo nome! So il tuo nome!

CALAF
La mia gloria è il tuo amplesso!

TURANDOT
Odi! Squillan le trombe!

CALAF
La mia vita è il tuo bacio!

TURANDOT
Ecco! È l'ora! È l'ora della prova!

CALAF
Non la temo!

TURANDOT
Ah! Calaf, davanti al popolo con me!

CALAF
Hai vinto tu!

(Appare l’esterno pittoresco del palazzo imperiale. Sopra un’alta scalea, al centro della scena, l’imperatore, circondato dalla corte, dai dignitari, dai sapienti, dai soldati. Ai due lati del piazzale, in vasto semicerchio, l’enorme folla.)

LA FOLLA
Diecimila anni al nostro Imperatore!

TURANDOT
Padre augusto,
conosco il nome dello straniero!
Il suo nome è... Amor!

LA FOLLA
Amor! O sole! Vita! Eternità!
Luce del mondo e amore!
Ride e canta nel sole
l'infinità nostra felicità!
Gloria a te! Gloria a te! Gloria!



Luciano Pavarotti, Joan Sutherland


Placido Domingo, Ghena Dimitrova

Gianfranco Cecchele, Birgit Nilsson


Sergej Larin, Giovanna Casolla

7 dicembre 2010

Turandot (17) - Il disgelo

Scritto da Marisa

Subito dopo la morte di Liù e quello che è un vero lamento funebre da parte della folla e di Timur, Calaf irrompe quasi aggredendo Turandot e strappandole il velo per costringerla a vedere il sangue sparso per lei, scendere "giù sulla terra" dal suo trono di gelo e dal "tragico cielo" in cui si è arroccata.
Non avevamo mai visto Calaf così furente: anzi sì, all'inizio dell'opera, quando si scaglia in difesa del giovane principe di Persia che viene portato al patibolo, maledicendo Turandot; ma poi, da quando ha visto il verginale incanto della principessa, è tutto preso dalla speranza della vittoria. Ora esce dall'estatica contemplazione e dal compito intellettuale di risolutore di enigmi e tira fuori una capacità d'azione che spiazza completamente Turandot, che cerca di difendersi rifugiandosi nei vecchi schemi del suo ruolo ("Che mai osi, straniero! Cosa umana non sono. Son la figlia del Cielo, libera e pura"). Calaf accorcia improvvisamente le distanze e passa dalla quasi aggressione al bacio (l'eterna somiglianza tra lotta ed amore, il profondo legame tra Ares ed Afrodite) e, nonostante le richieste di non essere profanata, Turandot cede allentando le ultime resistenze e si abbandona, non prima di aver sussurrato: "Che è mai di me? Perduta!". È un'affermazione molto importante perché segna la fine e quindi la morte della parte ostile di Turandot, che non potrà mai più essere come prima, fine che procede parallelamente alla morte di Liù. Dal punto di vista psicologico quindi le morti in realtà sono due e sono entrambe necessarie per far sorgere la "nuova" donna, libera dalla dipendenza di Liù ma anche dalla freddezza e dall'odio di Turandot. È la misteriosa ma profonda realtà della trasformazione, che passa sempre attraverso la morte: se non muore qualcosa della vecchia personalità non potrà nascere quella nuova, e qui le parti da sacrificare erano due, entrambe eccessive, unilaterali e non relate tra di loro.

Può sconcertare che Calaf tiri fuori una parte così decisa e da "macho", ma in questo momento è quello che ci vuole: ed è importante che, insieme alla gentilezza e alla pazienza, nell'uomo ci sia al momento giusto una parte decisa e "penetrante", un "aspetto Ares" in cui l'azione prende il comando. C'è un mito fondamentale nello sviluppo del femminile ed è quello del rapimento di Persefone, la giovane e vergine figlia di Demetra, da parte di Ade, il potente dio degli Inferi. È un mito molto complesso, su cui Jung ha lavorato estesamente nel suo saggio "Aspetto psicologico della figura di Core" e che Eric Neumann riprende ne "La psicologia del femminile". Sostanzialmente, per accedere a uno sviluppo più completo e incontrare l'uomo, bisogna che la "fanciulla Core" sia costretta da un maschile più forte e determinato, una "dolce violenza". La parte ancora legata alla madre (Core legata a Demetra) deve subire uno strappo, che per la coscienza verginale equivale all'essere rapita e condotta nel regno degli Inferi, tanto è la distanza tra la fanciulla e la sessualità adulta, con l'esperienza di darsi a un uomo. È un evento sconvolgente e un passaggio iniziatico molto netto e irreversibile. Solo dopo si potrà ristabilire un'unità spirituale più profonda tra madre e figlia ed inaugurare i "Misteri Eleusini", ampliando la coscienza femminile con l'inclusione intrapsichica dell'asse madre-figlia. Ma perché il tutto vada a buon fine e non sia quindi uno stupro, bisogna che anche la donna sia pronta; e qui Calaf coglie l'abbassamento delle resistenze in Turandot e giustamente avverte la menzogna dietro le parole ("Il gelo tuo è menzogna!") e sente che è ormai pronta all'avvicinamento.

Oramai è l'alba e l'approssimarsi del sole segna la fine delle tenebre come oscuramento della coscienza. E il canto dei fanciulli consacra il connubio tra "luce" e "vita", riprendendo il profetico tema dell'inizio, mentre Calaf esulta "Mio fiore mattutino!".

Clicca qui per il testo di "Principessa di morte!".

CALAF
Principessa di morte!
Principessa di gelo!
Dal tuo tragico cielo
scendi giù sulla terra!
Ah, solleva quel velo!
Guarda, crudele,
quel purissimo sangue
che fu sparso per te!

TURANDOT
Che mai osi, straniero!
Cosa umana non sono!
Son la figlia del Cielo,
libera e pura.
Tu stringi il mio freddo velo
ma l'anima è lassù!

CALAF
La tua anima è in alto,
ma il tuo corpo è vicino!
Con le mani brucianti stringerò
i lembi d'oro del tuo manto stellato.
La mia bocca fremente premerò su di te...

TURANDOT
Non profanarmi!

CALAF
Ah, sentirti viva!

TURANDOT
Indietro!

CALAF
Il gelo tuo è menzogna!

TURANDOT
No, mai nessun m'avrà!

CALAF
Ti voglio mia!

TURANDOT
Dell'ava lo strazio
non si rinnoverà! Ah, no!

CALAF
Ti voglio mia!

TURANDOT
Non mi toccar, straniero!
È un sacrilegio!

CALAF
No, il bacio tuo
mi dà l'eternità!

TURANDOT
Sacrilegio!
Che è mai di me? Perduta!

CALAF
Mio fiore! Oh, mio fiore mattutino!
Mio fiore, ti respiro!
I seni tuoi di giglio,
ah, treman sul mio petto!
Già ti sento mancare di dolcezza,
tutta bianca nel tuo manto d'argento...

TURANDOT
Come vincesti?

CALAF
Piangi?

TURANDOT
È l'alba! Turandot tramonta!

I RAGAZZI
L'alba! Luce e vita! Tutto è puro!

GLI UOMINI
L'alba! Luce e vita!
Principessa, che dolcezza nel tuo pianto!

CALAF
È l'alba! E amore nasce col sole!

I RAGAZZI
Tutto è santo! Che dolcezza nel tuo pianto!

TURANDOT
Che nessun mi veda,
la mia gloria è finita!

CALAF
No! Essa incomincia!

TURANDOT
Onta su me!

CALAF
Miracolo! La tua gloria risplende
nell'incanto del primo bacio,
del primo pianto!

TURANDOT
Del primo pianto. Ah! Del primo pianto!
Sì, straniero, quando sei giunto,
con angoscia ho sentito il brivido fatale
di questo mal supremo.
Quanti ho visto morire per me!
E li ho spregiati. Ma ho temuto te!
C'era negli occhi tuoi la luce degli eroi.
C'era negli occhi tuoi la superba certezza.
E t'ho odiato per quella!
E per quella t'ho amato!
Tormentata e divisa fra due terrori uguali:
vincerti o esser vinta.
E vinta sono!
Ah! Vinta, più che dall'alta prova,
da questa febbre che mi vien da te!



Placido Domingo, Ghena Dimitrova


Luciano Pavarotti, Joan Sutherland

Franco Corelli, Lucille Udovich

3 dicembre 2010

Turandot (16) - La morte di Liù

Scritto da Marisa

Le due arie dedicate a Liù nel terzo atto ("Tanto amore segreto, e inconfessato" e "Tu che di gel sei cinta") sono memorabili e raggiungono il vertice di quel canto struggente dell'anima di cui Puccini è maestro e che ha reso immortali le sue eroine d'amore (Butterfly, Tosca, Mimì...). Sembra che Puccini sia particolarmente attratto da queste giovani donne che si lasciano morire o si sacrificano per amore, e siamo sempre molto commossi ed impressionati da tali sacrifici. Ma al di là delle somiglianze, andrebbero viste le differenze per individuare meglio le complessità psicologiche di simili eroine. Qui cerchiamo di farlo con Liù e vedremo che non è così semplice come sembra.

C'è un poeta che è particolarmente affascinato dalle eroine d'amore, soprattutto da quelle non ricambiate, facendone un modello e uno dei motivi preferiti della sua poetica: Rainer Maria Rilke. Esse sono l'esempio più puro della superiorità del sentimento libero e gratuito, il canto fine a sé stesso, l'amare senza aspettarsi di essere riamati, e ancora la vera possibilità di affinare la capacità d'amare come espressione dell'espansione dell'anima. Nella prima Elegia duinese leggiamo:

    (...) ”Ma se ti struggi così, canta le innamorate.
    Certo, non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento famoso.
    Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi,
    che ti parvero tanto più amanti delle placate.
    Riprendila sempre l'irraggiungibile celebrazione;
    pensa: l'eroe perdura, financo la morte per lui
    fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
    Ma l'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta Natura
    come se non ci fossero forze due volte, per compiere questo.
    Hai cantato abbastanza di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
    cui sfugga l'amato, all'esempio esaltato di questa innamorata,
    senta: posso essere anch'io come lei?
    Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
    diventar più fecondi per noi? Non è tempo che amando,
    ci liberiamo dall'essere amato, lo reggiamo fremendo:
    come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
    per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.” (...)


(R. M. Rilke, Elegie duinesi, trad. Enrico e Igea De Portu, ed. Einaudi)

Questa superiorità decantata da Rilke e dai mistici non è gratuita; è possibile e auspicabile solo se, spostando la contropartita più in alto e dentro di noi, pur amando un essere umano – uomo o donna che sia – senza aspettarsi di essere riamati, si riuscisse a mantenere accesa la fiammella in modo da collegarsi a un livello più alto, tenere viva una tensione mistica che rende lo spirito vigile e aperto all'infinito. Gaspara Stampa (1523-54), presa da Rilke a modello delle sue eroine, abbandonata dal conte veneziano Collaltino di Collalto, mantenne intatto il suo sentimento e scrisse uno dei canzonieri d'amore più accorati della storia della poesia.

Certo conosciamo un canzoniere più perfetto, quello del Petrarca (a cui chiaramente si è ispirata Gaspara Stampa), anch'esso un canto d'amore irraggiungibile e impossibile, ma sembra che Rilke si commuovesse di più per la giovane donna morta a 31 anni, consumata da una febbre che non era solo quella del corpo. "L'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta natura...": la morte giovane, dunque, come suggello dello struggimento dell'anima.

Ma torniamo a Liù e alla sua morte. È sempre stato detto che Liù è morta per amore, per salvare il suo amato non rivelandone il nome, e nel gesto di togliersi la vita davanti a lui e a Turandot si è vista la prova suprema del suo sacrificio. Ma è solo così?
Sicuramente l'amore di Liù è grande, e nel confronto con la potente principessa, quando le viene chiesto l'origine di tanta forza, non esita a riconoscerlo: "Tanto amore segreto, e inconfessato, grande così che questi strazi son dolcezze per me, perché ne faccio dono al mio Signore...". Turandot ne rimane molto turbata perché è la prima volta che il suo odio per l'uomo incontra un sentimento altrettanto forte, ma in chiave opposta: una donna che testimonia che si può amare quello che lei considera il nemico più crudele della donna, fino a morirne. Certo, lei ha visto uomini accettare la morte per il suo amore, ma la situazione era molto diversa: i giovani principi innamorati sfidavano consapevolmente la morte, correndo un rischio che per loro aveva almeno una chance, la speranza di vittoria, mentre l'amore di Liù è ormai senza speranza e fino ad ora del tutto "segreto e inconfessato". Ma paradossalmente, finché era segreto e inconfessato, quando accompagnava il vecchio re Timur nell'esilio, una speranza c'era; e questa speranza crolla proprio nel momento in cui rivela il suo amore, perché è ormai evidente che Calaf, perdutamente innamorato di Turandot pur vedendola così crudele, non potrà mai corrispondere e accettare il suo amore. Ed è questo il vero motivo del suicidio: il crollo della speranza. Liù ha dimostrato di essere abbastanza forte da saper resistere persino alle torture, e il non rivelare il nome le è anzi "suprema delizia", perché può "tenerlo segreto e possederlo io sola!". E quindi non è vero che muore per non rivelare il nome: muore per non assistere fino in fondo alla vittoria che pur sta concorrendo a preparare.

Lo dice chiaramente alla fine della seconda struggente aria: "(...) Io chiudo stanca gli occhi perché egli vinca ancora... per non... per non vederlo più!", e questo "per non vederlo più" viene ripetuto per ben due volte. Quindi Liù muore perché non regge di vedere la realizzazione dell'amore tra Calaf e Turandot, e questo la rende molto più umana e meno eroica. La ricollega inoltre al personaggio originario dell'opera di Carlo Gozzi, dove non c'è Liù ma Adelma, una principessa che dopo la sconfitta del padre è stata asservita e ora fa parte delle ancelle di Turandot; ne conquista anzi la fiducia e la sprona, lusingandone la coerenza e la fermezza, a non cedere al Principe che ha risolto gli enigmi, perché in lui ha riconosciuto proprio il giovane rifugiato nella reggia del padre, da lei amato segretamente perché ritenuto non nobile e quindi non degno. Vedendolo ora di nuovo e sapendolo principe, è presa da tale amore e gelosia da non esitare, pur di averlo, a ordire una serie di inganni che alla fine vengono smascherati; tenta di suicidarsi davanti a Turandot e Calaf, proprio come Liù, ma viene fermata in tempo, cosa che non avviene per Liù. La sostituzione di Adelma con Liù è il cambiamento più importante che Puccini ha richiesto nell'opera di Gozzi, evidentemente per introdurre un'eroina più romantica, in sintonia col suo sentire e più vicina alle altre sue creature. Ma una parte di Adelma rimane viva nella dichiarazione finale di Liù e nella scelta di sottrarsi al fallimento della speranza.

Viene in mente un altro suicidio di un'eroina orientale, quello di Butterfly. Ma si tratta di una morte molto diversa, ed è importante rendersene conto: il gesto di Butterfly dopo l'estrema delusione, la scoperta che Pinkerton non tornerà più a lei e che il suo amore era basato su una idealizzazione, segna una presa di coscienza di come attraverso l'amore per uno straniero avesse perso la sua identità più profonda, abbandonando gli dei e la propria tradizione vitale per darsi a un'altra religione e a un altro stile di vita che non le corrispondeva intimamente. Quando realizza attraverso il tradimento di Pinkerton che il vero tradimento è il suo, verso sé stessa e la propria anima, si suicida in modo rituale, riprendendo così contatto, attraverso la morte, con i propri antenati e chiedendo perdono agli dei della sua religione. Quindi la morte dell'eroina giapponese è un vero atto di risveglio interiore e l'unico modo di ritrovare sé stessa, seguendo l'esempio del padre e della migliore tradizione spirituale dei samurai e dei maestri, in cui la morte è una scelta di fedeltà a sé stessi e ai valori dello Spirito.

La morte di Liù è invece una resa alla disperazione: vedendo l'impossibilità di distogliere Calaf da Turandot, viene meno il senso stesso della vita che aveva interamente proiettato sull'uomo amato. Viene meno la parte "dipendente", la "schiava d'amore" che, se non c'è altro, un proprio centro autonomo, segna la fine della donna stessa, di tutta la persona. Quante profonde depressioni, vere e proprie morti psichiche, si sono perpetrate in nome di un amore deluso? Ma qui, per fortuna, c'è un contraltare: il sacrificio della parte che vive solo per amore dell'uomo attiva il sentimento dell'altra parte, quella verginale e chiusa, completamente autonoma dall'uomo. E così può avvenire un'integrazione risolutiva del profondo conflitto e della scissione finora in atto. Il sacrificio di Liù non è inutile, e vedremo come l'amore di Liù risorga in Turandot: ma non più come unilaterale dedizione all'altro, bensì come apertura e resa a una forza superiore che riconcilia gli opposti.

Clicca qui per il testo di "Tu che di gel sei cinta".

LIÙ
Tu che di gel sei cinta,
da tanta fiamma vinta
l'amerai anche tu!
Prima di questa aurora,
io chiudo stanca gli occhi,
perché egli vinca ancora...
per non vederlo piu!

(Prende di sorpresa un pugnale a un soldato e si trafigge a morte. Barcolla in mezzo al terrore di tutti e va a cadere ai piedi del principe.)



Maria Callas


Renata Tebaldi


Elisabeth Schwarzkopf

Montserrat Caballé

28 novembre 2010

Turandot (15) - Le tentazioni

Scritto da Marisa

Ping, Pong e Pang, in qualità di rappresentanti del potere costituito, cercano immediatamente di riportare il giovane entusiasta e sognatore alla prosaicità dell'utile immediato ("Tu che guardi le stelle, abbassa gli occhi"), e lo fanno cercando di sedurlo con quelle tentazioni che sanno essere sempre molto potenti e alle quali in genere nessuno resiste (le proposte che non si possono rifiutare...): sesso, denaro e potere. Gli enigmi erano tre, e tre sono le tentazioni, anzi le pressioni accompagnate da ricompensa.
Per aver salva la vita i ministri propongono al principe di fuggire, lasciando inconclusa la vittoria, e in cambio gli offrono, se è l'amore sensuale quello che cerca, tante bellissime fanciulle ("Guarda, son belle / son belle tra lucenti veli! Corpi flessuosi...").


Al deciso no di Calaf, passano al secondo attacco offrendo ceste di gioielli di ogni tipo, ricchezze e tesori, decantandoli abbondantemente ("Fuochi azzurri! / queste fulgide gemme! / Verdi splendori! / Pallidi giacinti! / Le vampe rosse dei rubini! / Sono gocciole d'astri! / Prendi, è tutto tuo!").
Senza pensarci un attimo, la risposta è un "No!" assoluto e allora si passa alla terza proposta: quella che fa leva sul desiderio di potere e di gloria. "Vuoi la gloria? Noi ti farem fuggir... e andrai lontano con le stelle, verso imperi favolosi!", suggeriscono i ministri a Calaf, mentre tutta la folla lo incita ad accettare e fuggire.
Il giovane eroe ha bisogno di tutto il suo coraggio per liberarsi da quello che gli sembra un incubo ed invoca l'alba, sua alleata, per passare indenne da simili pressioni e riafferma: "Crollasse il mondo, voglio Turandot!". Rimane così fedele alla sua ricerca e al suo cuore. Solo gli spiriti eletti hanno tanta fermezza, e le doti per resistere a tali pressioni non si improvvisano ("So resistere a tutto, fuorché alle tentazioni", diceva Oscar Wilde con la consueta, spietata e ironica verità).


Il tema delle tentazioni all'interno di una prova difficilissima è proprio dei grandi cammini spirituali e non ci si meravigli se oso paragonare Calaf al Buddha e persino al Cristo. Il principe Siddharta diventerà il Buddha (l'illuminato) dopo la famosa notte in cui, sedendo sotto l'albero della conoscenza, riuscì a rimanere completamente calmo e imperturbabile di fronte a Mara, il demone-eros dell'India, che lo assaliva con le visioni scatenate dall'opera richiesta ai tre figli, Turbamento, Estro e Orgoglio, e alle tre figlie, Insoddisfazione, Voluttà e Bramosia. Dal nome dei figli possiamo capire la natura delle tentazioni e vediamo che in fondo sono le stesse che i ministri di Turandot presentano a Calaf. Il Buddha riporterà la vittoria proprio all'alba e tutti gli dei celesti si rallegreranno con lui (Aśvaghoṣa, “Le gesta del Buddha”, ed. Adelphi).
Da Freud sappiamo quanto siano potenti e importanti le pulsioni legate alla sessualità, tanto da aver ridotto tutta la libido a pulsione sessuale attirandosi le feroci critiche dei contemporanei educati secondo la morale ancora ottocentesca (la pubblicazione dell' "Interpretazione dei sogni" inaugura il 1900) e Adler invece imposterà tutta la sua psicologia sulla "volontà di potenza", l'altra grande pulsione, quasi sempre negata ma altrettanto potente.
Jung cercherà di andare oltre, non negando la loro importanza, ma riconoscendo il bisogno ultimo dell'uomo nel trovare la propria realizzazione (il processo di individuazione) non nell'esaudimento immediato né nella rimozione, ma nella trasformazione delle pulsioni istintuali sotto la guida del Sé. Solo pochi si impegnano in questo processo e i grandi campioni dello spirito ne sono i modelli. Nelle tentazioni che Gesù (prima di diventare il Cristo) dovrà affrontare durante i suoi 40 giorni di ritiro nel deserto manca la tentazione del sesso (per lo meno i Vangeli, che rimuovono completamente la sessualità, non ne parlano) e sono invece pressanti quelle del potere, della gloria e dell'orgoglio smisurato fino all'onnipotenza. È comunque importante il fatto che anche Gesù abbia avuto le sue tentazioni da parte dell'Avversario, e solo superandole abbia potuto iniziare la vera missione. Altre tentazioni si ripresenteranno alla fine, per sottolineare la difficoltà della scelta e la drammaticità dell'ultimo sacrificio. Senza di queste il valore etico non esisterebbe e non sarebbe possibile una scelta individuale.

Tornando a Calaf e alle sue tentazioni, questo è il momento in cui si chiarisce meglio la natura del suo trasporto per Turandot e si delinea che quello che sta avvenendo è soprattutto un percorso individuativo e spirituale, perché all'esaudimento immediato delle pulsioni egli preferisce e lotta per conquistare una donna che rappresenta la parte più segreta e profonda della propria Anima, cosa che la rende unica e irrinunciabile. La fascinazione che Turandot ha esercitato immediatamente su di lui ha infatti la natura della proiezione d'Anima, più che una semplice attrazione sessuale, la stessa proiezione d'Anima che Dante effettua su Beatrice e che lo porterà a compiere la grande impresa attraverso il "viaggio" pericoloso. Turandot rappresenta così l'Anima da riconquistare, o meglio quell'aspetto del femminile interiore che l'uomo, nel progredire della coscienza patriarcale dominatrice e unilaterale, ha estraniato da sé inimicandosela. Solo gli uomini più sensibili se ne accorgono, in genere gli artisti, e spesso la poesia è un canto alla ricerca di quell'unità interiore (l'armonia) che da tanto tempo abbiamo perso, una ricerca accorata della propria principessa violentata e abbandonata; e quando capita di trovarsela davanti, bisogna saper affrontare qualsiasi prova per riconquistarla.

Clicca qui per il testo di "Tu che guardi le stelle".

PING
Tu che guardi le stelle,
abbassa gli occhi!

PONG
La nostra vita è in tuo potere!

PANG
La nostra vita!

PING
Udisti il bando?
Per le vie di Pekino
ad ogni porta batte la morte
e grida: il nome!

PONG
Il nome!

PONG, PANG
Il nome!

PING, PONG, PANG
O sangue!

CALAF
Che volete da me?

PING
Di' tu che vuoi! Di' tu che vuoi!

PONG
Di' tu che vuoi!

PING
È l'amore che cerchi?

PANG
Di' tu che vuoi!

PING
Di' tu che vuoi!
Ebbene, prendi!
Guarda, son belle,
son belle fra lucenti veli!

PONG, PANG
Corpi flessuosi...

PING
Tutte ebbrezze e promesse
d'amplessi prodigiosi!

DONNE
Ah, ah! Ah, ah!
Ah, ah! Ah, ah!

CALAF
No! No!

PONG, PANG
Che vuoi?

PING, PONG, PANG
Ricchezze?
Tutti i tesori a te!
A te!... A te!... A te!

PING
Rompon la notte nera...

PONG
Fuochi azzurri!

PING
...queste fulgide gemme!

PANG
Verdi splendori!

PONG
Pallidi giacinti!

PANG
Le vampe rose dei rubini!

PING
Sono gocciole d'astri!

PONG, PANG
Fuochi azzurri!

PING
Prendi! È tutto tuo!

PONG, PANG
Vampe rosse!

CALAF
No! Nessuna ricchezza! No!

PING, PONG, PANG
Vuoi la gloria?
Noi ti farem fuggir...

PONG, PANG
...e andrai lontano con le stelle
verso imperi favolosi!

FOLLA
Fuggi! Fuggi!

DONNE
Va' lontano, va' lontano!

TUTTI
Fuggi, va' lontano, va'! Va'!

UOMINI
Va' lontano!

TUTTI
Fuggi! Fuggi! Va' lontano,
e noi tutti ci salviam!

CALAF
Alba, vieni!
Quest'incubo dissolvi!

PING
Straniero, tu non sai, tu non sai
di che cosa è capace la crudele.

PING, PONG, PANG
Tu non sai...

PONG, PANG
...quali orrendi martiri...

PING
Tu non sai! Tu non sai!

PONG, PANG
...la Cina inventi.
Se tu rimani e non ci sveli...

PONG, PANG, GENTE
...il nome siam perduti...

PING
L'insonne non perdona!
Noi siam perduti!
Sarà martirio orrendo!

PING, PANG, PONG, UOMINI
I ferri aguzzi!
L'irte ruote!

GENTE
Sarà martirio orrendo!

PING, UOMINI
Il caldo morso
delle tanaglie!

PONG, PANG
La morte a sorso a sorso!

PING, FOLLA
La morte a sorso a sorso!

PONG, PANG
Non farci morire!

TUTTI
Non farci morire,
no, non farci morir!

CALAF
Inutili preghiere!
Inutili minacce!
Crollasse il mondo,
voglio Turandot!


direttore: Zubin Mehta

24 novembre 2010

Turandot (14) - Notte di veglia

Scritto da Marisa

"Così comanda Turandot: questa notte nessun dorma in Pekino!". Con questo editto, proclamato dall'araldo, inizia il terzo atto.
Siamo nel bel mezzo della vicenda e la notte incombe con tutte le sue tenebre e la sua minaccia di morte. Turandot, la potente, ha dato ordine di cercare in tutti i modi di carpire il nome dello straniero, pena la morte per tutti. È il momento più buio, e la paura si estende come un contagio. Questa natura contagiosa della paura è resa con esemplare immediatezza e semplicità, senza moralismi o giudizi: è così, e la folla in balia della paura è come un campo di grano che ondeggia a seconda della direzione del vento, senza alcun senso critico o riflessione. Gli stessi che appena qualche istante prima avevano inneggiato al principe vincitore ("Gloria, gloria, o vincitore! / Ti sorrida la vita!") ora lo insultano ("Tu maledetto! Morrai prima di noi / Tu spietato, tu crudele...").
Che la folla sia manovrabile attraverso la paura è una realtà antica quanto la società umana e da sempre i tiranni e dittatori lo sanno e ne approfittano (Elias Canetti ci ha scritto su un magnifico libro: "Massa e potere", ed. Adelphi). Dovremmo ricordarcene più spesso e stare attenti!

La frase dell'araldo ("Nessun dorma...") è ripresa da Calaf nell'aria più celebre dell'opera, ma il senso ne viene capovolto: quella che doveva essere una notte di paura e di morte può diventare un'attesa di speranza e un preludio all'amore. La principessa stessa, pur nel gelo che la circonda ancora, è invitata a guardare le stelle "che tremano d'amore e di speranza", e il canto si conclude con la certezza che l'alba porterà la vittoria e il sorgere del sole riscalderà e scioglierà il gelo, consegnando, attraverso l'ardore del primo bacio, Turandot a una nuova vita.
Anche chi conosce solo superficialmente l'opera di Puccini ha sicuramente ascoltato e amato questo brano, che giustamente è diventato un inno alla speranza e al rinnovamento e, come tale, agisce inconsciamente, anche se non ci fermiamo a rifletterci sopra, perché il potere della musica agisce direttamente sulle nostre parti emotive e condiziona i nostri stati d'animo, senza passare dalla testa (per fortuna!).
Da notare il riferimento alle stelle. Sembra ovvio che di notte ci siano le stelle; ma qui, fino ad ora, ha dominato la luna, e passare dalla luna alle stelle ha un preciso significato simbolico. Le stelle sono altro sia dalla luna che dal sole, perché non riguardano direttamente la Terra, assicurando vita e fecondità: sono molto più lontane e la loro luce ha una funzione di orientamento. Simbolicamente non appartengono né al femminile né al maschile (di che sesso sono gli angeli?), perché sono al di sopra e al di fuori, oltre i conflitti tra i generi. Rappresentano una "direzione", un nuovo punto di riferimento e di orientamento, un tendere a una visione superiore e spirituale che concilia ogni conflitto. Non è questa l'impressione profonda che ci fa la contemplazione del cielo stellato, facendo apparire piccoli e insignificanti i nostri problemi e aprendoci all'infinito?

Clicca qui per il testo di "Nessun dorma".

CALAF
Nessun dorma! Nessun dorma!
Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza
guardi le stelle che tremano d'amore e di speranza...
Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà!
No, no, sulla tua bocca lo dirò, quando la luce splenderà…
Ed il mio bacio scioglierà il silenzio che ti fa mia.

LE DONNE
Il nome suo nessun saprà…
E noi dovrem, ahimè, morir, morir!

CALAF
Dilegua, o notte! Tramontate, stelle!
All'alba vincerò! Vincerò!



Luciano Pavarotti


Franco Corelli


Giuseppe Di Stefano


Placido Domingo

Mario Del Monaco



Un magistrale utilizzo dell'aria in una scena del film "Mare dentro" (Alejandro Amenábar, 2004)

23 novembre 2010

Turandot (13) - Riassunto dell'atto III

Scritto da Giovanni Ansaldi

(Foto di Lucia Francini)

1° quadro, Giardino della reggia.

È notte. Le voci degli araldi annunciano gli ordini di Turandot: che nessuno dorma a Pechino fino a quando non sarà scoperto il nome del principe ignoto. Calaf attende tranquillo il sorgere del sole ("Nessun dorma", una delle arie più note del repertorio lirico).
Ping, Pong e Pang vengono a offrirgli, in cambio del suo nome, tutto ciò che un uomo può desiderare: bellissime fanciulle, ricchezze, gloria e libertà. Ma il principe non si lascia smuovere né dalle lusinghe né dalle minacce. Intanto i soldati introducono Timur e Liù, perché alcuni testimoni fra la folla li hanno visti parlare con Calaf e quindi si sospetta che ne conoscano il nome. Turandot ordina che Timur sia messo alla tortura, ma Liù afferma che solo lei conosce il nome del principe. Affronta Turandot ("Tu che di gel sei cinta"), poi si suicida piuttosto che tradire il segreto dell'uomo che ama (Turandot: "Chi pose tanta forza nel tuo cuore?" / Liù: "Principessa, l'amore"). Turandot è scossa da questo gesto. Rimasto solo con lei, Calaf, dopo aver rimproverato a Turandot la sua freddezza, vincendone le resistenze la prende con passione fra le braccia e la bacia. È l’alba. Calaf le rivela il proprio nome e ancora una volta rimette la sua sorte nelle mani di Turandot.

2° quadro, Esterno del palazzo imperiale.

La corte e tutta la folla è in attesa della comparsa di Turandot che annuncerà l'esito delle ricerche. Turandot compare raggiante al sommo della scalinata e dichiara di conoscere il nome del principe ignoto: il suo nome è Amore. Calaf l'abbraccia mentre la folla esulta (grande finale sinfonico-corale coi temi dell'opera).

20 novembre 2010

Turandot (12) - Il rilancio

Scritto da Marisa

Qui ha inizio la parte più originale della storia, una variante rispetto al tema classico dell'eroe, almeno in occidente (in oriente e in altre culture ci sono alternative ben radicate, ma questo è un argomento che ci porterebbe troppo lontano, anche se mi sta molto a cuore e spero di occuparmene per esteso in altra sede), dove alla vittoria segue sempre l'appropriazione e l'utilizzo del bottino, anche sotto forma di principessa, senza mai chiedere se lei è d'accordo (si dà per scontato).
Turandot non vuole accettare la sconfitta ("No, no, non sarò tua! Non voglio, non voglio!") e di fronte a tanta resistenza il principe sconosciuto dichiara che non la vuole con la forza, ma "tutta ardente d'amor", anche se persino l'imperatore sarebbe disposto, per mantenere il sacro giuramento, a costringere la figlia all'unione forzata.
Egli rilancia la sfida, ancora una volta a proprio rischio: si pone volontariamente alla mercè di Turandot, dandole nuovamente la possibilità di ucciderlo se prima dell'alba lei riuscirà a conoscere il suo nome.
È in atto un gioco di specchi molto importante: è stato svelato il nome della principessa, ora deve essere riconosciuto il nome di lui, del principe ancora “ignoto”, affinché la reciprocità inizi a funzionare, le tenebre possano cedere il passo alla luce, il gelo al calore.

Ricordiamo che all'inizio dell'opera, quando c'è l'incontro col padre, ci viene detto che Timur è il re spodestato dei Tartari, quindi Calaf ne è il principe ereditario. Ma da Turandot stessa sappiamo che proprio il re dei Tartari si era reso colpevole del misfatto ai danni della dolce Lou-Ling. E ora che sia il principe dei Tartari colui che deve riparare l'orrore suscitato dal suo antenato appare ancora più significativo. Se la vendetta viene da lontano, anche la riparazione arriva attraverso la lunga trafila generazionale, di padre in figlio, secondo i tempi biblici e archetipici...
Quello che era stato preso con la violenza deve essere riconquistato con l'amore! È un principio che sembra ovvio, ma che è assolutamente nuovo per la mentalità eroica basata su conquista, guerra, vittoria, bottino. Che l'amore sia più forte della legge è stato annunciato già da Cristo duemila anni fa (Vangelo = buona novella), ma la coscienza occidentale, pur avendolo accettato formalmente, non l'ha mai veramente fatto suo e capito fino in fondo, rimanendo arroccata sui “diritti” dei vincitori e quindi dei più forti e dei prevaricatori.

In oriente l'insegnamento buddista ha allenato le coscienze, anche attraverso le pratiche yogiche, al non attaccamento e alla quiete dei desideri e dell'anima, e con Gandhi c'è stato l'unico vero tentativo politico di applicazione della “non violenza”, ma il pensiero dominante che noi conosciamo rimane ancorato alla mentalità eroica della lotta che sfocia nell'annullamento dell'avversario (gli "stati canaglia"!).
Perciò l'atteggiamento di Calaf è assolutamente inedito! Egli cerca di vincere “ponendosi sotto”, alla mercè dell'altro. Non è passivo né rinunciatario, tanto meno depresso o vittimista; è anzi pieno di quella speranza che era la soluzione del primo quesito, il suo sangue è caldo e generoso come vuole il secondo e non rinuncia a colei per la quale sta sfidando la morte, che è il premio stesso dell'ultimo enigma.
Forse possiamo trovare un tentativo simile di sottoporsi al femminile per redimerlo nel principe Myskin di Dostoevskij (l'antieroe per eccellenza...), e sicuramente il fascino del personaggio russo sta nell'assoluto candore e nella smisurata pietà e compassione; atteggiamenti peraltro ben diversi dalla calda passione di Calaf e dal suo spirito attivo (egli rimane un eroe, anche se trova una soluzione diversa dagli eroi classici).
Che il comportamento di Calaf sia centrato sull'eros, mentre quello di Turandot è centrato sul logos, sembra rovesciare i luoghi comuni che vogliono la donna regina dell'eros e l'uomo dominatore del logos. Ma Jung ci ha insegnato come queste categorie siano relative quando si riferiscano a uomini e donne particolari, mentre hanno una validità “archetipica”, cioè modi di alludere a forme strutturanti di principi: il maschile e il femminile come aspetti di differenziazione della coscienza universale, così come il giorno e la notte fanno parte di un'unica entità temporale differenziata attraverso gli opposti.
La controparte femminile nell'uomo è chiamata da Jung “Anima” ed è una funzione essenzialmente di relazione, che regola e determina la qualità del mondo emotivo e relazionale dell'uomo con il proprio mondo interiore e con il fuori, soprattutto con la donna. Va da sé che quelli che hanno una funzione animica più differenziata e meglio allenata sono gli uomini più aperti al sentimento e all'eros. In questo senso Calaf è sicuramente un uomo la cui Anima è molto sviluppata e lo può guidare con sicurezza là dove un altro esiterebbe.

Clicca qui per il testo di "Figlio del Cielo!".

TURANDOT
Figlio del Cielo! Padre augusto!
No! Non gettar tua figlia
nelle braccia dello straniero!

L'IMPERATORE
È sacro il giuramento!

TURANDOT
No, non dire! Tua figlia è sacra!
Non puoi donarmi a lui,
a lui come una schiava.
Ah, no! Tua figlia è sacra!
Non puoi donarmi a lui
come una schiava morente di vergogna!
Non guardarmi così!
Tu che irridi al mio orgoglio,
non guardarmi così!
Non sarò tua! No, non sarò tua!
Non voglio, non voglio!

L'IMPERATORE
È sacro il giuramento!

LA FOLLA
È sacro il giuramento!
Ha vinto, Principessa!
Offrì per te la vita!

TURANDOT
Mai nessun m'avrà!

LA FOLLA
Sia premio al suo ardimento!

TURANDOT
Mi vuoi nelle tue braccia a forza,
riluttante, fremente?

LA FOLLA
È sacro, è sacro,
è sacro il giuramento, è sacro!

CALAF
No, no, Principessa altera!
Ti voglio tutta ardente d'amor!

LA FOLLA
Coraggioso! Audace!
Coraggioso! O forte!

CALAF
Tre enigmi m'hai proposto,
e tre ne sciolsi.
Uno soltanto a te ne proporrò:
Il mio nome non sai. Dimmi il mio nome.
Dimmi il mio nome prima dell'alba,
e all'alba morirò...

L'IMPERATORE
Il cielo voglia che col primo sole
mio figliolo tu sia!

LA FOLLA
Ai tuoi piedi ci prostriam,
Luce, Re di tutto il mondo!
Per la tua saggezza, per la tua bontà
ci doniamo a te, lieti in umiltà,
a te salga il nostro amor!
Diecimila anni al nostro Imperatore!
A te, erede di Hien-Wang noi gridiam:
Diecimila anni al nostro Imperatore!
Alte, alte le bandiere!
Gloria a te! Gloria a te!

Eva Marton, Placido Domingo


J. Sutherland, L. Pavarotti

M. Caballé, J. Carreras

16 novembre 2010

Turandot (11) - Gli enigmi

Scritto da Marisa

La sfida di Turandot agli uomini avviene sul piano intellettuale, attraverso quel logos che tradizionalmente costituisce il terreno privilegiato del maschile, mentre dalla tradizione alla donna è riconosciuto come terreno dominante il sentimento: l'eros.
Una donna che osa umiliare l'uomo con il pensiero! Siamo persino oltre il femminismo, e solo una principessa (un essere superiore per rango) può permetterselo. Per vendicarsi dell'uomo scende sul suo stesso terreno e lo sconfigge. Ma sappiamo anche che Turandot è in realtà una donna profondamente ferita e il suo eros è congelato.

Il tema degli enigmi non è nuovo nei miti; basti pensare a Edipo, che incontra sul suo cammino la Sfinge. Aver risolto l'enigma assicura a Edipo la mano della regina e il trono di Tebe, con tutto quel che segue...
Edipo ha preso l'enigma proposto dalla Sfinge alla lettera, riducendolo a un "indovinello" e non capendo la natura del problema che aveva di fronte: la ricerca della sua vera identità e lo svelamento del mistero della propria nascita. Leggiamo cosa dice James Hillman a proposito:

Edipo ha avuto una prima opportunità di mettere in pratica l'orecchio psicologico con la Sfinge, e invece l'ascolta come se il suo fosse un indovinello, come se gli ponesse un quesito. L'ascolta con l'orecchio eroico. “Io le chiusi la bocca” (Storr, v. 397). “Risolsi l'indovinello con la mia sola intelligenza” (Grene, v. 398). In questo passo Edipo amplifica la sua posizione eroica parlando di sé stesso in prima persona come ha fatto raramente sino a quel momento nel testo. Chiudere la bocca alla Sfinge, che è un altro modo di tappare le proprie orecchie, è il gesto ricco di senso per il quale il Coro lo loda negli ultimi versi della tragedia: “Guardate questo Edipo / che conosceva gli enigmi famosi ed era il più valente tra gli uomini” (vv. 1524-1525). Per l'uomo più valente, un enigma diviene un problema da risolvere, da sgominare. Inoltre un ainigma, come osserva Marie Delcourt, si riferisce a “tutto ciò che ha un doppio senso: simboli, oracoli, detti sapienzali pitagorici...” Un enigma è come un mantra o un koan o una gnome eraclitea da portare con sé e da cui imparare, la Sfinge come emblema su una pietra dura, messa su una colonna per essere riverita, non gettata in fondo a un dirupo.
(James Hillman, "Variazioni su Edipo", ed. Cortina, 1992, pp. 103-104)
Vedremo che Calaf non farà lo stesso errore di Edipo, quello cioè di pensare di aver ormai risolto tutto e godersi il frutto della presunta vittoria.

Il paragone di Turandot con la Sfinge non è casuale, perché, al di là della bellezza, anche in Turandot, impenetrabile e dura come giada, implacabile e fredda come spada, si annida una specie di essere mostruoso, complesso e sovraordinato, ben più importante e potente di una semplice donna. Essa è, rispetto al mito dell'eroe, drago e principessa allo stesso tempo: colei che pone il quesito mortale e il premio stesso della soluzione.

Anche i temi che gli enigmi pongono sono ovviamente importanti, perché nelle fiabe, come nei sogni, niente è casuale e conviene prestare attenzione anche ai dettagli. Mentre la Sfinge presenta a Edipo un unico enigma centrato sull'uomo, Turandot ne esige la soluzione di tre, in un crescendo mirabile: le soluzioni sono la speranza, il sangue e, come ultimo, il suo stesso nome. Come si vede, non sono problemi casuali e riguardano soprattutto lei stessa più che lo sfidante, perché quella congelata senza speranza, ferma in un atteggiamento che impedisce al sangue di scorrere più veloce con le emozioni, ma soprattutto estraniata dal principio fondante del femminile e quindi estranea a sé stessa e ridotta al solo nome "di rango" e perciò formale, è proprio lei. È come se Turandot avesse posto al principe l'enigma di sé stessa, quella ricerca che lei non può compiere perché vittima di risentimenti ormai pietrificati dalle difese.
Semplificando al massimo, la Sfinge chiede a Edipo: "Chi sei?", mentre Turandot chiede: "Chi sono?". È sempre in gioco, in fondo in fondo, l'enigma della propria identità più autentica.

Clicca qui per il testo di "Straniero, ascolta".

TURANDOT
Straniero, ascolta:
"Nella cupa notte vola un fantasma iridescente.
Sale e spiega l'ale sulla nera infinita umanità.
Tutto il mondo l'invoca e tutto il mondo l'implora.
Ma il fantasma sparisce coll'aurora
per rinascere nel cuore.
Ed ogni notte nasce ed ogni giorno muore!"

CALAF
Sì! Rinasce! Rinasce e in esultanza
mi porta via con sé, Turandot: la Speranza!

I SAPIENTI
La Speranza! La Speranza! La Speranza!

TURANDOT
Sì, la speranza che delude sempre!
"Guizza al pari di fiamma, e non è fiamma.
È talvolta delirio. È febbre d'impeto e ardore!
L'inerzia lo tramuta in un languore.
Se ti perdi o trapassi, si raffredda.
Se sogni la conquista, avvampa, avvampa!
Ha una voce che trepido tu ascolti,
e del tramonto il vivido baglior!"

L'IMPERATORE
Non perderti, straniero!

LA FOLLA
È per la vita! Parla!
Non perderti, straniero! Parla!

LIÙ
È per l'amore!

CALAF
Sì, Principessa! Avvampa e insieme langue,
se tu mi guardi, nelle vene: il Sangue!

I SAPIENTI
Il Sangue! Il Sangue! Il Sangue!

LA FOLLA
Coraggio, scioglitore degli enigmi!

TURANDOT
Percuotete quei vili!
"Gelo che ti dà foco e dal tuo foco più gelo prende!
Candida ed oscura! Se libero ti vuol ti fa più servo.
Se per servo t'accetta, ti fa Re!"
Su, straniero, ti sbianca la paura!
E ti senti perduto!
Su, straniero, il gelo che dà foco, che cos'è?

CALAF
La mia vittoria ormai t'ha data a me!
Il mio fuoco ti sgela: Turandot!

I SAPIENTI
Turandot! Turandot! Turandot!

LA FOLLA
Turandot! Turandot!
Gloria, gloria, o vincitore!
Ti sorrida la vita! Ti sorrida l'amor!
Diecimila anni al nostro Imperatore!
Luce, Re di tutto il mondo!



B. Nilsson, F. Corelli


M. Caballé, L. Pavarotti


M. Callas, E. Fernandi

M. Dragoni, G. Tieppo

11 novembre 2010

Turandot (10) - La vendetta

Scritto da Marisa

In un'aria memorabile ("In questa reggia..."), Turandot spiega il perché di tanta crudeltà. Il suo rancore verso gli uomini e il conseguente progetto di vendetta hanno radici molto antiche, da più di mille anni (ma questi, si sa, sono i tempi delle fiabe...), e non partono nemmeno da una violenza subita personalmente ma da un atto delittuoso perpetrato su un'antica antenata, la principessa Lou-Ling, da parte di un uomo, il re dei Tartari.
L'identificazione di Turandot con l'antica principessa è totale e l'odio verso lo stupratore viene agito come bisogno di vendetta, includendo tutti gli uomini con una logica di generalizzazione (un uomo è stato violento = tutti gli uomini sono violenti) tipica dei complessi molto profondi.

Se ci fermiamo solo a una lettura psicologica personale (ponendo l'oltraggio ricevuto da Lou-Ling come uno stupro subito da Turandot in un passato lontano, nell'infanzia, e collocato dallo spostamento ancora più indietro e su un'antenata in cui lei si riconosce), il comportamento di Turandot, per quanto ingiusto e odioso, è già spiegato: si tratta di un antico trauma (meglio se sessuale, secondo i canoni freudiani), una precoce e profonda ferita narcisistica, da cui parte un progetto terribile di vendetta, progetto che diventa lo scopo di tutta una vita, tanta è la frustrazione subita e la rabbia accumulata. Sappiamo che le umiliazioni e i traumi, quanto più sono antichi e profondi, tanto più attivano comportamenti patologici, e che la rabbia narcisistica è veramente distruttiva e duratura.

Ma questa è una fiaba, e pertanto è legittimo non fermarsi al solo piano personale ma cercare di andare oltre per ampliare il livello di comprensione, cosa che il materiale archetipico favolistico permette. E qui torniamo alla luna. In quanto simbolo del mondo femminile, la luna è il centro stesso della coscienza matriarcale, e Turandot – identificata con la luna – è essa stessa l'immagine sovrapersonale, quasi una dea lunare, del principio originario matriarcale che ha informato e dominato tutta l'umanità prima del sopravvento e dell'affermarsi in modo sempre più sopraffacente e violento del patriarcato, con lo spostamento della coscienza e dei suoi valori verso il maschile. Ecco allora che i "mille e mille anni" hanno già più senso, e che l'offesa all'antenata diventa una ferita ancora attuale, perché la coscienza matriarcale, violentata e spodestata migliaia di anni fa, reca tuttora una ferita sanguinante e la riconciliazione non c'è ancora stata...
Seguendo questa chiave di lettura, anche Liù acquista un nuovo significato: essa è quella parte della coscienza femminile che ha aderito al nuovo sviluppo senza sentirsi spodestata ed estraniata, ma che può – anche all'interno del patriarcato – perseguire il proprio obiettivo e cercare in esso la propria realizzazione. Certo è che spesso questa aderenza la pone al servizio dell'uomo e dei suoi bisogni: rimane una schiava. È come se, grosso modo, ci fossero state due linee di sviluppo nel femminile: una parte verginale che si oppone, cova rancore e cerca di vendicarsi del maschile in vario modo (invidia del pene, competitività, svalutazione...), e una parte che ha trovato un adattamento e un senso, soprattutto grazie al sentimento. Turandot e Liù possono quindi rappresentare due linee divergenti di sviluppo del femminile, opposte tra loro, che entreranno in conflitto in modo drammatico per far finalmente emergere una "nuova donna": la nuova Turandot.

Questa è una semplificazione adatta a questa storia, ma in realtà le cose sono più complesse e le due linee tracciate si arricchiscono di significato se teniamo presente la differenziazione della coscienza e le sue varie componenti. Già nel mondo antico greco (per rimanere nel filone della nostra cultura di appartenenza), il principio matriarcale unico rappresentato dall'archetipo della "grande madre" e dalla luna, sia negli aspetti positivi che in quelli negativi (fecondità e sterilità, vita e morte), si è progressivamente differenziato incarnandosi in varie dee, ognuna delle quali rappresenta un aspetto fondamentale (archetipico) del femminile, e ognuna con due facce opposte: positiva e negativa, chiara e scura. Troviamo così Hera a rappresentare l'aspetto "moglie"(innamorata e fedele, ma gelosa e possessiva); Demetra, la madre amorevole, ma che non lascia andare la figlia; Persefone, la figlia ingenua legata alla madre, ma dipendente; Afrodite, la grande dea della bellezza e del desiderio amoroso ("Croce e delizia"...); Artemide, la dea vergine che spinge le giovani del suo seguito sui monti, nella natura selvaggia e lontano dagli uomini (autonomia, ma ostilità verso l'uomo); Atena, dea dell'intelligenza, della saggezza e delle arti, ma anche guerriera armata di scudo e asta (protettrice di eroi, ma spietata verso chi – come Aracne – osi sfidarla); Estia, dea del focolare e sacerdotessa custode del tempio, estremamente introversa e separata anche dagli altri dei dell'Olimpo. Queste, molto in sintesi, sono le dee principali e quindi gli aspetti più importanti della psiche femminile. Va da sé che esse sono presenti in varia misura in tutte le donne, ma la prevalenza dell'una o dell'altra gioca in modo molto diverso (in proposito vedi il libro "Le dee dentro la donna" di Jean S. Bolen, ed. Astrolabio).

Jung ha ulteriormente arricchito il quadro riconoscendo nella donna un aspetto maschile che ha chiamato Animus (l'uomo dentro la donna), una controparte psichica che agisce purtroppo ancora troppo spesso attraverso l'inconscio e perciò in modo occulto e meno controllabile, e che dovrebbe completare la personalità della donna, non riducendola solo al ruolo che la tradizione patriarcale e l'aspettativa socialmente indirizzata dalla coscienza maschile si aspetta da lei, ma rendendola consapevole e responsabile delle proprie scelte. Quando però l'Animus nella donna è inflazionato o sovraesposto si possono verificare vari disturbi fino a una vera "possessione", che la rende acritica e la estranea dal nucleo più profondo della femminilità.
In Turandot possiamo riconoscere dei chiari aspetti di Atena, la dea vergine che presiede allo sviluppo del pensiero e dell'ingegno: ma mentre la dea è amica degli eroi (Ulisse, Perseo) e li aiuta nelle loro imprese, la principessa (in reazione al trauma subito) è posseduta da un Animus prevaricatorio e competitivo, che congela l'eros e indirizza il suo odio vendicativo verso gli uomini. Anche Artemide, la dea direttamente identificata con la luna, è costellata nel personaggio di Turandot e la strenua difesa della verginità riecheggia il crudele comportamento nei confronti di Atteone, che aveva osato contemplare la casta dea della natura selvaggia mentre si bagnava nuda in un fiume con le sue ninfe. E qui il discorso si allargherebbe alla nemesi che colpisce l'uomo quando con il suo incauto comportamento "profana" la natura incontaminata, argomento molto importante e di un'attualità sconvolgente, che in questa sede posso solo accennare. Chissà, forse questi spunti possono germogliare altrove...

Queste dinamiche valgono sia a livello personale (quante donne si ritrovano ad agire una parte di rabbia e di competitività distruttiva verso l'uomo, rendendo molto difficile, se non impossibile, la relazione?) sia a livello più ampio, e le ritroviamo socialmente in atto nel bisogno (a volte esasperato e di violenta ribellione) di superare i vecchi modelli patriarcali imposti al femminile, che volevano la donna sottomessa ai bisogni della famiglia, concedendo a essa approvazione solo come madre e moglie devota, o come alternativa in fondo analoga: infermiera, crocerossina e simili... (Liù, insomma).

Clicca qui per il testo di "In questa reggia".

TURANDOT
In questa reggia, or son mill'anni e mille,
un grido disperato risonò.
E quel grido, traverso stirpe e stirpe
qui nell'anima mia si rifugiò!
Principessa Lou-Ling, ava dolce e serena
che regnavi nel tuo cupo silenzio
in gioia pura, e sfidasti inflessibile e sicura
l'aspro dominio, oggi rivivi in me!

LA FOLLA
Fu quando il Re dei Tartari
le sette sue bandiere dispiegò.

TURANDOT
Pure nel tempo che ciascun ricorda,
fu sgomento e terrore e rombo d'armi.
Il regno vinto! E Lou-Ling, la mia ava,
trascinata da un uomo come te,
come te straniero, là nella notte atroce
dove si spense la sua fresca voce!

LA FOLLA
Da secoli ella dorme
nella sua tomba enorme.

TURANDOT
O Principi, che a lunghe carovane
d'ogni parte del mondo qui venite
a gettar la vostra sorte,
io vendico su voi, su voi quella purezza,
quel grido e quella morte!
Mai nessun m'avrà!
L'orror di che l'uccise vivo nel cuor mi sta!
No, no! Mai nessun m'avrà!
Ah, rinasce in me l'orgoglio di tanta purità!
Straniero! Non tentar la fortuna!
Gli enigmi sono tre, la morte è una!

CALAF
No, no! Gli enigmi sono tre,
una è la vita!

LA FOLLA
Al Principe straniero offri la prova ardita,
o Turandot! Turandot!




Maria Callas


Joan Sutherland


Birgit Nilsson


Eva Marton


Ghena Dimitrova

Angela Gheorghiu

9 novembre 2010

Turandot (9) - I padri

Scritto da Marisa

Nell'opera compaiono due padri: Timur e l'imperatore della Cina; tutti e due "nobili e vecchi". Li accomuno perché la loro funzione e il significato psicologico sono simili.
Uno, Timur, è il vecchio Re spodestato, quindi indebolito e depotenziato; l'altro, Altoum, pur essendo ancora imperatore, è impotente davanti alla figlia che gli ha carpito un giuramento folle, che lo rende complice di delitti che vorrebbe scongiurare ma non può più.
Li vediamo entrambi implorare il giovane di desistere dall'affrontar la prova. Timur fa leva inutilmente sul sentimento paterno ("Figlio, che fai? Vuoi morir cosi?... Tu passi su un povero core che sanguina invan per te..."), non esitando nemmeno a ricorrere alla vecchia arma (di solito materna) del ricatto affettivo: "mi spezzi il cuore"; l'imperatore cerca di togliersi di dosso il senso di colpa ("Fa ch'io possa morir senza portare il peso della tua giovane vita") dopo l'incauto giuramento fatto alla figlia. Entrambi non vengono ascoltati, il che conferma la loro impotenza.

Il motivo del vecchio re ormai depotenziato (per età, malattia o altro) è un classico nella fiaba e indica una precisa situazione: un vecchio principio dominante sta esaurendosi e deve cedere il posto a un nuovo ordine, a una nuova scala di valori.
Questo passaggio non è mai semplice; a volte è lungo e doloroso (una grave malattia cronica del re), a volte rapido (la morte violenta e improvvisa del re), ma comporta sempre prove difficili, rischiose per tutti, soprattutto per il nuovo che deve affermarsi ma anche per il vecchio che non vuol cedere. A volte è possibile il rinnovamento senza distruggere il vecchio (la ricerca dell'acqua miracolosa che guarisce il vecchio re), a volte il cambiamento è più radicale e il passaggio drastico (il vecchio re deve essere ucciso).
Come si vede, anche qui è costellato il tema del rinnovamento, e credo che questo passaggio sia ancora in atto: si tratta nientemeno che constatare l'esaurimento del vecchio modello patriarcale e lavorare per il suo cambiamento. Da alcuni decenni ormai la cosa è abbastanza chiara (le femministe hanno fatto molto per evidenziarlo), ma il passaggio è più difficile di quanto non si creda e le regressioni sono sempre in azione...
Ma quale sarà il nuovo modello? Ovviamente non si può prevedere il futuro, ma l'inconscio lavora già per possibili soluzioni e questa fiaba ne è un ottimo esempio.
Seguiamone perciò attentamente gli sviluppi perché credo che la soluzione che vi troveremo sia molto bella e confortante. Ma questa, si sa, è solo una fiaba e le fiabe quasi sempre prospettano un lieto fine. E se cominciassimo a leggerle più attentamente e farle agire su di noi?

Il conflitto tra passato e futuro, tradizione e rinnovamento (padri e figli) è fonte di continue tensioni anche perché spesso si adotta una mentalità dualistica (di chiara derivazione patriarcale monoteistica), secondo la quale c'è una sola verità e quindi un solo vincitore: o si difende strenuamente il passato arroccandosi su posizioni reazionarie, rifiutando i cambiamenti e rimpiangendo "il buon tempo andato", o ci si lancia altrettanto acriticamente verso un futuro immaginato meraviglioso e risolutore di ogni difficoltà. Certo, queste sono posizioni estremistiche che servono a far capire il problema radicalizzandolo, ma il problema c'è e bisognerebbe rifletterci.
Concludo con due citazioni importanti, una presa da uno scienziato occidentale, l'altra dall'ultimo grande mistico e filosofo indiano. Eric K. Kandel, premio Nobel 2000 per la medicina, scrive: "Siamo ciò che siamo in virtù di ciò che abbiamo imparato e che ricordiamo"; e Sri Aurobindo (1995): "Distruggi gli stampi del passato, ma mantieni intatte le sue conquiste e il suo spirito, altrimenti non avrai avvenire".

Clicca qui per il testo di "Un giuramento atroce mi costringe".

L'IMPERATORE
Un giuramento atroce mi costringe
a tener fede al fosco patto.
E il santo scettro ch'io stringo
gronda di sangue.
Basta sangue! Giovine, va'!

CALAF
Figlio del Cielo,
io chiedo d'affrontar la prova!

L'IMPERATORE
Fa ch'io possa morir senza portare
il peso della tua giovine vita!

CALAF
Figlio del Cielo,
io chiedo d'affrontar la prova!

L'IMPERATORE
Non voler che s'empia ancor d'orror
la Reggia, il mondo...

CALAF
Figlio del Cielo,
io chiedo d'affrontar la prova!




direttore: Zubin Mehta