3 dicembre 2010

Turandot (16) - La morte di Liù

Scritto da Marisa

Le due arie dedicate a Liù nel terzo atto ("Tanto amore segreto, e inconfessato" e "Tu che di gel sei cinta") sono memorabili e raggiungono il vertice di quel canto struggente dell'anima di cui Puccini è maestro e che ha reso immortali le sue eroine d'amore (Butterfly, Tosca, Mimì...). Sembra che Puccini sia particolarmente attratto da queste giovani donne che si lasciano morire o si sacrificano per amore, e siamo sempre molto commossi ed impressionati da tali sacrifici. Ma al di là delle somiglianze, andrebbero viste le differenze per individuare meglio le complessità psicologiche di simili eroine. Qui cerchiamo di farlo con Liù e vedremo che non è così semplice come sembra.

C'è un poeta che è particolarmente affascinato dalle eroine d'amore, soprattutto da quelle non ricambiate, facendone un modello e uno dei motivi preferiti della sua poetica: Rainer Maria Rilke. Esse sono l'esempio più puro della superiorità del sentimento libero e gratuito, il canto fine a sé stesso, l'amare senza aspettarsi di essere riamati, e ancora la vera possibilità di affinare la capacità d'amare come espressione dell'espansione dell'anima. Nella prima Elegia duinese leggiamo:

    (...) ”Ma se ti struggi così, canta le innamorate.
    Certo, non è ancora abbastanza immortale il loro sentimento famoso.
    Canta di loro, delle abbandonate, tu quasi le invidi,
    che ti parvero tanto più amanti delle placate.
    Riprendila sempre l'irraggiungibile celebrazione;
    pensa: l'eroe perdura, financo la morte per lui
    fu soltanto pretesto per essere: la sua ultima nascita.
    Ma l'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta Natura
    come se non ci fossero forze due volte, per compiere questo.
    Hai cantato abbastanza di Gaspara Stampa, che una qualche fanciulla
    cui sfugga l'amato, all'esempio esaltato di questa innamorata,
    senta: posso essere anch'io come lei?
    Tanto antichi dolori, non dovrebbero, ormai,
    diventar più fecondi per noi? Non è tempo che amando,
    ci liberiamo dall'essere amato, lo reggiamo fremendo:
    come la freccia regge la corda, tutta raccolta nel balzo,
    per superarsi? Ché non si può restare, in nessun dove.” (...)


(R. M. Rilke, Elegie duinesi, trad. Enrico e Igea De Portu, ed. Einaudi)

Questa superiorità decantata da Rilke e dai mistici non è gratuita; è possibile e auspicabile solo se, spostando la contropartita più in alto e dentro di noi, pur amando un essere umano – uomo o donna che sia – senza aspettarsi di essere riamati, si riuscisse a mantenere accesa la fiammella in modo da collegarsi a un livello più alto, tenere viva una tensione mistica che rende lo spirito vigile e aperto all'infinito. Gaspara Stampa (1523-54), presa da Rilke a modello delle sue eroine, abbandonata dal conte veneziano Collaltino di Collalto, mantenne intatto il suo sentimento e scrisse uno dei canzonieri d'amore più accorati della storia della poesia.

Certo conosciamo un canzoniere più perfetto, quello del Petrarca (a cui chiaramente si è ispirata Gaspara Stampa), anch'esso un canto d'amore irraggiungibile e impossibile, ma sembra che Rilke si commuovesse di più per la giovane donna morta a 31 anni, consumata da una febbre che non era solo quella del corpo. "L'eroine d'amore se le riprende in sé l'esausta natura...": la morte giovane, dunque, come suggello dello struggimento dell'anima.

Ma torniamo a Liù e alla sua morte. È sempre stato detto che Liù è morta per amore, per salvare il suo amato non rivelandone il nome, e nel gesto di togliersi la vita davanti a lui e a Turandot si è vista la prova suprema del suo sacrificio. Ma è solo così?
Sicuramente l'amore di Liù è grande, e nel confronto con la potente principessa, quando le viene chiesto l'origine di tanta forza, non esita a riconoscerlo: "Tanto amore segreto, e inconfessato, grande così che questi strazi son dolcezze per me, perché ne faccio dono al mio Signore...". Turandot ne rimane molto turbata perché è la prima volta che il suo odio per l'uomo incontra un sentimento altrettanto forte, ma in chiave opposta: una donna che testimonia che si può amare quello che lei considera il nemico più crudele della donna, fino a morirne. Certo, lei ha visto uomini accettare la morte per il suo amore, ma la situazione era molto diversa: i giovani principi innamorati sfidavano consapevolmente la morte, correndo un rischio che per loro aveva almeno una chance, la speranza di vittoria, mentre l'amore di Liù è ormai senza speranza e fino ad ora del tutto "segreto e inconfessato". Ma paradossalmente, finché era segreto e inconfessato, quando accompagnava il vecchio re Timur nell'esilio, una speranza c'era; e questa speranza crolla proprio nel momento in cui rivela il suo amore, perché è ormai evidente che Calaf, perdutamente innamorato di Turandot pur vedendola così crudele, non potrà mai corrispondere e accettare il suo amore. Ed è questo il vero motivo del suicidio: il crollo della speranza. Liù ha dimostrato di essere abbastanza forte da saper resistere persino alle torture, e il non rivelare il nome le è anzi "suprema delizia", perché può "tenerlo segreto e possederlo io sola!". E quindi non è vero che muore per non rivelare il nome: muore per non assistere fino in fondo alla vittoria che pur sta concorrendo a preparare.

Lo dice chiaramente alla fine della seconda struggente aria: "(...) Io chiudo stanca gli occhi perché egli vinca ancora... per non... per non vederlo più!", e questo "per non vederlo più" viene ripetuto per ben due volte. Quindi Liù muore perché non regge di vedere la realizzazione dell'amore tra Calaf e Turandot, e questo la rende molto più umana e meno eroica. La ricollega inoltre al personaggio originario dell'opera di Carlo Gozzi, dove non c'è Liù ma Adelma, una principessa che dopo la sconfitta del padre è stata asservita e ora fa parte delle ancelle di Turandot; ne conquista anzi la fiducia e la sprona, lusingandone la coerenza e la fermezza, a non cedere al Principe che ha risolto gli enigmi, perché in lui ha riconosciuto proprio il giovane rifugiato nella reggia del padre, da lei amato segretamente perché ritenuto non nobile e quindi non degno. Vedendolo ora di nuovo e sapendolo principe, è presa da tale amore e gelosia da non esitare, pur di averlo, a ordire una serie di inganni che alla fine vengono smascherati; tenta di suicidarsi davanti a Turandot e Calaf, proprio come Liù, ma viene fermata in tempo, cosa che non avviene per Liù. La sostituzione di Adelma con Liù è il cambiamento più importante che Puccini ha richiesto nell'opera di Gozzi, evidentemente per introdurre un'eroina più romantica, in sintonia col suo sentire e più vicina alle altre sue creature. Ma una parte di Adelma rimane viva nella dichiarazione finale di Liù e nella scelta di sottrarsi al fallimento della speranza.

Viene in mente un altro suicidio di un'eroina orientale, quello di Butterfly. Ma si tratta di una morte molto diversa, ed è importante rendersene conto: il gesto di Butterfly dopo l'estrema delusione, la scoperta che Pinkerton non tornerà più a lei e che il suo amore era basato su una idealizzazione, segna una presa di coscienza di come attraverso l'amore per uno straniero avesse perso la sua identità più profonda, abbandonando gli dei e la propria tradizione vitale per darsi a un'altra religione e a un altro stile di vita che non le corrispondeva intimamente. Quando realizza attraverso il tradimento di Pinkerton che il vero tradimento è il suo, verso sé stessa e la propria anima, si suicida in modo rituale, riprendendo così contatto, attraverso la morte, con i propri antenati e chiedendo perdono agli dei della sua religione. Quindi la morte dell'eroina giapponese è un vero atto di risveglio interiore e l'unico modo di ritrovare sé stessa, seguendo l'esempio del padre e della migliore tradizione spirituale dei samurai e dei maestri, in cui la morte è una scelta di fedeltà a sé stessi e ai valori dello Spirito.

La morte di Liù è invece una resa alla disperazione: vedendo l'impossibilità di distogliere Calaf da Turandot, viene meno il senso stesso della vita che aveva interamente proiettato sull'uomo amato. Viene meno la parte "dipendente", la "schiava d'amore" che, se non c'è altro, un proprio centro autonomo, segna la fine della donna stessa, di tutta la persona. Quante profonde depressioni, vere e proprie morti psichiche, si sono perpetrate in nome di un amore deluso? Ma qui, per fortuna, c'è un contraltare: il sacrificio della parte che vive solo per amore dell'uomo attiva il sentimento dell'altra parte, quella verginale e chiusa, completamente autonoma dall'uomo. E così può avvenire un'integrazione risolutiva del profondo conflitto e della scissione finora in atto. Il sacrificio di Liù non è inutile, e vedremo come l'amore di Liù risorga in Turandot: ma non più come unilaterale dedizione all'altro, bensì come apertura e resa a una forza superiore che riconcilia gli opposti.

Clicca qui per il testo di "Tu che di gel sei cinta".

LIÙ
Tu che di gel sei cinta,
da tanta fiamma vinta
l'amerai anche tu!
Prima di questa aurora,
io chiudo stanca gli occhi,
perché egli vinca ancora...
per non vederlo piu!

(Prende di sorpresa un pugnale a un soldato e si trafigge a morte. Barcolla in mezzo al terrore di tutti e va a cadere ai piedi del principe.)



Maria Callas


Renata Tebaldi


Elisabeth Schwarzkopf

Montserrat Caballé

4 commenti:

Unknown ha detto...

sono davvero contento di aver scoperto il tuo blog, grazie


Christian ha detto...

Grazie a te, torna a trovarci! ^^


Unknown ha detto...

Davvero interessanti queste analisi sull'opera. Grazie. Madia


Christian ha detto...

Grazie anche a te! Presto ricominceremo con altre opere!