Fatta uscire Annina dalla stanza, Violetta rimane sola e legge (o forse rilegge, come chissà quante volte ha già fatto) una missiva che custodiva in seno. In essa Giorgio Germont le chiede perdono per le sue azioni, e la informa di aver svelato egli stesso il suo sacrificio ad Alfredo, che nel frattempo è stato costretto a fuggire all'estero dopo aver ferito il Barone a duello. Germont le promette che sia lui che il figlio verranno presto a farle visita: ma il tempo passa, e Violetta, che sente la fine avvicinarsi, comincia a perdere ogni speranza di poter rivedere il suo amato. Nasce qui uno dei momenti più toccanti e dolorosi dell'intera opera, con una romanza che è al tempo stesso uno struggente grido di nostalgia per il passato e un'invocazione a una fine precoce. Da sottolineare che è anche l'unico momento, in tutto il dramma, che viene pronunciata la parola "traviata": a usarla, per ironia della sorte, è proprio Violetta per definire sé stessa.
Il brano è diviso in due parti: dapprima un recitativo in cui Violetta legge ad alta voce la lettera di Germont ("Teneste la promessa...") – la convenzione operistica vuole che le lettere vengano recitate senza cantare – e poi, introdotta da un oboe, l'aria vera e propria, di cui talvolta viene eseguita soltanto la prima parte, tralasciando quella che comincia con "Le gioie, i dolori tra poco avran fine". Le prime parole del brano, "Addio del passato", hanno dato il titolo a romanzi (di Valeria Mazzarelli, 2006 ma scritto negli anni settanta) e film (di Marco Bellocchio, 2000, mediometraggio dedicato proprio alla "Traviata" e ambientato a Busseto e nei luoghi verdiani).
VIOLETTA (trae dal seno una lettera) "Teneste la promessa... La disfida ebbe luogo. Il barone fu ferito, però migliora... Alfredo è in stranio suolo; il vostro sacrifizio io stesso gli ho svelato. Egli a voi tornerà pel suo perdono; io pur verrò. Curatevi... Meritate un avvenir migliore. Giorgio Germont". (desolata) È tardi! (si alza) Attendo, attendo, né a me giungon mai!... (si guarda allo specchio) Oh, come son mutata! Ma il dottore a sperar pure m'esorta! Ah, con tal morbo ogni speranza è morta.
Addio, del passato bei sogni ridenti, le rose del volto già sono pallenti; l'amore d'Alfredo pur esso mi manca, conforto, sostegno dell'anima stanca. Ah, della traviata sorridi al desio; a lei, deh, perdona; tu accoglila, o Dio. Or tutto finì. Le gioie, i dolori tra poco avran fine, la tomba ai mortali di tutto è confine! Non lagrima o fiore avrà la mia fossa, non croce col nome che copra quest'ossa! Ah, della traviata sorridi al desio; A lei, deh, perdona; tu accoglila, o Dio. Or tutto finì!
Anna Netrebko
Maria Callas
Renata Tebaldi
Renata Scotto
Anna Moffo
Ancora qualche parola, in conclusione, sulla lettura della lettera di Germont padre da parte di Violetta. Come fa notare Marco Beghelli in un saggio, "Letture operistiche", pubblicato nel fascicolo che presentava la rappresentazione de "La traviata" al teatro La Fenice di Venezia nella stagione 2004/2005, "sopra un tappeto melodico evocatore, reminiscenza del primo incontro con Alfredo ("Di quell'amor ch'è palpito") [...] la voce si riduce improvvisamente alla dimensione parlata. Per qual mai sortilegio non è ben chiaro, in un contesto di finzione teatrale come quello dell'opera italiana, in cui tutto si può dire e fare cantando in versi, la retorica operistica sentiva evidentemente il bisogno di differenziare il proferimento di parole lette, abbassandone il livello linguistico rispetto al contesto musicale in cui si trovava inserito: all'interno di un recitativo secco, la lettura retrocede pertanto quasi sempre al grado di un'enunciazione parlata, con parole che abbandonano ben spesso la versificazione metrica per affidarsi eccezionalmente alla prosa, mentre in un contesto musicalmente ricco la lettura cantata s'abbassa almeno all'intonazione recitativa su nota più o meno fissa, se non alla totale perdita della dimensione canora".
Ambientato interamente nella camera da letto dove Violetta giace malata, a Parigi, il terzo e ultimo atto dell'opera si svolge circa un mese dopo la conclusione del precedente e si apre con un intermezzo musicale che riprende le atmosfere e gli accordi del preludio del primo atto, venandoli però di ancora maggiore tristezza (non c'è più traccia degli accenni al ballo e alle feste che si potevano udire in apertura dell'opera, né del tema passionale di "Amami, Alfredo"). La vita di Violetta è prossima alla fine, la sua malattia l'ha ormai consumata, e la lontananza di Alfredo (che, come apprenderemo, è dovuto fuggire all'estero dopo aver ferito – ma non ucciso – il Barone in duello) ha fatto il resto. Il senso di morte imminente, che già aleggiava sulla protagonista sin dal principio (ricordiamo i mancamenti che già la affliggevano nel primo atto, subito dopo il brindisi), è ormai impossibile da scacciare.
La musica che apre il terzo atto è dunque triste, dolorosa e piena di rimpianti. Il libretto descrive così l'ambiente nel quale si svolge l'ultima parte dell'opera: "Camera da letto di Violetta. Nel fondo è un letto con cortine mezze tirate; una finestra chiusa da imposte interne; presso il letto uno sgabello su cui una bottiglia di acqua, una tazza di cristallo, diverse medicine. A metà della scena una toilette, vicino un canapé; più distante un altro mobile, sui cui arde un lume da notte; varie sedie ed altri mobili. La porta è a sinistra; di fronte v'è un caminetto con fuoco acceso. Violetta dorme sul letto. Annina, seduta presso il caminetto, è pure addormentata". È l'alba del giorno di Carnevale: i primi raggi di sole entrano dalle finestre, dalle quali si udranno più tardi i canti e un baccanale ("Largo al quadrupede") della gente che festeggia il Bue Grasso per le strade della città. A fare visita a Violetta è per primo il Dottore di Grenvil, che cerca di consolarla, di tirarle su il morale e di invitarla a sperare ancora ("Coraggio, la convalescenza non è lontana"). Ma Violetta, che la sera prima ha già ricevuto la visita di un prete, sa bene che si tratta di pietose bugie. E infatti il Dottore rivela sottovoce ad Annina, mentre lo sta accompagnando alla porta, che "la tisi non le accorda che poche ore".
Sorge spontaneo, naturalmente, un confronto fra l'atto conclusivo de "La traviata" e quello che Giacomo Puccini comporrà, 42 anni più tardi, per "La Bohème". Le analogie sono moltissime: entrambi ambientati a Parigi, nella camera di una fanciulla che sta morendo consunta dalla tubercolosi; entrambi connotati da una dimensione intimistica e colmi di brani ricchi di pathos che comunicano il rimpianto, le vane illusioni, il dolore e la fine di ogni speranza. Le due opere (e i loro autori) sono così diverse, eppure hanno così tanto in comune! Forse non a caso "La traviata" si staglia a tal punto, rispetto al resto della produzione di Verdi, da essere l'opera "popolare" per eccellenza: c'è anche chi l'ha definita la prima opera "realista" della storia, e non c'è dubbio che rappresenti uno spartiacque verso quel nuovo modo di intendere il dramma lirico che troverà proprio in Puccini uno dei migliori rappresentanti.
L'importanza della figura di Alfredo viene fuori solo se si tiene conto anche dei suoi limiti: di quella immaturità e impulsività di base che gli permettono, sia pure inconsciamente, di toccare le corde più nascoste e profonde dell'anima, quelle zone rimosse e negate che solo i bambini o i puri di cuore come il principe Myškin sanno toccare. Ma Alfredo non è né un bambino né un mistico. È un giovane della buona borghesia, avvezzo ai piaceri e con un grosso complesso di padre. Normalmente quelli come lui, dopo aver corso la cavallina e data qualche preoccupazione al genitore benpensante, rientrano nei ranghi delle convenzioni e finiscono per assomigliare sempre più a quel padre a cui in gioventù avevano trasgredito, ma dal quale non hanno mai preso veramente le distanze in modo cosciente e responsabile.
Alfredo però non è solo questo. Pur non essendo un eroe, ha qualcosa di insolito e di straordinario: una genuina apertura alla “Visione”, un innato senso della Bellezza e dell'Armonia che mettono le ali all'Amore e alla Speranza, qualità estremamente contagiose e trasformative. Non è un eroe, come Calaf per esempio, perché non ha la consapevolezza né il coraggio determinato che spingono l'azione eroica verso l'impresa della liberazione della fanciulla prigioniera del mostro-drago e della trasformazione di un livello di coscienza ad un altro attraverso il superamento dei pericoli. A suo modo comunque anche Alfredo libera Violetta dalle spirali di un drago: dalla rassegnazione a vivere una vita di comodità, ma estraniata dalla sua parte più vitale e profonda, dal centro di sé stessa da cui scaturisce la vera gioia di vivere. Ma lo fa senza un vero progetto e senza affrontare delle prove; anzi, quando la vicenda si trasforma in prova, lui non la riconosce e si adegua all'apparenza: crede subito quel che Violetta vuol fargli credere e si comporta di conseguenza, senza intuire minimamente la verità. Un vero eroe non si lascia distogliere dalle apparenze...
Lo vediamo però già all'inizio portatore di qualcosa di diverso dagli altri ammiratori di Violetta, qualcosa che non sappiamo definire, ma che l'amico Gastone intuisce e identifica in un modo d'amare insolito per quell'ambiente, dove dominano i desideri immediatamente soddisfatti e un tipo di piacere del tutto materialistico e legato alla soddisfazione raggiunta. Presentandolo a Violetta, Gastone usa dei termini come “Molto vi onora... sempre a voi pensa... ogni dì con affanno qui volò, di voi chiese...”: descrive cioè un tipo di interesse molto diverso dalla concupiscenza e dal bisogno di possedere subito l'oggetto amato, trattandosi soprattutto di una cortigiana dichiarata. E Violetta si stupisce, ma sul momento crede che si tratti di un'esagerazione e di un complimento un po' eccessivo ma niente di più. E nel celebre brindisi Alfredo stupisce tutti e li trascina in un vortice d'entusiasmo che va oltre la semplice ebbrezza dell'alcol. Comincia a profilarsi qualcosa di più vasto ed arioso, qualcosa che coinvolge non solo i sensi, ma l'anima stessa...
Ma è nell'aria seguente (“Un dì felice, eterea...”) che viene fuori la vera particolarità di Alfredo, la sua dote più importante. Nell'inno all'amore che dispiega, raggiunge un vertice assoluto (grazie ovviamente alla sublime musica di Verdi, in stato di assoluta grazia) e pone il sentimento amoroso in un contesto cosmico e universale che trascende qualsiasi definizione (“Quell'amor ch'è palpito dell'universo intero...”). Sembra quasi di sentire Dante che parla dell'“Amor che move il sole e l'altre stelle...”. Ma Dante parla di Dio. Alfredo è talmente ispirato che non può non contagiare chi lo ascolta e attivare una profonda nostalgia e desiderio. Ed è esattamente quello che succede a Violetta, che aveva rimosso la possibilità di un amore del genere, ma che ora è profondamente scossa e turbata da uno che fino a pochi momenti prima nemmeno conosceva... Ecco, Alfredo può essere immaturo e impulsivo finché si vuole, ma è in grado di attivare e mettere in moto una forza d'amore e un'apertura d'anima straordinarie. Probabilmente avviene tutto inconsciamente, ma avviene. Probabilmente qualcosa di lui è in contatto con la sorgente dell'energia più nascosta e preziosa della Vita, e per lui accedervi è un fatto del tutto naturale e spontaneo, per cui non si rende nemmeno conto dell'eccezionalità di tale dono. Ma c'è, e Violetta ne viene risvegliata. La ragazza non potrà più essere come prima, e tale amore, anche se le porterà grandi sofferenze, le permetterà però di recuperare la propria autostima e di assaporare una felicità mai provata prima.
Nel secondo atto vediamo dispiegarsi il carattere di Alfredo esattamente come ce lo aspettavamo: si abbandona alla gioia come un bambino, senza porsi nessun problema pratico; poi si vergogna nel sentirsi mantenuto dalla donna amata, e infine si abbandona alla rabbia e alla vendetta credendosi tradito. Manifesta cioè tutti quegli aspetti di mancanza di riflessione e di maturità tipici del “figlio con complesso di padre”: e con il padre che vediamo in azione, non c'è da meravigliarsi. Reagisce a tanto conformismo e paternalismo cercando di sfuggirgli e rimanendo adolescente il più possibile.
Ritroviamo quella peculiare capacità di attivare la forza della “Vita” alla fine, nel terzo atto, quando Alfredo si precipita da Violetta malata e con il suo entusiasmo le riaccende, se pur per breve tempo, il desiderio di guarire e di vivere, cioè la Speranza (“Parigi, o cara...”). Non importa se Violetta muore (Alfredo non può certamente fare miracoli): quello che conta è che muore felice, in un momento di grazia, con la speranza e l'amore che hanno riacceso la sua anima, preparandola all'infinito... La speranza infatti non è solo la proiezione nel futuro di qualcosa di bello che deve realizzarsi ma, nel suo significato più alto, uno stato d'animo, un'apertura che va oltre le aspettative concrete perché apre al trascendente, anche se non lo sappiamo e spesso confondiamo i piani. Di questa eccezionale capacità Alfredo è portatore e bisogna dargliene atto.
Subito dopo tante scene di gioia e di danza, arriva il momento di massima tensione dell'opera. Alfredo, giunto alla festa di Flora in cerca di Violetta, la ritrova accompagnata dal Barone Douphol (il precedente protettore della ragazza) e si convince che lei lo abbia abbandonato per tornare ai suoi antichi piaceri. Reso cieco dall'amore, dall'impulsività e dall'ingenuità, ignaro non solo della promessa fatta da Violetta a Giorgio Germont ma anche del suo grave stato di salute, Alfredo sfida apertamente il Barone (inizialmente soltanto al gioco, vincendo forti somme: "Sfortuna nell'amore / fortuna reca al gioco"; ma è già sottintesa una futura sfida a duello). Mentre i convitati si spostano in un'altra sala per la cena, Violetta chiede ad Alfredo di potergli parlare in privato ("Mi chiamaste? Che bramate?") per supplicarlo di andarsene immediatamente e di non battersi con Douphol. Alfredo, pur sprezzante nei suoi confronti ("S'ei cadrà per mano mia / un sol colpo vi torrìa / coll'amante il protettore"), la invita ancora, per un'ultima volta, a seguirlo; ma lei – fedele alla promessa che ha fatto a suo padre – rifiuta e gli confessa di amare il Barone. A quel punto, il giovane non ci vede più: riconvoca tutti nel salone e pubblicamente dà il "benservito" a Violetta, gettando ai suoi piedi il denaro che ha appena vinto al gioco ("Or testimon vi chiamo / che qui pagata io l'ho").
Il secondo atto si conclude con un concertato, ovvero un pezzo in cui (per dirla con Wikipedia) "i personaggi e il coro intrecciano le loro linee vocali in forma polifonica". L'atto di disprezzo di Alfredo nei confronti di Violetta, e il suo trattarla così apertamente da prostituta, suscitano l'indignazione di tutti i presenti ("Oh, infamia orribile"): lo stesso Alfredo se ne pente all'istante ("Ah sì, che feci! Ne sento orrore!"), e contemporaneamente giunge anche suo padre, Giorgio Germont, che lo rimprovera aspramente ("Di sprezzo degno sé stesso rende / chi pur nell'ira la donna offende"), pur non potendo rivelare la verità e il proprio ruolo nella vicenda. La scena si chiude con il Barone Douphol che sfida, stavolta in maniera aperta, Alfredo a duello, mentre Violetta – riacquistati i sensi dopo essere svenuta – si dispera per non poter spiegare ad Alfredo la grandezza del proprio amore, che lui non può comprendere ("Alfredo, Alfredo, di questo core").
Da notare che nel testo teatrale di Dumas cui si ispira l'opera ("La signora delle camelie"), il personaggio di Duval (ossia Giorgio Germont) non compare più dopo il lungo colloquio con Margherita/Violetta (a dire il vero fa una piccola comparsata, ma senza pronunciare battute, nel punto in cui Verdi e Piave hanno inserito l'aria "Di Provenza il mar, il suol"). Non era però pensabile che il baritono, uno dei tre cantanti principali, sparisse nel nulla a metà dell'opera: per questo ne "La traviata" è stato aggiunto il suo arrivo alla festa di Flora e poi, nel terzo atto, quello nella camera di Violetta morente. Sono scene che rafforzano, anziché indebolirlo, il nucleo drammatico della vicenda: dopotutto il vero contrasto de "La traviata" è quello fra Violetta e Germont, o meglio fra i mondi che i due personaggi rappresentano (il sentimento libero autentico, contro la morale e le convenzioni sociali): in questo senso, Alfredo è – drammaturgicamente – quasi subalterno rispetto agli altri due personaggi, molto più in balia degli eventi e dipendente dalle decisioni altrui.
TUTTI Ben disinvolto! Bravo! Or via, giuocar si può.
FLORA (andando incontro a Violetta, che entra al braccio del Barone) Qui desiata giungi.
VIOLETTA Cessi al cortese invito.
FLORA Grata vi son, barone, d'averlo pur gradito.
BARONE (piano a Violetta) Germont è qui! Il vedete?
VIOLETTA (fra sé) Cielo! Gli è vero! (piano al Barone) Il vedo.
BARONE (cupo) Da voi non un sol detto si volga a questo Alfredo.
VIOLETTA (fra sé) Ah, perché venni, incauta! Pietà, gran Dio, di me!
FLORA (a Violetta, facendola sedere presso di sé sul divano) Meco t'assidi: narrami. Quai novità vegg'io? (Il Dottore si avvicina ad esse, che sommessamente conversano. Il Marchese si trattiene a parte col Barone, Gastone taglia, Alfredo ed altri puntano, altri passeggiano.)
ALFREDO Un quattro!
GASTONE Ancora hai vinto.
ALFREDO Sfortuna nell'amore fortuna reca al giuoco! (punta e vince)
TUTTI È sempre vincitore!
ALFREDO Oh, vincerò stasera; e l'oro guadagnato poscia a goder tra' campi ritornerò beato.
FLORA Solo?
ALFREDO No, no, con tale che vi fu meco ancora, poi mi sfuggìa.
VIOLETTA (Mio Dio!)
GASTONE (ad Alfredo, indicando Violetta) Pietà di lei!
BARONE (ad Alfredo, con mal frenata ira) Signor!
VIOLETTA (al Barone) Frenatevi, o vi lascio.
ALFREDO (disinvolto) Barone, m'appellaste?
BARONE Siete in sì gran fortuna, che al giuoco mi tentaste.
ALFREDO (ironico) Sì? la disfida accetto.
VIOLETTA (Che fia? morir mi sento. Pietà, gran Dio, di me!)
BARONE (puntando) Cento luigi a destra...
ALFREDO (puntando) Ed alla manca cento.
GASTONE Un asso... un fante... (ad Alfredo) Hai vinto!
BARONE Il doppio?
ALFREDO Il doppio sia.
GASTONE (tagliando) Un quattro... un sette...
TUTTI Ancora!
ALFREDO Pur la vittoria è mia!
CORO Bravo davver! La sorte è tutta per Alfredo!
FLORA Del villeggiar la spesa farà il baron, già il vedo.
ALFREDO (al Barone) Seguite pur!
SERVO La cena è pronta.
TUTTI (avviandosi) Andiamo.
VIOLETTA (Che fia? morir mi sento. Pietà, gran Dio, di me!)
ALFREDO (al Barone) Se continuar v'aggrada...
BARONE Per ora nol possiamo: Più tardi la rivincita.
ALFREDO Al gioco che vorrete.
BARONE Seguiam gli amici. Poscia...
ALFREDO Sarò qual bramerete. Andiam.
BARONE Andiam.
(Tutti entrano nella porta di mezzo: la scena rimane un istante vuota. Poi Violetta ritorna affannata.)
VIOLETTA Invitato a qui seguirmi, verrà desso? Vorrà udirmi? Ei verrà, ché l'odio atroce puote in lui più di mia voce...
VIOLETTA Questi luoghi abbandonate; un periglio vi sovrasta.
ALFREDO Ah, comprendo! Basta, basta! E sì vile mi credete?
VIOLETTA Ah no, no, mai!
ALFREDO Ma che temete?
VIOLETTA Temo sempre del Barone.
ALFREDO È tra noi mortal quistione. S'ei cadrà per mano mia, un sol colpo vi torrìa coll'amante il protettore. V'atterrisce tal sciagura?
VIOLETTA Ma s'ei fosse l'uccisore? Ecco l'unica sventura ch'io pavento a me fatale!
ALFREDO La mia morte! Che ven cale?
VIOLETTA Deh, partite, e sull'istante!
ALFREDO Partirò, ma giura innante che dovunque seguirai, seguirai i passi miei...
VIOLETTA Ah! no, giammai!
ALFREDO No! giammai!
VIOLETTA Va', sciagurato. Scorda un nome ch'è infamato! Va', mi lascia sul momento di fuggirti un giuramento sacro io feci.
ALFREDO A chi? Dillo, chi potea?
VIOLETTA Chi diritto pien ne avea.
ALFREDO Fu Douphol?
VIOLETTA (con supremo sforzo) Sì.
ALFREDO Dunque l'ami?
VIOLETTA Ebben... l'amo!
ALFREDO (corre furente alla porta e grida) Or tutti a me!
TUTTI (ritornano confusamente) Ne appellaste? Che volete?
ALFREDO (additando Violetta che abbattuta si appoggia al tavolino) Questa donna conoscete?
TUTTI Chi? Violetta?
ALFREDO Che facesse non sapete?
VIOLETTA Ah, taci!
TUTTI No.
ALFREDO Ogni suo aver tal femmina per amor mio sperdea Io cieco, vile, misero, tutto accettar potea. Ma è tempo ancora! Tergermi da tanta macchia bramo. Or testimoni vi chiamo che qui pagata io l'ho. (Getta con furente sprezzo una borsa ai piedi di Vloletta, che sviene tra le braccia di Flora e del Dottore. In tal momento entra il padre.)
TUTTI Oh, infamia orribile tu commettesti! Un cor sensibile Così uccidesti! Di donne ignobile insultator, di qui allontanati, ne desti orror.
GERMONT (con dignitoso fuoco) Di sprezzo degno sé stesso rende chi pur nell'ira la donna offende. Dov'è mio figlio? Più non lo vedo: in te più Alfredo trovar non so.
ALFREDO (fra sé) Ah sì, che feci! Ne sento orrore! Gelosa smania, deluso amore mi strazia l'alma, più non ragiono... Da lei perdono più non avrò. Volea fuggirla, non ho potuto. Dall'ira spinto son qui venuto! Or che lo sdegno ho disfogato, me sciagurato, rimorso n'ho!
FLORA, GASTONE, DOTTORE, MARCHESE, CORO (a Violetta) Oh, quanto peni! Ma pur fa cor! Qui soffre ognuno del tuo dolor; fra cari amici qui sei soltanto, rasciuga il pianto che t'inondò.
GERMONT (fra sé) Io sol fra tanti so qual virtude di quella misera il sen racchiude. Io so che l'ama, che gli è fedele; eppur, crudele, tacer dovrò!
BARONE (piano ad Alfredo) A questa donna l'atroce insulto qui tutti offese, ma non inulto fia tanto oltraggio. Provar vi voglio che tanto orgoglio fiaccar saprò.
VIOLETTA (riavendosi) Alfredo, Alfredo, di questo core non puoi comprendere tutto l'amore; tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo provato io l'ho! Ma verrà giorno, in che il saprai com'io t'amassi, confesserai... Dio dai rimorsi ti salvi allora! Io spenta ancora pur t'amerò.
Giuseppe Filianoti, Mariella Devia (direttore: Bruno Campanella)
Alfredo Kraus, Elena Mauti-Nunziata, Vicente Sardinero (direttore: Francis Balagna)
Gianni Poggi, Renata Tebaldi, Aldo Protta dir: F. Molinari Pradelli
Carlo Bergonzi, Montserrat Caballe, Sherrill Milnes dir: Georges Pretre
Il secondo quadro del secondo atto si svolge nella casa parigina di Flora, dove è in programma una festa in maschera. La padrona di casa, dopo aver spiegato ad alcuni amici (il dottore Grenvil e il marchese d'Obigny) di aver invitato anche Violetta e Alfredo, è stupita nell'apprendere che i due si sono separati e che Violetta verrà alla festa con il barone Douphol. Nel frattempo cominciano ad giungere gli invitati: alcune signore si sono mascherate da zingare ("Noi siamo zingarelle"), e si divertono a leggere la mano a Flora e al Marchese, mentre un gruppo di gentiluomini – guidati dal visconte Gastone – si presenta in costume da toreador ("Di Madride noi siam mattadori") e racconta le imprese di Piquillo, un torero che ha affrontato ben cinque tori nell'arena per amore della sua bella. Fra risa, scherzi e balli, il quadro si apre dunque con una serie di cori vivaci e festosi, arricchiti da una musica colorata e vivace che fa registrare un notevole stacco rispetto ai toni con cui si era chiuso quello precedente: se fossimo nel "Don Giovanni" di Mozart, ci sarebbe da commentare: "Troppo dolce comincia la scena / In amaro potrìa terminar...".
ZINGARE (molte signore mascherate da zingare, che entrano dalla destra.) Noi siamo zingarelle venute da lontano; d'ognuno sulla mano leggiamo l'avvenir. Se consultiam le stelle null'avvi a noi d'oscuro, e i casi del futuro possiamo altrui predir.
(osservando la mano di Flora) Vediamo! Voi, signora, rivali alquante avete.
(osservando la mano del Marchese) Marchese, voi non siete model di fedeltà.
FLORA (al Marchese) Fate il galante ancora? Ben, vo' me la paghiate!
MARCHESE (a Flora) Che diamin vi pensate? L'accusa è falsità!
FLORA La volpe lascia il pelo, non abbandona il vizio. Marchese mio, giudizio, o vi farò pentir!
TUTTI Su via, si stenda un velo sui fatti del passato; già quel ch'è stato è stato, badate/badiamo all'avvenir. (Flora ed il Marchese si stringono la mano.)
(Gastone ed altri mascherati da mattadori e da piccadori spagnoli entrano vivacemente dalla destra.)
GASTONE E MATTADORI Di Madride noi siam mattadori, siamo i prodi del circo de' tori, testè giunti a godere del chiasso che a Parigi si fa pel bue grasso; è una storia, se udire vorrete, quali amanti noi siamo saprete.
GLI ALTRI Sì, sì, bravi, narrate, narrate! Con piacere l'udremo!
GASTONE E MATTADORI Ascoltate. È Piquillo un bel gagliardo biscaglino mattador: forte il braccio, fiero il guardo, delle giostre egli è signor. D'andalusa giovinetta follemente innamorò; ma la bella ritrosetta così al giovane parlò: cinque tori in un sol giorno vo' vederti ad atterrar; e, se vinci, al tuo ritorno mano e cor ti vo' donar. Sì, gli disse, e il mattadore alle giostre mosse il piè; cinque tori, vincitore sull'arena egli stendè.
GLI ALTRI Bravo, bravo il mattadore, ben gagliardo si mostrò, se alla giovane l'amore in tal guisa egli provò.
GASTONE E MATTADORI Poi, tra plausi, ritornato alla bella del suo cor, colse il premio desiato tra le braccia dell'amor.
GLI ALTRI Con tai prove i mattadori san le belle conquistar!
GASTONE E MATTADORI Ma qui son più miti i cori; a noi basta folleggiar!
TUTTI Sì, sì, allegri, or pria tentiamo della sorte il vario umor; la palestra dischiudiamo agli audaci giuocator. (Gli uomini si tolgono la maschera, chi passeggia e chi si accinge a giocare.)
direttore: Lorin Maazel (La Scala 2007)
direttore: Carlo Rizzi
una prova diretta da Arturo Toscanini ^^
Ed ecco una versione del coro "Noi siamo zingarelle", colorato ed espressivo, accompagnata da una curiosa animazione a passo uno con la plastilina: