27 febbraio 2012

L'Orfeo (6) - Orfeo ed Euridice

Scritto da Marisa

Eccoci al centro della storia e del dramma che tutti conosciamo. Virgilio e Ovidio hanno cantato diffusamente come, subito dopo le nozze, l'amata Euridice muoia in seguito al morso di una vipera e come, “dopo averla pianta abbastanza alla luce del sole” (Ovidio), Orfeo osi andare con la sua lira fin dentro il regno degli inferi e, dopo aver commosso sia Caronte che il feroce Cerbero, alla presenza di Ade e Persefone canti così appassionatamente facendo leva sui ricordi d'amore della coppia divina, da ottenere l'eccezionale grazia di poter riportare in vita Euridice a patto di non voltarsi fino all'uscita dalla soglia degli inferi, cosa che invece accade ed Orfeo perde così per sempre l'amata.

Da questa storia molto scarna sono scaturiti innumerevoli commenti, riflessioni e interpretazioni, oltre che ammonimenti più o meno moralistici (tipo aneddoti alla La Fontaine) sull'impazienza, l'impulsività o la mancanza di controllo che un amore appassionato può provocare. Ma di questo parleremo più avanti, perché quello che ci si può vedere è molto diverso, ma bisogna arrivarci addentrandosi meglio nel mito e leggendolo più attentamente.

Cominciamo con l'innamoramento di Orfeo. Trattandosi di un mito, e quindi di una traccia esemplare e fondamentale dell'animo umano, non possiamo cavarcela semplicemente prendendo la cosa come un dato di fatto e la banale considerazione che da giovani ci si innamora facilmente. Almeno chiediamoci “quando” ci si innamora e di “chi”. Che l'amore sia cieco è uno slogan che ci piace ripetere per non farci troppe domande, ma in realtà Eros, dio o demone (come preferiva chiamarlo Socrate), sa benissimo dove indirizzare le sue frecce. I ciechi siamo noi che, colpiti dalla passione, non abbiamo nessun interesse a cercare di guardare da dove nasce e dove ci vuol condurre un simile sconvolgimento. Per fortuna, o per disgrazia non si sa (croce e delizia!), il potere di Eros è grande se persino gli dei gli sono soggetti.

Nella sua opera più celebre, il “Symposium”, Platone, prima di cedere la parola a Socrate, ci presenta attraverso Aristofane uno strano ma interessantissimo mito sulle origini dell'amore, secondo cui originariamente gli uomini erano rotondi come delle palle perché costituiti da coppie strettamente avvinte e unite attraverso la parte frontale, con due teste, quattro arti superiori e quattro inferiori. C'erano tre combinazioni: maschio-maschio, maschio-femmina (ermafrodito) e femmina-femmina. Essendo sempre in coppia, erano praticamente autosufficienti ed erano diventati così indifferenti agli dei e arroganti per cui gli dei decisero di separarli tagliando il rotundum a metà e allontanando le due parti così divise. Da allora ogni metà soffre di nostalgia e cerca disperatamente il partner (l'anima gemella!) a cui ricongiungersi per ristabilire la beatitudine perduta. L'uomo tagliato in due diventa quindi “simbolo” (σύμβολον) che acquista il suo vero valore e senso solo quando si ricongiunge con la metà mancante e ritrova così l'unità con sé stesso.

Oltre a mettere sullo stesso piano l'amore etero e quello omosessuale, questa leggenda rende giustizia al grande anelito e bisogno dell'altro che si impossessa degli innamorati fino a desiderare di fondersi realmente in un'anima sola. Socrate completerà il discorso sull'amore riconoscendo Eros come figlio di Penia (la povertà) e di Poros (l'espediente) e stabilendo quindi che la motivazione principale che spinge all'innamoramento è la mancanza di qualcosa di fondamentale che l'espediente dell'amore cerca di colmare attribuendo o riconoscendo all'amato/a quelle qualità che più ammiriamo e vagheggiamo.

Non so quanto Jung sia stato influenzato da Platone, ma una qualche risonanza c'è nella sua teoria dell'ermafroditismo psicologico e nella scoperta dell'Anima nell'uomo, intendendo per “Anima” una parte femminile interiore, una funzione psichica che lo guida verso la relazione sia entro sé stesso (all'esplorazione dell'inconscio) che fuori. Per Jung l'innamoramento si basa proprio sulla propria parte animica proiettata sulla donna. Va da sé che per la donna è la stessa cosa, solo che la controparte maschile proiettata sull'uomo è chiamata “Animus”.

Tornando ad Orfeo, all'inizio dell'opera lo vediamo innamorato felice di Euridice, ma in una delle arie più melodiose (“Vissi già mesto e dolente...”) Monteverdi ci parla di un tempo in cui Orfeo era senza Euridice e la sua ricerca d'amore non ancora esaudita. La mancanza che Orfeo sente e testimonia con i suoi canti riempie tanta poesia, musica e opere d'arte (il poeta infelice e innamorato è quasi uno stereotipo), essendo sostanzialmente il canto dell'anima esiliata da sé stessa, la nostalgia di un sentimento di pienezza e beatitudine, posto in età mitica (il paradiso terrestre) e ricercato attraverso l'amore.

Se il “quando” diventa così più chiaro (si è più disposti a innamorarsi quando la mancanza e la nostalgia della pienezza è maggiormente costellata), resta da capire di “chi” ci si innamora, cosa ancora più difficile perché il gioco delle proiezioni è molto complicato e illusorio.

Orfeo si innamora di Euridice, e qui la traccia viene dal nome stesso perché Euridice significa “colei che giudica in un vasto territorio”: era un nome che spettava solo alla regina degli inferi. Così il destino di Orfeo (il luminoso cantore che però ha già nel nome tracce di oscurità) è da subito indissolubilmente legato al regno dei morti. Ma c'è un altro nome che a volte sostituisce quello di Euridice, ed è – secondo Apollonio Rodio – Agriope, che significa “dal volto selvaggio”, attributo di Selene, la parte oscura della Luna; sotto questo nome i discepoli di Orfeo riconoscevano la madre di Museo, il figlio attribuito ad Orfeo e suo successore nel portare avanti le opere delle Muse. Anche sotto questo nome la sposa di Orfeo è portatrice di quell'aspetto complementare (il femminile lunare e sotterraneo) che manca alla coscienza maschile, troppo orientata e centrata sull'aspetto solare e apollineo. Il nome Agriope a volte è sostituito con Argiope, “dal volto luminoso”, e così i contrari si riuniscono in un gioco di specchi.

Possiamo dunque dire che Orfeo è irresistibilmente attratto dalla controparte femminile che rappresenta la sua anima lunare, profondamente legata alla morte, a cui deve ricongiungersi; e l'innamoramento capta in Euridice la donna giusta per realizzare il proprio destino. Orfeo unito ad Euridice realizza quel momento di estasi in cui la proiezione coincide con la sua immagine esteriore.

Nella mitologia induista le coppie perfette sono tante (Krishna e Rukmini o Radha, Shiva e Parvati, Vishnu e Lakshmi, Rama e Sita, Brama e Sarasvati, ecc...) perché ogni divinità maschile ha strettamente legata a sé un femminile che è la propria parte attiva, la manifestazione della propria potenza, la propria anima per dirla con Jung, che si manifesta anche all'esterno come donna reale e che acquista così autonomia per permettere l'azione nel mondo, vero canale tra l'attività mentale e la realizzazione.

Il momento della felicità sulla terra è breve, lo sappiamo, e quella di Orfeo dura pochissimo perché vediamo molto presto (nell'opera di Monteverdi avviene nel giorno stesso delle nozze) Euridice morire, morsa al piede da un serpente, forse una vipera. E qui ci sarebbe molto da dire sia sulla brevità della felicità, sia sul tipo di morte: il morso del serpente, una delle morti maggiormente simboliche, essendo il serpente una delle raffigurazioni più evidenti del passaggio da uno stato all'altro per la sua facoltà di cambiamento e di trasformazione attraverso la muta; passaggio in tutte e due i sensi, sia dalla vita alla morte che rinnovamento e rinascita. “Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere?”, recita Euripide riproducendo un verso orfico.

Mi limito ad affidare a Rilke il tema della caducità, che vede nei “Sonetti ad Orfeo” e nelle “Elegie Duinesi” la sua espressione più perfetta, e ne trascrivo solo qualche verso per rendere palpabile il clima dell'inesorabile cambiamento che incombe su ogni momento felice, anche in amore, quando gli amanti si aspettano invece (giurandoselo a vicenda) tutt'altro:

“... E l’abbraccio, per voi, è una promessa
quasi d’eternità. Eppure, dopo lo sgomento
dei primi sguardi, e lo struggersi alla finestra
e la prima passeggiata fianco a fianco,
una volta per il giardino,
amanti, siete amanti ancora? ...”


(seconda elegia, vv. 59-63)

25 febbraio 2012

L'Orfeo (5) - Atto II

Scritto da Christian


Secondo atto (direttore: René Jacobs – Orfeo: Simon Keenlyside)


Terminato il rito delle nozze, Orfeo ricompare per unirsi alla gioia dei pastori e delle ninfe ("Ecco pur ch'a voi ritorno / care selve e piagge amate") mentre i festeggiamenti proseguono sempre più vivaci, con una serie di danze per le quali Monteverdi si è ispirato a balli francesi dell'epoca. I pastori invocano le divinità e le bellezze della natura ("Mira, ch'a sé ne alletta", "In questo prato adorno"), prima che il cantore si rivolga con le sue strofe direttamente ai boschi e ai campi dove, prima di incontrare la sua sposa, si aggirava "mesto e dolente" ("Vi ricorda, o boschi ombrosi?").

A metà dell'atto, però, ecco irrompere la tragedia. Una messaggera (che uno dei pastori identifica con "Silvia gentile, dolcissima compagna della bella Euridice") porta la notizia dell'improvviso decesso della sposa di Orfeo, morsa da un serpente velenoso mentre raccoglieva fiori. Il doloroso tema "Ahi, caso acerbo / ahi, fato empio e crudele" (ripreso più volte nel prosieguo dell'atto, dapprima da un singolo pastore e poi dall'intero coro) cambia di colpi i toni dell'opera. La messaggera narra il tragico avvenimento ("In un fiorito prato") e Orfeo lamenta il proprio destino ("Tu se' morta, mia vita, ed io respiro?"), prendendo all'istante la decisione di recarsi nel mondo degli inferi per tentare di intenerire "il cor del re del'ombre" e di riportare con sé la sua amata ("o, se ciò negherammi empio destino, / rimarrò teco in compagnia di morte"). Mentre la messaggera si rammarica per essere stata portatrice di una così triste notizia ("Ma io, che in questa lingua / ho portato il coltello"), i pastori vanno a piangere sulle spoglie di Euridice ("Chi ne consola, ahi lassi?").

Clicca qui per il testo del secondo atto.

ORFEO
Ecco pur ch'a voi ritorno,
care selve e piaggie amate,
da quel sol fatte beate
per cui sol mie notti han giorno.

Ritornello

PASTORE II
Mira, ch'a sé n'alletta
l'ombra, Orfeo, di que' faggi,
or che infocati raggi
Febo dal ciel saetta.

Ritornello

Su quell'erbose sponde
posiamci, e in vari modi
ciascun sua voce snodi
al mormorio de l'onde.

Ritornello

PASTORI II E III
In questo prato adorno
ogni selvaggio nume
sovente hà per costume
di far lieto soggiorno.

Ritornello

Qui Pan, dio dei pastori,
s'udì talor dolente
rimembrar dolcemente
suoi sventurati amori.

Ritornello

Qui le Napee vezzose,
schiera sempre fiorita,
con le candide dita
fur viste à coglier rose.

CORO DI NINFE E PASTORI
Dunque fa' degni, Orfeo,
del suon della tua lira
questi campi ove spira
aura d'odor sabeo.

Ritornello

ORFEO
Vi ricorda, o boschi ombrosi,
de' miei lunghi aspri tormenti,
quando i sassi ai miei lamenti
rispondean fatti pietosi?

Ritornello

Dite, allor non vi sembrai
più d'ogni altro sconsolato?
or fortuna hà stil cangiato
ed ha volto in festa i guai.

Ritornello

Vissi già mesto e dolente:
or gioisco e quegli affanni
che sofferti ho per tant'anni
fan più caro il ben presente.

Ritornello

Sol per te, bella Euridice,
benedico il mio tormento:
dopo il duol si è più contento,
dopo il mal si è più felice.

PASTORE II
Mira, deh mira, Orfeo, che d'ogni intorno
ride il bosco e ride il prato.
Segui pur col plettro aurato
d'addolcir l'aria in sì beato giorno.

MESSAGGERA
Ahi, caso acerbo!
Ahi, fato empio e crudele!
Ahi, stelle ingiuriose!
Ahi, ciel avaro!

PASTORE II
Qual suon dolente
il lieto dì perturba ?

MESSAGGERA
Lassa, dunque, debb'io,
Mentre Orfeo con sue note il ciel consola,
con parole mie passargli il cuore ?

PASTORE I
Questa è Silvia gentile,
dolcissima compagna de la bella Euridice;
oh, quanto è in vista dolorosa.
Or che fia? Deh, sommi dei,
non torcete da noi benigno il guardo.

MESSAGGERA
Pastor, lasciate il canto,
ch'ogni nostra allegrezza in doglia è volta.

ORFEO
Donde vieni? Ove vai? Ninfa, che porti?

MESSAGGERA
A te vengo, Orfeo, messaggera infelice
di caso più infelice e più funesto.
La bella Euridice...

ORFEO
Ohimé, che odo?

MESSAGGERA
La tua diletta sposa è morta.

ORFEO
Ohimé!

MESSAGGERA
In un fiorito prato
con altre sue compagne,
giva cogliendo fiori
per farne una ghirlanda a le sue chiome,
quando angue insidioso,
ch'era fra l'erbe ascoso,
le punse un piè con velenoso dente.
Ed ecco immantinente,
scolorirsi il bel viso e ne' suoi lumi
sparir que' lampi, ond'ella al sol fea scorno.
Allor noi tutte,
sbigottite e meste,
le fummo intorno richiamar tentando
gli spirti in lei smarriti
con l'onda fresca e con possenti carmi.
Ma nulla valse, ahi lassa,
ch' ella i languidi lumi alquanto aprendo,
e te chiamando, Orfeo,
dopo un grave sospiro,
spirò frà queste braccia; ed io rimasi
pieno il cor di pietade e di spavento.

PASTORE II
Ahi, caso acerbo!
Ahi, fato empio e crudele!
Ahi, stelle ingiuriose!
Ahi, ciel avaro!

PASTORE III
A l'amara novella
rassembra l' infelice un muto sasso
che per troppo dolor non può dolersi.
Ahi, ben avrebbe un cor di tigre o d'orsa
chi non sentisse del tuo mal pietate,
privo d'ogni tuo ben, misero amante.

ORFEO
Tu se' morta, mia vita, ed io respiro?
Tu se' da me partita
per mai più non tornare, ed io rimango?
No, che se i versi alcuna cosa ponno,
n'andrò sicuro a' più profondi abissi,
e, intenerito il cor del re de l'ombre,
meco trarròtti a riveder le stelle;
o se ciò negherammi empio destino,
rimarrò teco in compagnia di morte,
Addio terra, addio cielo, e sole addio.

CORO DI NINFE E PASTORI
Ahi, caso acerbo!
Ahi, fato empio e crudele!
Ahi, stelle ingiuriose!
Ahi, ciel avaro!
Non si fidi uom mortale
di ben caduco e frale
che tosto fugge, e spesso
a gran salita il precipizio è presso.

MESSAGGERA
Ma io, che in questa lingua
ho portato il coltello
ch'ha svenata ad Orfeo l'anima amante,
odiosa ai Pastori e alle Ninfe,
odiosa a me stessa, ove m'ascondo?
Nottola infausta,
il sole fuggirò sempre
e in solitario speco
menerò vita al mio dolor conforme.

Sinfonia

PASTORI II E III
Chi ne consola, ahi lassi?
O pur, chi ne concede
negli occhi un vivo fonte,
da poter lagrimar come conviensi
in questo mesto giorno,
quanto più lieto tant'or più mesto?
Oggi turbo crudele
i due lumi maggiori
di queste nostre selve,
Euridice e Orfeo,
l'una punta da l'angue,
l'altro dal duol trafitto,
ahi lassi, ha spenti.

CORO DI NINFE E PASTORI
Ahi, caso acerbo!
Ahi, fato empio e crudele, ...

PASTORI II E III
Ma dove, ah, dove or sono
de la misera ninfa
le belle e fredde membra,
che per suo degno albergo
quella bell'alma elesse,
ch'oggi è partita in sul fiorir dei giorni?
Andiam pastori, andiamo
pietosi a ritrovarle,
e di lagrime amare
il dovuto tributo
per noi si paghi almeno al corpo esangue.

CORO DI NINFE E PASTORI
Ahi, caso acerbo!
Ahi, fato empio e crudele, ...

Ritornello


direttore: Jordi Savall – Orfeo: Furio Zanasi



direttore: Nikolaus Harnoncourt – Orfeo: Philippe Huttenlocher



"In questo prato adorno", "Vi ricorda, o boschi ombrosi" (Vittorio Prato)


"Vi ricorda, o boschi ombrosi"
(Kobie Van Rensburg)


"Ahi, caso acerbo"
(Sara Mingardo)


"Ahi, caso acerbo", "Tu se' morta, mia vita"
(Eva Zaïcik, Marc Mauillon)


"Tu se' morta, mia vita" (Rolando Villazon)


"Chi ne consola, ahi lassi?"
(dir: Trisdee na Patalung)

23 febbraio 2012

L'Orfeo (4) - Atto I

Scritto da Christian


Primo atto (direttore: René Jacobs – Orfeo: Simon Keenlyside)


L'intero primo atto (così come la prima metà del secondo) è occupato dai festeggiamenti dei pastori e delle ninfe per l'imminente matrimonio fra Orfeo ed Euridice: di fatto, è una successione ininterrotta di cori di giubilo, di canti e di danze. L'apertura – subito dopo la toccata e il prologo dedicato alla Musica – è affidata a un'aria con da capo di un pastore ("In questo lieto e fortunato giorno") che invita i suoi compagni a rallegrarsi insieme a lui per le nozze di Orfeo. Due cori (il solenne "Vieni Imeneo" e il più gioviale "Lasciate i monti") vengono intonati – e poi ripetuti in ordine inverso – prima e dopo la sezione centrale dell'atto, in cui lo stesso Orfeo canta il proprio amore per Euridice, in quella che è quasi una sorta di preghiera agli astri ("Rosa del ciel", una delle arie più famose dell'opera). Dopo una breve risposta di Euridice ("Io non dirò qual sia / nel tuo gioir, Orfeo, la gioia mia"), i due sposi escono di scena per recarsi al tempio. I pastori proseguono i loro idillio con un ringraziamento al cielo ("Ma se il nostro gioir dal ciel deriva"), completo di triplice ritornello, che precede il coro che conclude l'atto ("Ecco Orfeo").

Una nota sugli allestimenti che vi propongo attraverso i filmati: in apertura di ciascuno dei post dedicati ai cinque atti ho scelto di pubblicare i video della versione diretta da René Jacobs con le coreografie "moderne" di Trisha Brown. Subito sotto troverete invece le clip delle versioni di Jordi Savall (messa in scena al Gran Teatre del Liceu di Barcellona, con scenografie e costumi più tradizionali) e di Nikolaus Harnoncourt (con la regia di Jean-Pierre Ponnelle e un allestimento ricco di riferimenti rinascimentali all'epoca di Monteverdi e dei Gonzaga). Oltre a queste tre versioni complete, inserirò alcuni filmati di singoli brani e arie tratte da altre produzioni o incisioni.

Clicca qui per il testo del primo atto.

PASTORE II
In questo lieto e fortunato giorno
ch'ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
in sì soavi accenti
che sian degni d'Orfeo nostri concenti.

Oggi fatta è pietosa
l'alma già sì sdegnosa
de la bella Euridice;
oggi fatto è felice
Orfeo nel sen di lei, per cui già tanto
per queste selve ha sospirato, e pianto.

Dunque in sì lieto e fortunato giorno
ch'ha posto fine a gli amorosi affanni
del nostro semideo, cantiam, pastori,
in sì soavi accenti
che sian degni d'Orfeo nostri concenti.

CORO DI NINFE E PASTORI
Vieni, Imeneo, deh vieni,
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch'apporti a questi amanti i dì sereni
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol gli orrori e l'ombre.

NINFA
Muse, onor di Parnasso, amor del cielo
gentil conforto a sconsolato core,
vostre cetre sonore
squarcino d'ogni nube il fosco velo;
e mentre oggi propizio al nostro Orfeo
invochiam Imeneo
su ben temprate corde,
sia il vostro canto al nostro suon concorde.

CORO DI NINFE E PASTORI
Lasciate i monti, lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati a i balli usati
vago il bel piè rendete.
Qui miri il sole vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond'a la luna la notte bruna
danzan in ciel le stelle.

Ritornello

Lasciate i monti, lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati a i balli usati
vago il bel piè rendete.
Poi di bei fiori per voi s'onori
di questi amanti il crine,
c'or dei martiri dei lor desiri
godon beati al fine.

Ritornello

PASTORE I
Ma tu, gentil cantor, s'a' tuoi lamenti
già festi lagrimar queste campagne,
perch'or al suon de la famosa cetra
non fai teco gioir le valli e i poggi?
Sia testimon del core
qualche lieta canzon che detti Amore.

ORFEO
Rosa del ciel, vita del mondo,
e degna prole di lui che l'universo affrena,
Sol, che 'l tutto circondi e 'l tutto miri,
da gli stellanti giri, dimmi:
vedesti mai di me più lieto e fortunato amante?
Fu ben felice il giorno, mio ben, che pria ti vidi,
e più felice l'ora che per te sospirai,
poiché al mio sospirar tu sospirasti;
felicissimo il punto che la candida mano,
pegno di pura fede, a me porgesti.
Se tanti cori avessi quant'occhi ha il cielo eterno
e quante chiome han questi colli ameni il verde maggio,
tutti colmi sarieno e traboccanti
di quel piacere ch'oggi mi fa contento.

EURIDICE
Io non dirò qual sia
nel tuo gioir, Orfeo, la gioia mia,
ché non ho meco il core,
ma teco stassi in compagnia d'Amore;
chiedilo dunque a lui s'intender brami
quanto lieta gioisca e quanto t'ami.

CORO DI NINFE E PASTORI
Lasciate i monti, lasciate i fonti,
ninfe vezzose e liete,
e in questi prati a i balli usati
vago il bel piè rendete.
Qui miri il sole vostre carole
più vaghe assai di quelle
ond'a la luna la notte bruna
danzan in ciel le stelle.

Ritornello

CORO DI NINFE E PASTORI
Vieni, Imeneo, deh vieni,
e la tua face ardente
sia quasi un sol nascente
ch'apporti a questi amanti i dì sereni
e lunge omai disgombre
de gli affanni e del duol gli orrori e l'ombre.

PASTORE II
Ma s'il nostro gioir dal ciel deriva,
com'è dal ciel ciò che quaggiù s'incontra,
giusto è ben che divoti
gli offriam incensi e voti.
Dunque al tempio ciascun rivolga i passi
a pregar lui ne la cui destra è il mondo,
che lungamente il nostro ben conservi.

Ritornello

PASTORI II E III
Alcun non sia che disperato in preda
si doni al duol, benché talor n'assaglia
possente sì che la nostra vita inforsa.

Ritornello

NINFA, PASTORI I E IV
Che poi, ché nembo rio, gravido il seno
d'atra tempesta inorridito ha il mondo,
dispiega il sol più chiaro i rai lucenti.

Ritornello

PASTORI II E III
E dopo l'aspro gel del verno ignudo
veste di fior la primavera i campi.

CORO DI NINFE E PASTORI
Ecco Orfeo, cui pur dianzi
furon cibo i sospir, bevanda il pianto.
Oggi felice è tanto
che nulla è più che da bramar gli avanzi.


Imeneo (o Imene) era, sempre nella mitologia greca, il protettore dei matrimoni: in alcune versioni è considerato il figlio di Dioniso, in altre di Apollo.


direttore: Jordi Savall – Orfeo: Furio Zanasi



direttore: Nikolaus Harnoncourt – Orfeo: Philippe Huttenlocher



"Lasciate i monti" (dir: John Eliot Gardiner)


"Rosa del ciel" (Mirko Guadagnini)


"Rosa del ciel" (Vittorio Prato)

"Rosa del ciel" (Tito Gobbi)

21 febbraio 2012

L'Orfeo (3) - Toccata e prologo

Scritto da Christian


Trudeliese Schmidt (direttore: Nikolaus Harnoncourt)


L'opera di Monteverdi è divisa in un prologo e cinque "atti", che però sono più assimilabili a dei quadri che non ad atti veri e propri come verranno intesi nell'opera moderna. Già all'epoca della prima rappresentazione lo spettacolo era eseguito tutto di fila, senza intervalli (i cambi di scena avvenivano a sipario aperto, e peraltro sono solo due: i primi due atti e il quinto sono ambientati nelle campagne della Tracia, il terzo e il quarto nel regno degli inferi). Anche dal punto di vista musicale ci troviamo di fronte a un flusso continuo in cui le arie, i cori, i recitativi e i ritornelli musicali si succedono senza pause l'uno dopo l'altro.

Dopo una breve toccata suonata con le trombe (una specie di fanfara, che serviva sia come saluto alla corte che per richiamare l'attenzione degli spettatori sullo spettacolo che stava per cominciare), l'opera si apre con un prologo, un brano allegorico in cui la Musica impersonificata si rivolge agli spettatori, elogiando il potere della propria arte e introducendo i temi dell'opera, chiedendo infine al pubblico di fare silenzio. Si tratta di un preambolo che ricorda le introduzioni dei poemi e dei componimenti epici in cui l'autore invocava le muse, presentava al lettore gli argomenti che avrebbe trattato o ringraziava il signore di cui era al servizio. Le diverse stanze (in tutto cinque, di quattro versi ciascuna) sono separate l'una dall'altra da un gentile ritornello che viene ripetuto ogni volta con una strumentazione diversa e che si udirà anche successivamente (per esempio, all'inizio dell'ultimo atto): simboleggia infatti la "forza della musica", uno dei temi cardini dell'opera.

Clicca qui per il testo del brano.

LA MUSICA
Dal mio Permesso amato a voi ne vegno,
incliti eroi, sangue gentil de' regi,
di cui narra la fama eccelsi pregi,
né giunge al ver, perch'è tropp'alto il segno.

Io la Musica son, ch'ai dolci accenti
so far tranquillo ogni turbato core,
ed or di nobil ira ed or d'amore
poss'infiammar le più gelate menti.

Io su cetera d'or cantando soglio
mortal orecchio lusingar talora,
e in questa guisa a l'armonia sonora
de la lira del ciel più l'alme invoglio.

Quinci a dirvi d'Orfeo desio mi sprona,
d'Orfeo che trasse al suo cantar le fere
e servo fe' l'Inferno a' sue preghiere,
gloria immortal di Pindo e d'Elicona.

Or mentre i canti alterno, or lieti or mesti,
non si mova augellin fra queste piante,
né s'oda in queste rive onda sonante,
ed ogni auretta in suo cammin s'arresti.

Alcune note sul testo: negli oltre quattrocento anni trascorsi dalla pubblicazione della partitura sono stati tramandati alcuni errori di trascrizione che ancora oggi si possono udire nelle varie rappresentazioni e incisioni. Il più famigerato riguarda proprio il primissimo verso cantato dell'opera: "Dal mio Permesso amato" (il Permesso, che scende dal monte Elicona, era un fiume sacro alle Muse) che diventa talora "Dal mio Parnasso amato" (più noto con la grafia Parnaso, il Parnasso era il monte dove risiedeva Apollo), forse per eccessivo scrupolo nel correggere quello che sembrava un errore (il fiume Permesso è certamente meno noto del monte Parnaso!).



Montserrat Figueras (direttore: Jordi Savall)



Juanita Lascarro (direttore: René Jacobs)



Efrat Ben-Nun (dir: René Jacobs)


Lynne Dawson (dir: John Eliot Gardiner)


Cecilia Gasdia (dir: René Jacobs)

Natalie Dessay (dir: Emmanuelle Haim)

18 febbraio 2012

L'Orfeo (2) - Il potere della musica

Scritto da Marisa

Mi sembra particolarmente significativo il fatto che la nascita del melodramma coincida con la riproposizione del mito di Orfeo, un fatto forse del tutto casuale ma simbolicamente pregnante, perché è come ripartire dalle origini riallacciandosi alla fonte originaria di ogni canto. Avvicinarsi ad Orfeo è infatti come entrare nel tempio stesso dell'arte, nelle intime fibre che la rendono possibile e nelle premesse che sono all'origine dell'anelito dello spirito umano verso il bello e la trascendenza.

La mitologia è, secondo Joseph Campbell, “letteratura dello spirito”, e i miti sono “le tracce che ci guidano verso le potenzialità spirituali della vita umana”. Campbell continua così il discorso di Jung che ha posto le basi del mito nelle strutture archetipiche dell'inconscio collettivo, grande fiume sotterraneo che collega tutta l'umanità. La possibilità di dare ordine e struttura a quei semi istintuali di conoscenza originaria sepolti nell'intimo stesso della materia organica, di per sé irraggiungibile e che sottende la psiche, si organizza nelle immagini e nelle cangianti storie dei miti, che compaiono e si sviluppano in modo diverso nelle varie culture, ma che partono dalla stessa radice. I miti esprimono così i “sogni” primordiali dell'umanità e possono essere avvicinati e trattati come si fa con i sogni, senza pretendere di esaurirli con una comprensione solo razionale che ne impoverirebbe e limiterebbe il significato, ma ampliandone continuamente i rimandi.

Orfeo, il divino cantore, occupa un posto privilegiato nella mitologia perché è la premessa e il modello archetipico di ogni possibilità di espressione artistica e di conoscenza misterica: l'origine di tutti i canti (Omero, Esiodo, Pindaro, Dante, Mozart, Rilke...) e la prefigurazione del mediatore dell'armonia tra cielo e terra, persino di Cristo. Il “regno di Dio” sulla Terra, con il leone vicino all'agnello (la sospensione cioè di ogni conflitto e la pacificazione nell'ascolto della parola divina, che la figura del Cristo incarna), è anticipato dall'immagine di Orfeo che col suo canto calma e attira a sé tutti gli animali, facendoli convivere nello stesso spazio di ascolto. Anche la fine di Orfeo, lo smembramento a opera delle Menadi scatenate, è paragonabile con il sacrificio della crocifissione, voluta dalla rabbia aizzata del popolo; ma di questo parleremo più avanti, alla fine dell'opera.

Ora, per non smarrirci nel labirinto del mito e dei suoi numerosi rimandi, procediamo con ordine.

Oltre che nei frammenti degli Inni orfici, molto danneggiati, dove compare nella sua forma più esoterica e misteriosa, Orfeo ci viene presentato in età classica da Virgilio e Ovidio. Kerényi include il mito di Orfeo nel "Libro degli eroi"; ma, come in un gioco di scatole cinesi, ogni livello rimanda ad altri precedenti e i tempi si perdono nell'oscurità delle origini in cui gli dèi della Grecia non erano ancora così luminosi e ben definiti. Il nome stesso di Orfeo ha a che fare con il buio perché deriva da orphne, l'oscurità, e oscuro era il vestito che indossava per fare sacrifici ad Ecate per conto degli Argonauti, durante la famosa spedizione alla ricerca del vello d'oro che deve a lui e alla sua lira molto del suo successo.
Forse di origine tracia, Orfeo era figlio di Eagro, il cacciatore solitario (ma alcuni attribuiscono la paternità ad Apollo stesso) e della musa Calliope (quella del bel canto, il canto epico). Addestrato alla musica da Apollo, che gli regalò la sua lira (quella stessa lira che il dio dell'armonia e della luce aveva ricevuto in dono da Ermes, a riparazione del torto subito con il furto dei buoi), Orfeo comincia a vagare e ad esercitare il suo fascino non solo sugli uomini ma su tutta la natura: gli animali lo seguono incantati, sospendendo la loro ferocia e le loro lotte, e persino gli alberi e i sassi si muovono per ascoltarlo...

Gli inizi di Orfeo sono quindi sotto la totale protezione di Apollo, e lui stesso viene raffigurato non dissimile dal luminoso dio solare, il signore del distacco e dell'ispirazione profetica. Viene così evidenziato il suo aspetto "apollineo"; ma Dioniso è in agguato e presto costringerà Orfeo a diventare suo sacerdote, dividendoselo con il luminoso fratello, perché è proprio con la lira di Apollo che Orfeo canta i misteri dionisiaci. Lo strumento e la forma sono apollinei, ma i contenuti sono dionisiaci (le passioni e le emozioni legate alla vita e alla morte). Solo il canto rasserena e permette di prendere distanza dal fondo oscuro e turbolento delle emozioni che montano invadendo la coscienza e sopraffacendola. Incanalandole entro la forma del canto, anche le passioni più feroci si ingentiliscono e possono essere espresse senza agire immediatamente in modo distruttivo.

Fermiamoci un poco su questa prima fase del mito, quella in cui Orfeo compare come incarnazione del potere della musica, perché non si tratta di semplice piacere dell'ascolto ma di un vero potere, qualcosa che “agisce” e che trasforma. In Orfeo la musica non compare da sola ma insieme al canto: parole e musica non sono ancora dissociati, le corde della lira e le corde vocali vibrano all'unisono e suscitano risonanza in tutto il creato. In oriente solo Krishna, che è un avatar di Vishnu e quindi manifestazione del divino, ha questo potere, e con il suo flauto incanta tutti (non soltanto le gopi, le pastorelle che si innamorano di lui) e compie prodigi. Nel “Flauto magico” di Mozart vediamo che Tamino riesce a passare indenne attraverso i pericoli dell'iniziazione solo grazie al potere della musica emessa dallo strumento donatogli dalla Regina della Notte; anche qui l'origine della musica che incanta è divina e il suo scopo è quello di operare un passaggio da un livello terreno a un altro più elevato e spirituale. Questi canti sono mantra? Sicuramente sì, se per mantra intendiamo canti che con la loro vibrazione entrano in risonanza con le energie più profonde della vita e che trasformano la mente di chi li ascolta, calmandola ed elevandola oltre la caducità e le forze selvagge dell'istinto solo naturale.



Il poeta che nella sua evoluzione si è addentrato di più nella comprensione di Orfeo e ne ha fatto il proprio centro poetico-spirituale è sicuramente Rainer Maria Rilke. E non possiamo non seguirlo, se vogliamo andare oltre le prime apparenze del mito. Già nel 1904 pubblica una lirica intitolata "Orfeo. Euridice. Ermes"; ma è nei “Sonetti a Orfeo” del 1922 che si precisa e si compie tutto il percorso che lo consacra per sempre sacerdote e adepto del dio del canto, di colui che “addestra l'orecchio alle creature”. Davanti alla sua scrivania Rilke teneva un'immagine di Orfeo tratta da un disegno di Cima da Conegliano e regalatagli nel novembre 1920 da Baladine Klossowska, l'ultima sua amante; e possiamo facilmente immaginare come abbia contribuito a catalizzare “l'innominato turbine” che lo travolse gioiosamente e gli permise di regalarci nel giro di due settimane le Elegie complete (iniziate da più di dieci anni e soffertamente interrotte) e in sovrappiù i Sonetti (“che non erano nel mio disegno”), arrivati come una tempesta direttamente dall'ispirazione, come una possessione divina.

orfeo cima da conegliano


Leggiamo il primo sonetto, importante perché introduce subito Orfeo e ne coglie già il nucleo trasformativo:
Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare!
Orfeo canta! Grandezza dell'albero in ascolto!
E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere
avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamento.

Animali di silenzio irruppero dal chiaro
bosco liberato, da tane e nascondigli
e si capì ch'essi non per astuzia
o per terrore in sé eran sì sommessi,

ma per l'ascolto. Ruglio, grido, bramito
parve piccolo nel loro cuore. E dove quasi
non v'era che una capanna al suo ricetto,

un anfratto dalle più scure brame ordito,
con un adito dagli stipiti sconnessi, –
tu creasti per loro un tempio nell'udito.

Non posso qui soffermarmi sulle tante suggestioni presenti, ma voglio mettere in risalto solo due aspetti fondamentali: il silenzio ("E tutto tacque"!), che rende possibile l'ascolto e che prepara la possibilità del cambiamento, e l'addestramento del selvaggio dentro di noi (gli animali) verso una forma più elevata di esperienza. La musica può nascere solo dal silenzio, vive nel silenzio e torna nel silenzio, come ogni autentica esperienza meditativa. Piano vegetativo (l'albero in ascolto) e piano animale si esaltano attraverso l'ascolto e ci si apre al sacro: il "tempio nell'udito". La natura in cui è immerso il canto è ovviamente la natura dentro di noi, a ricordarci che tutto in noi è natura ed è su questa che dobbiamo continuamente operare e agire: la nostra evoluzione è contemporaneamente biologica, psichica e spirituale, altrimenti sarebbe parziale e mutilata.

L'armonia che aleggia intorno ad Orfeo è più di un vagheggiamento nostalgico di un Eden perduto: è una reale possibilità di placare i conflitti attraverso l'ascolto profondo di ogni parte di noi e di ogni senso, un momento di sospensione magica che l'arte trasforma in canto. Si tratta quindi di un progetto molto difficile e impegnativo, in cui l'artista (chi fa della propria vita un'opera d'arte) diventa il mistico maestro che aiuta l'uomo a educare i propri istinti senza rimuoverli, anzi chiamandoli direttamente alla presenza della coscienza e usando un linguaggio così dolce e persuasivo da ottenerne l'assoluto ascolto. Ma questo è un modello archetipico, la tendenza all'assoluto che è dentro di noi ma mai raggiungibile (Orfeo rimane una figura divina, e la sua lira sarà riportata in cielo e posta tra le costellazioni), una specie di freccia luminosa che indica la via. Ed è su questa via (il 'tao' degli orientali), non importa se il traguardo si sposta sempre più in là, che lo spirito umano si è incamminato dietro la lira di Orfeo.

15 febbraio 2012

L'Orfeo (1) - Introduzione

Scritto da Christian

L'Orfeo, favola in musica L'Orfeo
Opera in cinque atti
Libretto di Alessandro Striggio
Musica di Claudio Monteverdi
Prima rappresentazione:
Mantova (Palazzo Ducale), 24 febbraio 1607

Personaggi e voci:

La musica (soprano)
Orfeo (tenore)
Euridice (soprano)
Messaggera (soprano)
Speranza (soprano)
Caronte (basso)
Proserpina (soprano)
Plutone (basso)
Apollo (tenore)
Eco (tenore)
Pastori
Ninfe
Spiriti infernali

Pur non trattandosi – strettamente parlando – della prima opera lirica della storia (molti studiosi attribuiscono questo primato alla "Dafne" di Jacopo Peri, eseguita per la prima volta a Firenze nel 1598), "L'Orfeo" di Claudio Monteverdi è sicuramente però il primo capolavoro del genere, nonché il più antico melodramma a essere tuttora rappresentato con regolarità nei teatri di tutto il mondo. Il soggetto, ovviamente, è quello del mito (o "favola", com'era definita allora) di Orfeo ed Euridice, di cui parleremo più in dettaglio nei prossimi post: da notare che i temi pastorali e quelli mitologici legati alla Grecia antica erano particolarmente frequentati nell'arte e negli spettacoli – musicali e non – presso le corti dell'epoca, una tendenza che può essere fatta risalire all'Arcadia di Jacopo Sannazaro (1480); ma la storia di Orfeo aveva anche un significato ulteriore e programmatico, trattandosi al contempo di un elogio del potere della musica, e come tale era il soggetto preferito da poeti e musicisti.

Ai tempi in cui Monteverdi compose "L'Orfeo", l'arte di mescolare insieme musica e teatro, ossia canto e recitazione, era ancora agli albori. Nei cosiddetti drammi lirici, la musica compariva solo in parte, e in ogni caso si limitava ad accompagnare le parole rimanendo sullo sfondo e fornendo semplicemente una "base armonica". Durante il Rinascimento, specialmente a Firenze, si era però gradualmente sviluppata l'arte dell'intermezzo (o intermedio): una performance completamente musicale, collocata fra un atto e l'altro di una normale rappresentazione teatrale di cui non faceva necessariamente parte. Queste "proto-opere", che combinavano danza e madrigali, divennero sempre più elaborate e complesse, fino a trasformarsi in drammi musicali autonomi e completi che venivano eseguiti in occasione di eventi particolari, come matrimoni o feste di corte.

Nato a Cremona nel 1567, Claudio Monteverdi aveva studiato canto, musica e composizione nella sua città natale, per poi trasferirsi a Mantova come suonatore di viola alla corte del duca Vincenzo Gonzaga. Questi aveva una vera e propria passione per l'arte e per la musica (una tradizione di famiglia), e volle portare anche nella propria città quel nuovo tipo di spettacolo che gli artisti fiorentini stavano sviluppando. Dopo che il duca assistette a Firenze, in occasione del matrimonio di Maria de' Medici e del re Enrico IV di Francia (6 ottobre 1600), a una rappresentazione della "Euridice" di Peri, il principe ereditario Francesco Gonzaga chiese ai suoi musicisti di realizzare un'opera su temi simili. Monteverdi, che nel frattempo era diventato il mastro della musica di corte, ebbe il compito di comporre la partitura, mentre il libretto venne commissionato ad Alessandro Striggio.

Diplomatico presso la corte dei Gonzaga e figlio a sua volta di un noto compositore, Striggio si ispirò per il suo testo a diverse fonti: innanzitutto a quelle dell'antichità, in particolare le "Metamorfosi" di Ovidio e le "Georgiche" di Virgilio; poi al dramma lirico "La fabula di Orfeo" del 1480 di Angelo Poliziano; al dramma pastorale "Il pastor fido" di Giovan Battista Guerini (di cui proprio Monteverdi aveva curato un allestimento a Mantova nel 1598); e infine alla già citata opera "Euridice" di Jacopo Peri, al cui libretto – di Ottavio Rinuccini – è in parte debitore. Il testo di Rinuccini, essendo stato scritto in occasione dei festeggiamenti di un matrimonio, terminava però con un lieto fine (Orfeo riusciva a ricondurre con sé Euridice dal regno dei morti!), mentre Striggio poté permettersi una maggiore fedeltà al mito originale.

Dopo la prima rappresentazione in occasione del Carnevale del 1607 di fronte a un pubblico ristretto (composto da nobili e dai membri dell'Accademia degli Invaghiti, la società musicale fondata a Mantova sotto il patrocinio dei Gonzaga), rappresentazione che suscitò un entusiasmo tale da spingere il duca a chiederne quasi immediatamente una replica nei giorni successivi, l'opera venne allestita negli anni seguenti anche in altre città italiane. Monteverdi ne pubblicò lo spartito a Venezia nel 1609, con il finale modificato, cui seguì una ristampa nel 1615. Dopo la morte del compositore nel 1643, però, l'opera venne presto dimenticata. Fu riscoperta alla fine del diciannovesimo secolo, in pieno revival del barocco, e da allora è rientrata stabilmente nel repertorio dei grandi teatri lirici (anche se solo nel tardo ventesimo secolo si è cominciato a prestare la necessaria attenzione filologica al testo e all'uso di strumenti d'epoca, molti dei quali sono naturalmente diversi da quelli che fanno parte della tradizionale orchestra classica).

Proprio l'orchestrazione è assai particolare, visto che a una meticolosa lista degli strumenti necessari (all'inizio dello spartito Monteverdi ne elenca ben 33, ai quali ne vanno aggiunti altri 8 – come le trombe della toccata – il cui utilizzo è occasionale: un numero non proprio indifferente per l'epoca!) non corrisponde poi una specifica indicazione di come e quali adoperare in ciascuna scena: i vari gruppi di strumenti sono semplicemente citati in base alla loro "funzione drammatica" e associati alle diverse sequenze a seconda dei personaggi sul palco (gli archi e i flauti per accompagnare i pastori, gli ottoni e le trombe di legno per gli spiriti degli inferi, ecc.), anche per permettere alle orchestre delle varie corti di "adattare" senza fatica la partitura agli strumenti a propria disposizione (di fatto l'opera si può allestire senza problemi anche con un organico assai più ristretto di quello indicato dall'autore). Molto spazio viene inoltre lasciato – com'era consuetudine allora – ad "abbellimenti" e aggiunte secondo l'improvvisazione dei musicisti (che spesso erano a loro volta compositori) e l'estro degli stessi cantanti. Dal punto di vista musicale, voci e strumenti si intrecciano fra loro in maniera armonica e "concertante", creando un equilibrio perfetto che non aveva assolutamente precedenti. Monteverdi fonde insieme vecchie e nuove "forme" (arie, recitativi e canzoni a strofe si alternano a ritornelli strumentali, cori e danze) e le utilizza in funzione dell'azione teatrale con una ricchezza di stili che si rispecchia nei continui cambi di tono da un atto all'altro. Senza limitarsi ad "accompagnare" semplicemente il testo con la musica, ne sfrutta l'effetto drammatico per trasmettere emozioni e passioni. Ricorre ampiamente anche alla polifonia (l'intersezione di più voci melodiche): pur rifacendosi allo stile dei madrigali fiorentini, di fatto la sua opera segna il passaggio decisivo dal Rinascimento al Barocco.

Le parti vocali da solista sono numerose, ma con l'eccezione del cantante che veste i panni di Orfeo – l'unico sempre presente in ogni atto – gli altri interpreti di solito si alternano in più ruoli (per esempio, la Musica del prologo può essere anche Euridice nel resto dell'opera, la Messaggera è la Speranza, la Ninfa è anche Proserpina, i pastori sono anche gli spiriti). I principali ruoli femminili erano originariamente interpretati da castrati (la parte di Euridice, nella prima rappresentazione, sarebbe stata eseguita addirittura da un prete, padre Girolamo Bacchini): oggi naturalmente le parti sono interpretate da donne, anche se talvolta si ricorre a controtenori. Notevole lo spazio dedicato ai cori, numerosissimi nel corso dell'opera e spesso caratterizzati da una funzione drammaturgica che va oltre il semplice commento (si pensi agli inni festosi delle ninfe e dei pastori nei primi due atti).


Alcune delle incisioni più celebri:



Link utili:

Articolo su Wikipedia in inglese
Articolo su Wikipedia in italiano
Articolo di John Eliot Gardiner
Articolo di Giovanni Vitali
Libretto completo
Partitura (ristampa del 1615) [pdf]

14 febbraio 2012

Da cime rosa a monti verdi

Scritto da Christian

Cari amici,
a causa di alcuni impegni pressanti, per circa un mese Daniele non potrà proseguire con la sua trattazione de "Il matrimonio segreto" di Cimarosa. Nell'attesa che riprenda, per darvi qualcosa da leggere e non lasciare il blog abbandonato troppo a lungo, io e Marisa pubblicheremo una serie di post su "L'Orfeo" di Claudio Monteverdi... Buona lettura! ^^