28 maggio 2014

Don Giovanni - Riepilogo

Scritto da Christian

Ecco un utile elenco di tutti i post pubblicati sul "Don Giovanni" (in corsivo i post di approfondimento psicologico di Marisa):

- Introduzione
- Premessa
- Ouverture
- Il seduttore sedotto

Atto I
- Introduzione: "Notte e giorno faticar" – "Non sperar, se non m'uccidi" – "Lasciala, indegno"
- Duetto: "Fuggi, crudele, fuggi"
- Aria: "Ah, chi mi dice mai"
- Aria: "Madamina, il catalogo è questo"
- Leporello
- Coro: "Giovinette che fate all'amore"
- Aria: "Ho capito, signor sì"
- Duettino: "Là ci darem la mano"
- Zerlina, la leggerezza
- Aria: "Ah, fuggi il traditor"
- Quartetto: "Non ti fidar, o misera"
- Recitativo e aria: "Don Ottavio, son morta!" – "Or sai chi l'onore"
- Donna Anna, l'ambivalenza
- Aria: "Dalla sua pace"
- Don Ottavio
- Aria: "Fin ch'han dal vino"
- Don Giovanni e il dionisiaco
- Aria: "Batti, batti, o bel Masetto"
- Finale I/1: "Presto presto, pria ch'ei venga" – "Protegga il giusto cielo"
- Finale I/2: "Riposate, vezzose ragazze" – "Venite pure avanti" – "Trema, trema, o scellerato"

Atto II
- Duetto: "Eh via, buffone"
- Terzetto: "Ah taci, ingiusto core"
- Canzonetta: "Deh, vieni alla finestra"
- Aria: "Metà di voi qua vadano"
- Aria: "Vedrai carino"
- Masetto
- Sestetto: "Sola sola, in buio loco"
- Aria: "Ah pietà, signori miei"
- Aria: "Il mio tesoro intanto"
- Rondo e duetto: "Restate qua" – "Per queste tue manine"
- Recitativo e aria: "In quali eccessi, o Numi" – "Mi tradì quell'alma ingrata"
- Donna Elvira, la passione
- Duetto: "O statua gentilissima"
- Recitativo e rondo: "Crudele? Ah no, mio bene" – "Non mi dir, bell'idol mio"
- Finale II/1: "Già la mensa è preparata" – "L'ultima prova dell'amor mio"
- Finale II/2: "Don Giovanni, a cenar teco"
- Libertà e confronto col padre
- Finale II/3: "Ah, dov'è il perfido?" – "Questo è il fin di chi fa mal"

15 maggio 2014

Don Giovanni (42) - "Ah, dov'è il perfido?"

Scritto da Christian

Sprofondato Don Giovanni all'inferno, gli altri personaggi (guidati da un Don Ottavio che ha condotto con sé "alcuni ministri di giustizia") giungono sulla scena in irrimediabile ritardo. E spetta a un confuso e balbettante Leporello, del tutto inadeguato a fare da testimone agli eventi soprannaturali cui ha appena assistito, illustrare loro quel che è accaduto. Il suo racconto, corroborato dalla testimonianza di Donna Elvira (che poco prima aveva incontrato "l'ombra" della statua), è sufficiente a porre fine ai loro desideri di giustizia: sono stati tutti già "vendicati dal cielo". Il sestetto che conclude l'opera, con tanto di morale ("Questo è il fin di chi fa mal"), è sempre parso ad alcuni critici un po' superfluo, un'aggiunta puramente formale e una concessione alle consuetudini dell'epoca, che richiedevano per un melodramma (tragico o buffo che fosse) una "scena ultima" che tirasse le fila della vicenda e lasciasse allo spettatore un commento rassicurante (vale a dire: "non temete, il male è stato punito"). Anche il testo del libretto sembra a tratti scendere di livello rispetto alla tensione precedente: la frase "Resti dunque quel birbon / con Prosèrpina e Pluton", per esempio, pare davvero un po' buffa, quasi goffa, rispetto alle circostanze.

Come già ricordato in un precedente post, lo stesso Mozart, quando ripropose il "Don Giovanni" a Vienna l'anno successivo alla prima rappresentazione a Praga, pensò di eliminare questo sestetto e di far terminare l'opera con il culmine della scena precedente, anche se poi ebbe vari ripensamenti e alla fine decise di rimetterlo al suo posto. Il brano, in effetti, è assente nell'edizione viennese del libretto pubblicata nel 1788 (che si conclude con Don Giovanni che "si sprofonda nel momento stesso in cui escon tutti gli altri, guardano, metton un alto grido, fuggono, e cala il sipario") e per tutto il diciannovesimo secolo, soprattutto nella prassi esecutiva viennese e tedesca, era tradizionalmente omesso dagli allestimenti. Fu definitivamente reintegrato in pianta stabile solo a partire dalla metà del novecento, con la pubblicazione di una nuova edizione critica della partitura (Neue Mozart-Ausgabe). La sua presenza è comunque importante perché ci permette di conoscere il destino finale degli altri personaggi.

Dopo il racconto di Leporello, infatti, tutti tirano le fila del proprio percorso e annunciano quale sarà il loro futuro. Lo spazio maggiore, in termini di testo e di musica, è riservato alla coppia Anna/Ottavio, con il secondo che si sente chiedere dalla prima un'ulteriore attesa di un anno prima di convolare a nozze. Sembra quasi un accanimento, ora che tutto è finito, vedere frustrati ancora una volta gli "ardori" di Ottavio, che peraltro stavolta si mostra subito accondiscendente (evidentemente lo scatto di poco prima, quando aveva apostrofato la sua amata con un "Crudele!", è destinato a rimanere unico). Ma perché Donna Anna sceglie all'improvviso di prorogare il suo lutto di un altro anno? Non è peregrino pensare che stavolta il lutto non sia dovuto alla morte del padre ma proprio a quella di Don Giovanni, che nel bene o nel male era diventato per lei un punto di riferimento, e la cui mancanza si farà sentire. Lo stesso vale per Donna Elvira, la cui parabola si concluderà in un convento: scomparso l'unico centro della sua vita, il resto del mondo non ha più altro da offrirle. Non è così invece per i personaggi più schietti e "popolari", che semmai ne escono più forti: Zerlina e Masetto (ri)cominceranno la propria vita insieme, con meno ingenuità e più esperienza, mentre Leporello andrà semplicemente a cercarsi un nuovo e "miglior" padrone (contraddicendo dunque quegli arditi propositi di "fare il gentiluomo" con cui egli stesso aveva aperto l'opera). E sono proprio questi tre a intonare, a beneficio dello spettatore, "l'antichissima canzon" che reca con sé la morale della storia e che, a ben vedere, nasconde una sottile ironia da parte di Da Ponte e Mozart. La strofa "E dei perfidi la morte / alla vita è sempre ugual" suggerisce che Don Giovanni, anche nella morte, continuerà a condurre la vita che ha vissuto: una vita fatta di donne, di vino, di bagordi. Mica male!

È Don Giovanni che dona agli altri personaggi, simboli delle diverse forme dell’umano, il fuoco delle passioni, siano quelle dei sensi, dell’amore, della vendetta oppure dell’onore. Lo dimostra splendidamente la scena ultima, importantissima nell’economia del dramma: quando il protagonista è ormai sprofondato, tutti accorrono in scena a reclamare una punizione, un ultimo confronto, che è già avvenuto, e rimangono come ‘vuoti’, spogliati d’ogni energia vitale, costretti a dire pubblicamente quel che faranno da quel giorno in poi; hanno perduto la loro ragione d’esistere teatrale, e infatti il teatro si smonta nel rito astratto della morale conclusiva.
(Alberto Batisti)
Ma anche il giudizio morale che alla fine sembra inchiodare [Don Giovanni] alle sue responsabilità ("Questo è il fin di chi fa mal: / e de' perfidi la morte / alla vita è sempre ugual") lo riguarda solo in parte, rappresentando invece il punto di vista di coloro che sono stati testimoni delle sue "nere imprese" e che possono dirsi, ma a cuore non leggero, "vendicati dal cielo". E la parte che semmai lo riguarda è quella imperitura oltre la morte, che farà rinascere, se non opere simili, altri uomini con il suo carattere; insieme con la consapevolezza che anche gli altri personaggi apertamente avranno, al di là del "lieto fine", di essere esistiti soltanto come creature del "mostro", e di non poter forse più esistere senza di lui. Si spiega così come questa "scena ultima", che protrae oltre la catastrofe l'eco incancellabile della tragedia, sia necessaria all'economia globale per ragioni assai più profonde di quelle di una semplice convenzione di genere. Essa è lo specchio post mortem dell'eroismo di Don Giovanni: sopravvivere alla sua stessa punizione, così com'era vissuto senza temere punizioni. Una scelta dunque tutt'altro che convenzionale, ma anzi audace e sofisticata, degna di un grande psicologo. Se per qualche attimo Mozart pensò di sopprimere il sestetto conclusivo, lo fece soltanto perché posto fuori strada dalle attese del pubblico viennese, ritenendo, non a torto, che il finale tragico nudo e crudo avrebbe sortito un effetto più immediato e clamoroso. Ossia per ragioni esattamente opposte a quelle che la "cultura", con i suoi sottili distinguo, ha creduto per anni di sostenere in favore della sua espunzione. Infine si ricredette, e lo risistemò al suo posto.
(Sergio Sablich)
Forse i vari ripensamenti di Mozart non dipendevano solo dal testo (da un lato, la morale finale poteva in qualche modo abbassare la potenza drammatica e la statura "eroica" del protagonista, ridotto a un semplice "birbon"; dall'altro, però, il lieto fine era gradito al pubblico e sicuramente ai censori, che poco avrebbero tollerato l'assenza di un messaggio esplicito di condanna nel finale) ma anche da esigenze musicali: se la scelta di eliminare il sestetto poteva essere dettata (cito da Wikipedia) "dal voler concludere l'opera nella stessa tonalità (re minore) in cui incomincia l'ouverture, dandole così un aspetto ciclico", è anche vero che la cadenza "imperfetta" con cui si conclude la scena precedente non era certo adatta al finale di un'opera, che richiedeva invece una grande scena d'insieme.
Dal dibattito storico la questione [della presenza o meno del sestetto finale] è scivolata facilmente sul piano estetico, laddove l’indirizzo romantico vorrebbe a tutti i costi un finale tragico con la scena del Commendatore (con partigiani illustri quali Mahler e Adorno), mentre il partito filologico e neoclassico punta a salvare lo spirito settecentesco della ‘scena ultima’. Sia che si voglia espungere o conservare il sestetto, troppo spesso su entrambi i fronti si sente ripetere che comunque quella musica non reggerebbe il confronto con l’audacia sconvolgente della scena precedente, e che quindi comporta una brusca caduta di tono. Un tal giudizio postulerebbe che ogni opera debba avere il vertice d’un ideale climax espressivo proprio in coincidenza con la fine, cosa spesso falsa; niente vieta, inoltre, che l’ultraterreno turbamento provocato dal convitato di pietra sia deliberatamente compensato da Mozart con un ritorno fra gli umani e con una conclusione, almeno in apparenza, rassicurante. Certo è che in Mozart una totale prevalenza del pathos non è concepibile, e ogni uscita dai ranghi, anche la più straordinaria come avviene appunto nel Don Giovanni, deve essere ricondotta a quel superiore dominio delle passioni che è uno dei segreti dell’inalterabile fascino di questa musica. Resti dunque quel finale birbone là dov’è, vicino «a Proserpina e Pluton»: l’astrazione polifonica dell’estremo Presto, alla breve nasconde l’ironico sorriso di chi ha sconvolto per noi la fissità eterna di Cielo e Inferno.
(Alberto Batisti)

Clicca qui per il testo del brano.

DONNA ELVIRA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Ah! Dove è il perfido,
dove è l'indegno?
Tutto il mio sdegno
sfogar io vo'.

DONNA ANNA
Solo mirandolo
stretto in catene,
alle mie pene
calma darò.

LEPORELLO
Più non sperate
di ritrovarlo...
più non cercate:
lontano andò.

DONNA ANNA, DONNA ELVIRA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Cos'è? Favella!

LEPORELLO
Venne un colosso...

DONNA ANNA, DONNA ELVIRA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Via, presto, sbrìgati!

LEPORELLO
Ma se non posso...

DONNA ANNA, DONNA ELVIRA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Presto! Favella!

LEPORELLO
Tra fumo e fuoco...
badate un poco...
l'uomo di sasso...
fermate il passo!
Giusto là sotto
diede il gran botto,
giusto là il diavolo
se 'l trangugiò.

DONNA ANNA, DONNA ELVIRA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Stelle! Che sento!

LEPORELLO
Vero è l'evento.

DONNA ELVIRA
Ah, certo è l'ombra
che m'incontrò.

DONNA ANNA, ZERLINA, DON OTTAVIO E MASETTO
Ah, certo è l'ombra
che l'incontrò.

DON OTTAVIO
(a Donna Anna)
Or che tutti, o mio tesoro,
vendicati siam dal cielo,
porgi, porgi a me un ristoro:
non mi far languire ancor.

DONNA ANNA
Lascia, o caro, un anno ancora
allo sfogo del mio cor.

DON OTTAVIO
Al desio di chi m'adora
ceder deve un fido amor.

DONNA ANNA
Al desio di chi t'adora
ceder deve un fido amor.

DONNA ELVIRA
Io me n' vado in un ritiro
a finir la vita mia!

ZERLINA E MASETTO
Noi, Masetto/Zerlina, a casa andiamo,
a cenar in compagnia.

LEPORELLO
Ed io vado all'osteria
a trovar padron miglior.

ZERLINA, MASETTO E LEPORELLO
Resti dunque quel birbon
con Proserpina e Pluton.
E noi tutti, o buona gente,
ripetiam allegramente
l'antichissima canzon.

TUTTI
Questo è il fin di chi fa mal:
e de' perfidi la morte
alla vita è sempre ugual!



Ildebrando d’Arcangelo (Leporello), Adrianne Pieczonka (Donna Anna), Michael Schade (Don Ottavio),
Anna Caterina Antonacci (Donna Elvira), Angelika Kirchschlager (Zerlina), Lorenzo Ragazzo (Masetto),
dir: Riccardo Muti


Stuart Burrows, Margaret Price, Gabriel Bacquier, Sylvia Sass, Lucia Popp, Alfred Sramek,
dir: Georg Solti


Donald Gramm, Joan Sutherland, Werner Krenn,
Pilar Lorengar, Marilyn Horne, Leonardo Monreale,
dir: Richard Bonynge


René Pape (Leporello), Anna Samuil (Donna Anna), Michael Schade (Don Ottavio),
Annette Dasch (Donna Elvira), Sylvia Schwartz (Zerlina), Robert Gleadow (Masetto),
dir: Manfred Honeck

10 maggio 2014

Don Giovanni (41) - Libertà e confronto col padre

Scritto da Marisa

Si è molto parlato di Don Giovanni quale campione e paladino della libertà, facendone una specie di eroe popolare che indica attraverso la celebre frase “Viva la libertà!”, ripetuta durante la festa quasi come uno slogan, la via verso l'emancipazione dal feudalesimo ancora dominante e dal sovrapotere delle classi nobiliari ed ecclesiastiche. Indubbiamente la rappresentazione dell'opera nel 1787, con appena due anni d'anticipo dalla rivoluzione francese, e il precedente lavoro “Le nozze di Figaro”, in cui un semplice popolano, servo del Conte, osa ostacolare i piani del nobile padrone e trionfare sull'ingiusto diritto feudale, indicano che il clima stava cambiando e Mozart sapeva da quale parte stare. Che un nobile come Don Giovanni, poi, venisse punito e sprofondato all'inferno non poteva piacere alla corte viennese del tempo, e questo ha contribuito alla rapidità con cui le rappresentazioni furono sospese, nonostante il grande successo ottenuto. Sembra infatti che l'imperatore Giuseppe II ebbe a dire che: «Il Don Giovanni non è pane per i denti dei miei viennesi».

Bisogna però tenere separate le tendenze libertarie di Mozart dal comportamento anarchico e spregiudicato del suo eroe. Aprendo la sua casa a tutti e permettendo loro di divertirsi, Don Giovanni sembra andare in una direzione democratica di lungimiranza sociale e politica. Ma si tratta veramente di questo? Quale libertà realmente rivendica? E perché intendo parlarne insieme al suo rapporto col padre-Commendatore?

Indubbiamente lo vediamo muoversi con estrema libertà alla ricerca dei suoi piaceri e cercare di prenderli in ogni modo, usando anche il suo rango (“La nobiltà ha dipinta negli occhi l'onestà”) e la sua ricchezza (“Giacchè spendo i miei danari, io mi voglio divertir!”), ma è disposto a concedere anche ad altri qualcosa solo se non lo ostacolano e gli fanno da cornice e se contribuiscono a rallegrare le sue feste fornendo materia prima per le sue conquiste. Lo vediamo poi, senza alcuno scrupolo, scaricare su Leporello ogni conseguenza negativa, quando le cose si mettono male, salvo poi rabbonirlo usando il suo potere economico, ed usare verso Masetto una costrizione anche fisica, sempre in grazia del suo stato sociale di nobile, per allontanarlo e lasciarlo libero di attuare le sue mire su Zerlina.

Il problema della libertà per Don Giovanni non si pone, perché essa non è qualcosa da conquistare o un valore per cui lottare; per lui è qualcosa di ovvio ed è abituato a fare quello che gli piace senza alcuno scrupolo. La sua libertà non si ferma, come predicano i filosofi, dove inizia la libertà dell'altro, ma quella dell'altro deve finire quando intralcia la sua. Non si tratta di immoralità ma di amoralità, in quanto la categoria morale per lui semplicemente non esiste, e questo lo pone completamente al di fuori della legge del padre, come se l'istanza superegoica, che si forma proprio dal suo confronto, non si fosse formata neanche in nuce. E qui incrociamo il problema del padre e dobbiamo riconoscere in Don Giovanni un essere appartenente completamente allo stadio psicologico che precede ogni confronto-scontro e successiva riconciliazione col padre; per dirla con Freud, egli è un “bambino perverso polimorfo”, completamente dominato dallo stadio del raggiungimento del piacere, antecedente al momento edipico in cui si comincia a realizzare che c'è un adulto che sbarra l'automatismo del piacere: il padre. Egli, in breve, fa quello che vuole – ed è questa la sua libertà – perché figlio prediletto della madre che concede tutti i capricci, senza dover mai rendere conto al padre.

In questa situazione di totale assenza di un padre normativo, è naturale che compaia, come antagonista, una figura paterna altrettanto estrema e rigida come il Commendatore, un rappresentante inflessibile e punitivo di cui Don Giovanni in realtà farebbe proprio a meno: nell'incipit dell'opera non vuole lo scontro e continuerebbe la sua fuga, se non fosse fermato e costretto al duello. Anche nella scena del cimitero, non solo non ha alcun rimorso per il delitto commesso, ma risponde al grave fenomeno dell'animazione della statua, che fa tremare Leporello, con la spavalda superficialità del bambino abituato a burlarsi di tutto perché non fa differenza tra i vari piani della realtà. Nell'ultimo e fatale incontro poi, invitato a pentirsi, lo sentiamo pronunciare la famosa frase “A torto di viltate tacciato mai sarò”. Questa può sembrare una dichiarazione di grande coraggio e di coerenza eroica, ma, a ben guardare, è la semplice riconferma della sua caparbietà e l'impossibilità di accedere a qualsiasi cambiamento che preveda il riconoscimento dei propri errori. Lo abbiamo visto per tutta l'opera uccidere, spergiurare, mentire, mettere a rischio la vita di Leporello per cavarsi d'impaccio... ed ora sembra che, pur di non fare la figura del vigliacco, non possa arretrare di fronte alla morte.
In realtà egli non ha ancora capito di che tipo di invito si tratti, quando offre la mano alla terribile statua ed afferma “Ho fermo il core in petto: non ho timor, verrò”, perché alla morsa ormai inesorabile lo sentiamo invece gridare di meraviglia e terrore: “Da qual tremore insolito sento assalir gli spiriti! Donde escono que' vortici di foco pien d'orror?...”, come se avesse fino alla fine pensato ad uno scherzo e realizzata la terribile realtà solo quando essa lo ha già afferrato.

Questo è del tutto in linea col modello archetipico che lo possiede. Sia Eros che Dioniso infatti non hanno niente a che fare con la morale e sono ambedue legati al dominio della “Grande Madre” orgiastica, ampliandone lo stragrande potere. In particolare Eros diffonde il desiderio erotico-sessuale in tutti gli esseri, non lasciando immune dai suoi strali impertinenti nemmeno il Padre Zeus, mentre Dioniso, che partecipa direttamente ai misteri Eleusini di Demetra e Core incentrati sulla “grande Madre”, guida il carro sfrenato delle Menadi insieme ad Arianna che è anch'essa una versione ringiovanita della grande dea mediterranea.

Michel Cazenave e Roland Auguet, due psicanalisti junghiani, hanno dedicato un saggio ai cosiddetti “imperatori folli” (Caligola, Nerone, Commodo, Eliogabalo, ma passando da Alessandro, con la sua pretesa di essere figlio del dio Ammone, e Cesare, diretto discendente di Venere...), rintracciando il comune sfondo archetipico del loro comportamento nell'influenza e nella fascinazione della cultura delle grandi dee madri dell'oriente, in cui la sacralità è fortemente intrecciata con la sessualità. Il potere imperiale, anziché aumentare il senso di responsabilità verso lo stato e il popolo, responsabilità di stampo paterno, ha accelerato l'onnipotenza irresponsabile di chi, sentendosi il “figlio divino” e quindi dio egli stesso, può permettersi tutto saltando ogni controllo e limite. L'amore per il lusso, le feste, gli spettacoli teatrali e circensi sono il corollario inevitabile, attirando prima l'adorazione populistica dei sudditi e, subito dopo, la rivolta cruenta guidata da rappresentanti del senato, la classe “paterna”, umiliata e oltraggiata. A suo modo Don Giovanni ripete lo stesso schema – anche se in tono minore, perché il suo potere non è quello degli imperatori romani e la musica di Mozart ce lo rende oltremodo piacevole – e, come loro, cade vittima della punizione che il principio paterno offeso e umiliato reclama.

Strettamente legata al quadro archetipico della costellazione della Grande Madre è la coloritura sessuale di Don Giovanni, che, nonostante la sua grande attività, si può collocare paradossalmente nell'ambito dell'impotenza, per lo meno in quell'aspetto della difficoltà ad avere un rapporto duraturo e incapacità di amare, un “mordi e fuggi” che concretamente può esprimersi nell'eiaculazione precoce e che accomuna, nell'impossibilità di fermarsi con una donna, tutti i figli che rimangono in balia del fascino dell'Eterno Femminino che solo nella Dea ha il suo fondamento.

5 maggio 2014

Don Giovanni (40) - "Don Giovanni, a cenar teco"

Scritto da Christian

La statua funebre del Commendatore si è presentata a casa di Don Giovanni, lasciandolo finalmente stupito ("Non l'avrei giammai creduto") ma comunque deciso a onorare il proprio invito, tanto che il libertino ordina al tremante Leporello (rifugiatosi sotto il tavolo) di portare subito "un'altra cena". Il convitato di pietra, però, spiega che "non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste", e che ora è il proprio turno di ricambiare l'invito, offrendo a Don Giovanni di cenare da lui, ossia all'inferno. Siamo al momento del giudizio finale, anche se il protagonista tarda a prenderne consapevolezza. Se Leporello tenta – goffamente e comicamente, come suo solito – di salvare il padrone ("Oibò, tempo non ha, scusate"), quello stesso padrone di cui ha sempre detto peste e corna, Don Giovanni invece non si tira indietro: "Ho fermo il core il petto / Non ho timor, verrò". Una stretta di mano suggella l'impegno: ma prima di trascinarlo all'altro mondo, il Commendatore lo invita a pentirsi di tutte le sue malefatte. E la ferrea risposta "No!" di Don Giovanni, persino di fronte alla morte, mentre un coro di demoni (coro "invisibile", recita il libretto, anche se ciò non toglie che diversi allestimenti lo mostrino invece sulla scena) lo fa sprofondare sottoterra fra fuoco e fiamme, rivela tutta la natura assoluta e immutabile del personaggio.

Questo rifiuto di pentirsi, la scelta di percorrere la propria strada fino in fondo, è il motivo che ha contribuito a trasformare Don Giovanni, nei secoli a venire, in un vero e proprio eroe dell'illuminismo e del libero pensiero, un alfiere della "libertà" che si batte contro la rigida morale e le convenzioni dell'epoca. Un fraintendimento, certo, come abbiamo visto nei post precedenti (e come ci dirà Marisa nel prossimo intervento): Don Giovanni è semmai un simbolo, un archetipo, e come tale è inimmaginabile (per non dire impossibile) che nel finale scegliesse di rinnegare la propria natura (ciò non toglie che siano state realizzate versioni della storia in cui, invece, il personaggio si redime e viene addirittura perdonato: una su tutte, la commedia "Don Juan Tenorio" di José Zorrilla, del 1844). Con l'espressione "No, vecchio infatuato!", in particolare, sembra quasi farsi beffe del Commendatore, come a rifiutarne l'autorità di messaggero dall'aldilà e ad abbassarlo al livello di un vecchio bigotto, un semplice rappresentante di quella società i cui valori morali sono visti e percepiti come inaccettabili restrizioni.

Come nella precedente scena del cimitero, la voce profonda e solenne del Commendatore è accompagnata da tromboni che le donano una coloratura soprannaturale, una sorta di "sigillo sonoro dell'aldilà". La musica invece è quella già udita nell'ouverture, con i suoi accordi, le sue scale e il suo ritmo che evoca un mondo metafisico, e un'orchestrazione colma di accenti inquietanti (cui non sono estranee dissonanze quasi dodecafoniche) che si ripresenta qui come a chiudere un cerchio. Dalla fine si torna all'inizio, il tempo si è fermato o ha perso il suo significato, e il commento che segue lo sottolinea bene:

Testo e musica sono eloquenti su questo punto. La parola chiave è scandita come in una liturgia: "Parlo, ascolta, più tempo non ho" (il Commendatore); "Tempo non ha, scusate" (Leporello); "Ah tempo più non v'è" (il Commendatore). L'arresto del tempo equivale alla condanna di Don Giovanni. Non solo. L'arrivo della statua del Commendatore [...] blocca definitivamente il tempo ("Ferma un po"') e segna, musicalmente, la disgregazione del linguaggio tonale, ossia del linguaggio del presente di Don Giovanni, in una ruvida catena di accordi dissonanti sorretta da un ritmo inesorabile, martellante di marcia: la celebre sequenza di scrittura espressionista sulle parole "Non si pasce di cibo mortale / chi si pasce di cibo celeste", nella quale si è soliti ravvisare il primo esempio di serie dodecafonica della storia, sottrae a Don Giovanni ogni possibilità sia di opposizione sia di fuga e lo inchioda alle sue colpe. Egli tuttavia in un moto d'orgoglio risponde ("A torto di viltate / tacciato mai sarò") e risolve: "Ho fermo il core in petto: / non ho timor, verrò!". Sembra quasi che Don Giovanni, in quel turbinio di pensieri e di sentimenti che lo assalgono in quel momento, vacilli e se ne vergogni, ma non sia disposto ad ammettere neppure in punto di morte la propria scelleratezza. Scellerato, vile con le donne? A Leporello, che una volta gli aveva fatto notare i suoi presunti inganni (atto II, scena I), egli aveva replicato, senza ironia: "È tutto amore. Chi a una sola è fedele, verso l'altre è crudele; e io che in me sento sì esteso sentimento vo' bene a tutte quante". Ma quelli in fondo erano affari suoi, se non della sua coscienza. Vile per imposizione o per paura, però, giammai, men che mai nella decisione suprema.
(Sergio Sablich)
Nella riedizione viennese del 1788, pare che l'opera terminasse proprio con questa scena, con il protagonista che sprofonda all'inferno, e che Mozart avesse provato ad eliminare (salvo reintrodurlo in seguito) il sestetto finale con i restanti personaggi che recitano la "morale" della storia. Lo illustra, in un eccesso di verosimiglianza storica, persino il bel film "Amadeus" di Miloš Forman (nel quale, fra l'altro, Salieri vede nel personaggio del Commendatore l'ingombrante figura del padre dello stesso Mozart). Si tratta dunque di un finale tragico per quella che, in fondo, era una "opera buffa". Certo, è il finale dell'antica leggenda popolare di Don Juan; ma quella che in origine era solo una parabola educativa viene trasformata da Mozart e Da Ponte in un "grande scontro fra la dimensione morale ("Pèntiti, cangia vita") e quella del rifiuto, della ribellione pervicace" (Franco Bergamasco). Da notare che, nelle prime rappresentazioni, i ruoli di Masetto e il Commendatore erano intepretati dallo stesso cantante, e dunque il coro finale dei demoni (dopo l'uscita del Commendatore) dava tempo al basso di cambiarsi di costume per rientrare come Masetto giusto in tempo per il sestetto finale (quando questo era eseguito).


scena dal film "Amadeus" (1984)

Solo nella scena finale Don Giovanni assurge potentemente, quasi suo malgrado, a un rango quasi eroico [...]. Pur irrigidendosi un poco all'evento imperscrutabile dell'arrivo della statua del Commendatore, si dispone immediatamente a far fronte all'inattesa situazione ("Leporello! Un'altra cena / fa' che subito si porti") ed è oltremodo sorpreso che non di questo si tratti. Ma anche qui: il suo diniego a pentirsi non è dettato dalla saldezza ideologica di un intellettuale libertino ma dall'ostinazione di colui che non vuol piegarsi e cedere, per orgoglio e superbia. La durezza dello scontro, con quei "No!", "Sì!" ossessivamente rimbalzati, è estrema, ma Don Giovanni non fa in tempo a rendersi conto che le fiamme dell'inferno lo stanno inghiottendo: semplicemente sprofonda con un "Ah!" che suona prima di tutto di meraviglia. Per questo Don Giovanni non è un eroe dell'ideale, né uno spirito libero, bensì un emblema. La frenesia che lo pervade – il demonismo dei sensi, o per citare Kierkegaard la "genialità erotico-sensuale" che è tutt'uno con la musica, e con la musica di Mozart in particolare – non gli consente di vedere le cose del mondo con altra ottica, né di interessarsi a misure spirituali.
(Sergio Sablich)

Clicca qui per il testo del brano.

COMMENDATORE
Don Giovanni! a cenar teco
m'invitasti, e son venuto.

DON GIOVANNI
Non l'avrei giammai creduto,
ma farò quel che potrò.
(a Leporello)
Leporello, un'altra cena
fa' che subito si porti!

LEPORELLO
(mezzo fuori col capo dalla mensa)
Ah, padron!... Siam tutti morti!

DON GIOVANNI
Vanne, dico...
(Leporello, con molti atti di paura, va per partire)

COMMENDATORE
Ferma un po'!
Non si pasce di cibo mortale
chi si pasce di cibo celeste.
Altre cure più gravi di queste,
altra brama quaggiù mi guidò!

LEPORELLO
La terzana d'avere mi sembra,
e le membra fermar più non so.

DON GIOVANNI
Parla, dunque: che chiedi? che vuoi?

COMMENDATORE
Parlo, ascolta: più tempo non ho.

DON GIOVANNI
Parla, parla: ascoltando ti sto.

COMMENDATORE
Tu m'invitasti a cena:
il tuo dover or sai.
Rispondimi: verrai
tu a cenar meco?

LEPORELLO
(al Commendatore)
Oibò!
Tempo non ha... scusate.

DON GIOVANNI
A torto di viltate
tacciato mai sarò!

COMMENDATORE
Risolvi!

DON GIOVANNI
Ho già risolto!

COMMENDATORE
Verrai?

LEPORELLO
(a Don Giovanni)
Dite di no!

DON GIOVANNI
Ho fermo il core in petto,
non ho timor: verrò!

COMMENDATORE
Dammi la mano in pegno.

DON GIOVANNI
Eccola.
Ohimè!

COMMENDATORE
Cos'hai?

DON GIOVANNI
Che gelo è questo mai?

COMMENDATORE
Pèntiti, cangia vita:
è l'ultimo momento.

DON GIOVANNI
No, no, ch'io non mi pento:
vanne lontan da me!

COMMENDATORE
Pèntiti scellerato!

DON GIOVANNI
No, vecchio infatuato!

COMMENDATORE
Pèntiti!

DON GIOVANNI
No!

COMMENDATORE
Sì!

DON GIOVANNI
No!

COMMENDATORE
Ah! tempo più non v'è!
(fuoco da diverse parti, tremuoto, etc. Il Commendatore sparisce)

DON GIOVANNI
Da qual tremore insolito...
sento assalir gli spiriti...
Donde escono quei vortici
di fuoco pien d'orror?...

CORO
Tutto a tue colpe è poco.
Vieni: c'è un mal peggior!

DON GIOVANNI
Chi l'anima mi lacera!...
Chi m'agita le viscere!...
Che strazio! ohimè! che smania!
Che inferno!... che terror!...

LEPORELLO
Che ceffo disperato!...
Che gesti da dannato!...
Che gridi! che lamenti!...
Come mi fa terror!...

(il fuoco cresce. Don Giovanni si sprofonda)

DON GIOVANNI E LEPORELLO
Ah!



Kurt Moll (Commendatore), Samuel Ramey (Don Giovanni), Ferruccio Furlanetto (Leporello),
dir: James Levine (1990)


Franz-Josef Selig (Commendatore), Carlos Álvarez (Don Giovanni), Ildebrando D'Arcangelo (Leporello),
dir: Riccardo Muti (1999)


Sergej Kopchak (Commendatore), Thomas Allen (Don Giovanni), Claudio Desderi (Leporello),
dir: Riccardo Muti (1987)


Dezsö Ernster (Commendatore), Cesare Siepi (Don Giovanni), Otto Edelmann (Leporello),
dir: Wilhelm Furtwängler (1954)


John Macurdy (Commendatore), Rodney Gilfry (Ruggero Raimondi), José van Dam (Leporello),
dir: Lorin Maazel (1979)


Una scena dal film "Il falò delle vanità” (1990)