31 marzo 2017

Norma (11) - "Oh! Rimembranza!"

Scritto da Marisa

I tristi pensieri e presentimenti di Norma vengono interrotti dalla visita di Adalgisa, che con molta timidezza e imbarazzo chiede un colloquio alla sacerdotessa suprema che ammira, ama e in cui ripone una fiducia che ha tutto il sapore della venerazione stessa. Non succede così quando nei primi anni di gioventù abbiamo degli ideali e crediamo di aver trovato il maestro giusto che li incarna? Non diventa il modello e l'oggetto di venerazione? Norma la incoraggia ad aprirsi a lei con una affettuosità quasi materna che il termine “giovinetta” ci rivela, invitandola addirittura ad abbracciarla. E Adalgisa, così rassicurata, apre finalmente tutto il suo cuore, dopo tanta segreta angoscia. Sì, quello che la turba è il sentimento d'amore che si è insinuato in lei sopraffacendo e scacciando tutti gli altri. E nel descrivere, su sollecitazione della stessa sacerdotessa, come e quando tale amore si è fatto strada, risveglia in Norma il ricordo esatto del suo primo incontro con Pollione (le parole seduttive sono infatti le stesse...) e di come lei per prima abbia ceduto all'incanto, immemore degli obblighi del proprio ruolo.

Siamo di fronte ad un duetto memorabile, in cui le due voci femminili si intrecciano e si sovrappongono in un unico sogno: attuale e in pieno svolgimento per Adalgisa, nostalgico e struggente per Norma, che nella stessa rievocazione lo rivive in pieno riattualizzandolo. E si abbandona talmente al ricordo che Adalgisa teme di non essere ascoltata, tanto la vede estatica e assente. La lunghezza del duetto è volta a portarci proprio al centro del cuore femminile e di come un amore e un anelito spirituale possano venire indirizzati diversamente, verso l'umano. La libido funziona proprio così: la stessa energia psichica può prendere vie diverse, essere dirottata in alto o in basso e trasformarsi da passione mistica a umana o viceversa, ma l'energia di base o libido (come è più appropriato chiamarla in termini psicologici) è la stessa...

A piè dell'ara ov'io pregava il Dio.
Tremai… Sul labbro mio
Si arrestò la preghiera.
E, tutta assorta
In quel leggiadro aspetto,
Un altro cielo mirar credetti,
Un altro cielo in lui.
E Pollione, come Don Giovanni, intuisce benissimo le potenzialità del sentimento mistico per dirottarlo a suo favore. Non ha già collaudato con Norma una simile tecnica di seduzione? Alla Maddalena cristiana avviene il contrario: il suo amore terreno per gli uomini cambia direzione dopo l'incontro con Gesù e diventa amore mistico, ma quanto vivo e ardente!

Proprio il ricordo di come sia dolce e suadente il richiamo d'amore e il suo abbandonarsi ad esso porta Norma ad essere così indulgente e pronta a compiacere la ragazza, assicurandole di poter sciogliere i suoi vincoli con l'altare, anche perché le ricorda che i suoi voti non sono ancora definitivi (Adalgisa è ancora una novizia) e quindi non c'è nessun sacrilegio, anche se ha comunque bisogno del permesso e del perdono della sacerdotessa-capo per essere liberata dalla promessa dei voti. E Norma dissipa ogni ombra, acconsente con gioia ad accordare ad Adalgisa quello che vorrebbe fosse accordato a lei stessa...
Perdono e ti compiango.
Dai voti tuoi ti libero,
I tuoi legami io frango.
Al caro oggetto unita
Vivrai felice ancor.
La tenerezza di Norma per Adalgisa trova qui il punto di massima intensità; dall'atteggiamento iniziale – benevolo, quasi materno – della sacerdotessa verso l'adepta molto più giovane, passiamo ora a un sentimento di comprensione profondamente partecipata e di vera immedesimazione. Di più, Norma fa generosamente per la ragazza quello che nessuno può fare per lei, ma che vorrebbe intensamente: essere sciolta dai voti e poter seguire l'amante senza sensi di colpa. Quale miraggio di felicità!

Tale vertice di estasi e visione di una possibile felicità sono destinati a capovolgersi però bruscamente e drammaticamente non appena si apre la porta. Con l'entrata di Pollione, infatti, tutto cambia.


Clicca qui per il testo del recitativo che precede.

(Entra Adalgisa.)

NORMA
Adalgisa!

ADALGISA
(da lontano)
(Alma, costanza!)

NORMA
T'inoltra, o giovinetta, t'inoltra.
E perchè tremi?
Udii che grave a me segreto
Palesar tu voglia.

ADALGISA
È ver.
Ma, deh, ti spoglia
Della celeste austerità
Che splende negli occhi tuoi!
Dammi coraggio,
Ond'io senza alcun velo
Ti palesi il core!

(Si prostra.)

NORMA
(la solleva)
M'abbraccia, e parla.
Che t'afflige?

ADALGISA
(dopo un momento di esitazione)
Amore. Non t'irritar!
Lunga stagion pugnai per soffocarlo.
Ogni mia forza ei vinse,
Ogni rimorso.
Ah! Tu non sai, pur dianzi
Qual giuramento io fea!
Fuggir dal tempio,
Tradir l'altare a cui son io legata,
Abbandonar la patria…

NORMA
Ahi! Sventurata!
Del tuo primier mattino
Già turbato è il sereno?
E come, e quando
Nacque tal fiamma in te?

ADALGISA
Da un solo sguardo, da un sol sospiro,
Nella sacra selva,
A piè dell'ara ov'io pregava il Dio.
Tremai… Sul labbro mio
Si arrestò la preghiera.
E, tutta assorta
In quel leggiadro aspetto,
Un altro cielo mirar credetti,
Un altro cielo in lui.

Clicca qui per il testo di "Oh! Rimembranza!"... "Sola, furtiva, al tempio".

NORMA
(Oh! Rimembranza!
Io fui così rapita
Al sol mirarlo in volto!)

ADALGISA
Ma non m'ascolti tu?

NORMA
Segui. T'ascolto.

ADALGISA
Sola, furtiva, al tempio
Io l'aspettai sovente,
Ed ogni dì più fervida
Crebbe la fiamma ardente.

NORMA
(Io stessa arsì così.)

ADALGISA
Vieni, ei dicea, concedi
Ch'io mi ti prostri ai piedi.

NORMA
(Oh, rimembranza!)

ADALGISA
Lascia che l'aura io spiri...

NORMA
(Io fui così sedotta!)

ADALGISA
Dei dolci tuoi sospiri,
Del tuo bel crin le anella
Dammi, dammi poter baciar.

NORMA
(Oh, cari accenti!
Così li profferia,
Così trovava del mio cor la via!)

ADALGISA
Dolci qual arpa armonica
M'eran le sue parole,
Negli occhi suoi sorridere
Vedea più bello un sole.

NORMA
(L'incanto suo fu il mio!)

ADALGISA
Io fui perduta e il sono!

NORMA
Ah! Tergi il pianto!

ADALGISA
D'uopo ho del tuo perdono!

NORMA
Avrò pietade!

ADALGISA
Deh! Tu mi reggi e guida!

NORMA
Ah! Tergi il pianto!

ADALGISA
Me rassicura, o sgrida,
Salvami da me stessa,
Salvami, salvami dal mio cor!

NORMA
Ah! Tergi il pianto!
Te non lega eterno nodo,
Eterno nodo all'ara.

ADALGISA
Ah! Ripeti, o ciel, ripeti
Sì lusinghieri accenti!

NORMA
Ah! Sì, fa core e abbracciami.
Perdono e ti compiango.
Dai voti tuoi ti libero,
I tuoi legami io frango.
Al caro oggetto unita
Vivrai felice ancor.

ADALGISA
Ripeti, o ciel, ripetimi
Sì lusinghieri accenti!
Per te, per te, s'acquetano
I lunghi miei tormenti.
Tu rendi a me la vita,
Se non è colpa amor.




Daniela Dessì (Norma), Kate Aldrich (Adalgisa)
dir: Evelino Pidò (2008)


Maria Callas, Christa Ludwig


Montserrat Caballé, Fiorenza Cossotto


Renata Scotto, Tatiana Troyanos

Sondra Radvanovsky, Ekaterina Gubanova

29 marzo 2017

Norma (10) - "Vanne, e li cela entrambi"

Scritto da Marisa

Entriamo sempre di più nel cuore tormentato di Norma e nei suoi conflitti. Al dolore per la freddezza dell'amato si aggiunge il problema dei figli. Siamo ora nelle stanze riservate della sacerdotessa e scopriamo che, nascosti a tutti e custoditi da Clotilde, una fedele ancella, esistono due bambini, frutto della relazione clandestina con il proconsole romano Pollione, il nemico del suo popolo!

Secoli di culto materno, alimentato dall'immagine cristiana di Maria, madre amorevole e perfetta, ci hanno abituato a considerare solo il lato positivo del rapporto madre-figlio e a sentire come aberrante e mostruoso ogni suo offuscamento. Quale inganno! Del resto cosa ci rassicura di più e ci fa maggior piacere di poter contare su un amore incondizionato, assoluto, protezione e scudo contro ogni pericolo e possibile minaccia? A questo abbiamo delegato l'amore materno. E in realtà, all'inizio della vita sempre così precaria, le braccia della madre e il suo “seno” sono veramente garanzia di sopravvivenza e radice di ogni sentimento di fiducia e autostima. Ma quello che per il bambino è assolutamente necessario non sempre trova esatta corrispondenza nel sentimento della donna-madre. E soprattutto, fino a quando si può e si deve garantire tale protezione rassicurante? Non arriva (per alcuni troppo presto, purtroppo!) il momento in cui le frustrazioni si susseguono e ci portano a capire che non tutto è garantito, non tutto è gratuito, non tutto è permesso? Norma è una donna lucida, in grado di leggere nel proprio cuore, e ci porta direttamente in uno dei conflitti più segreti e in genere rimossi dell'animo femminile: il contemporaneo amore-odio per i propri figli!

Non so. Diversi affetti
Strazian quest'alma.
Amo in un punto ed odio i figli miei!
Soffro in vederli,
E soffro s'io non li veggo.
Non provato mai
Sento un diletto
Ed un dolore insieme d'esser lor madre.
Quale donna moderna ammetterebbe la compresenza di sentimenti così contrapposti? Magari in un momento di sconforto, di debolezza emotiva ci si spinge a dire che “ebbene sì, sono stanca, il bambino non mi fa dormire di notte e questo mi esaspera, a volte vorrei persino non averlo tra i piedi continuamente...”, ma presto rassicuriamo tutti dicendo che “sono perfettamente felice di averlo ed è la più bella cosa che la vita mi abbia dato”. Norma no. Lei ammette onestamente l'ambivalenza esistente nel proprio cuore e non cerca scuse. Solo Catullo ci parla con tanta lucida consapevolezza, riconoscendo nel suo appassionato amore per Clodia (Lesbia) la compresenza dell'odio. Sentiamolo perché si tratta solo di due versi, ma quanto importanti.

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.
Nescio, sed fieri sentio et excrucior
Odio e amo. Ma come, dirai. Non lo so,
sento che avviene ed è la mia tortura.

Certamente Catullo aveva i suoi buoni motivi anche per l'odio (veniva abitualmente tradito!) e anche Norma si trova in una situazione difficile, ma chi prima o poi non incappa in periodi bui dove la strada si fa in salita? Riconoscere che dietro l'amore è sempre in agguato l'odio, che aspetta solo il momento opportuno per farsi avanti, questo sì che ci renderebbe meno giudicanti e arrogantemente sicuri quando tutto va bene e le condizioni sono le più favorevoli!

Il tormento di Norma è acuito dal fatto di sapere che il proconsole è stato richiamato a Roma, ma non sa se lui vuole portare con sé lei e i figli. Lei sarebbe ben pronta a seguirlo e lasciare così definitivamente il suo popolo e il ruolo sacerdotale, ma lui cosa vuole? "Ei tace il suo pensiero. / Oh! S'ei fuggir tentasse, e qui lasciarmi? / Se obliar potesse questi suoi figli?", confida a Clotilde, rivelando tutta la pena e la struggente attesa. Norma sa bene che se Pollione rinnegasse i suoi figli non proteggendoli o portandoli a Roma, il destino dei bambini sarebbe segnato perché la sua gente non potrebbe mai accettarli in quanto figli del nemico. Ed ecco che l'amore-odio comincia a lavorare nel suo animo prendendo altre strade...

E qui comincia veramente il confronto con Medea. Sì, perché fin tanto che si tratta solo di ambivalenza, questa è strutturalmente insita nel cuore di ogni donna-madre (anche se viene spesso rimossa a vantaggio del solo polo positivo), ma ora comincia a farsi strada un pensiero che potrebbe trasformarsi in azione: cosa fare se l'uomo amato e per cui si sono corsi tanti rischi ci abbandona con i figli? Come vendicarsi, facendolo soffrire, e come risolvere il problema dei figli, una volta che la protezione paterna viene meno, con tanta disinvoltura e leggerezza?

Le premesse ci sono tutte. Medea, la potente “maga-sacerdotessa”, per aiutare Giasone – di cui si è innamorata a prima vista – nella sua difficile impresa della conquista del “Vello d'oro” (impresa antesignana di ogni avventura eroica), non esita a tradire la sua gente, a uccidere persino il fratello e a fuggire con l'amato in Grecia, terra per lei ostile. In seguito, dopo l'annunciato nuovo matrimonio di lui con la principessa di Corinto, Creusa, si ritrova messa al bando con i figli, senza alcuna protezione, tradita e umiliata... Lei, la grande maga, discendente dal Sole stesso, abituata a comandare ed essere temuta nella sua terra ed ora considerata “barbara” dagli orgogliosi greci e spogliata di ogni dignità... Non si profila una situazione analoga per Norma? Per ora lei è ancora la “sacerdotessa suprema”, in grado di sviare la rabbia e la vendetta dei suoi dal capo dell'amato, ma tutto si rovescerebbe se lui l'abbandonasse...

Uscendo dall'interpretazione alla lettera del mito e dell'opera, non possiamo non cogliere – proprio attraverso la loro esemplarità – l'angoscia e il tormento di tante donne, che pur pensano di essere ormai emancipate, al momento di subire un abbandono umiliante da parte dell'uomo amato e per il quale hanno forse sacrificato delle parti importanti di sé, magari le proprie ambizioni culturali e professionali, o si sono alienate la famiglia di origine staccandosi troppo bruscamente per essere solo dedite al proprio uomo. Ricordo il bel film del 2005 di Roberto Faenza “I giorni dell'abbandono”, in cui una dolente ed intensa Margherita Buy interpreta la moglie tradita e abbandonata da una cinica e disinvolta canaglia a cui presta la faccia il simpatico Luca Zingaretti.

Clicca qui per il testo di "Vanne, e li cela entrambi".

(Abitazione di Norma. Norma, Clotilde e due piccoli fanciulli.)

NORMA
Vanne, e li cela entrambi.
Oltre l'usato
Io tremo d'abbracciarli.

CLOTILDE
E qual ti turba strano timor,
Che i figli tuoi rigetti?

NORMA
Non so. Diversi affetti
Strazian quest'alma.
Amo in un punto ed odio i figli miei!
Soffro in vederli,
E soffro s'io non li veggo.
Non provato mai
Sento un diletto
Ed un dolore insieme d'esser lor madre.

CLOTILDE
E madre sei?

NORMA
Nol fossi!

CLOTILDE
Qual rio contrasto!

NORMA
Immaginar non puossi, o mia Clotilde!
Richiamato al Tebro è Pollione.

CLOTILDE
E teco ei parte?

NORMA
Ei tace il suo pensiero.
Oh! S'ei fuggir tentasse,
E qui lasciarmi?
Se obliar potesse
Questi suoi figli?

CLOTILDE
E il credi tu?

NORMA
Non l'oso.
È troppo tormentoso,
Troppo orrendo è un tal dubbio.
Alcun s'avanza. Va. Li cela.

(Clotilde parte coi fanciulli. Norma li abbraccia.)




Maria Callas, Gabriella Carturan (1955)

Leyla Gencer, Sofía Schulz (1964)

26 marzo 2017

Norma (9) - "Va', crudele, al Dio spietato"

Scritto da Marisa

Ed ecco il lungo incontro tra Adalgisa e Pollione, che la raggiunge non appena la vede sola vicino all'altare. L'uomo, che la vagheggiava solo “fior d'innocenza e riso”, è sorpreso dal vederla piangere e sembra non aver la minima idea che l'amore possa portare turbamento e conflitto. Del resto lui stesso, pur temendo l'ira di Norma, non vive il nuovo innamoramento come conflittuale e cerca solo di avere Adalgisa per sé, con convinzione assoluta e ritorcendo ogni sua argomentazione a proprio vantaggio. Non assistiamo a un vero dialogo, ma ad una soppraffazione degna di Don Giovanni, tanto non vengono prese in considerazione le resistenze e le ragioni della fanciulla e viene utilizzata invece ogni forzatura emotiva e l'irruenza della propria pulsione per indebolirne la volontà e ottenere il proprio intento. Gli scrupoli religiosi di lei vengono immediatamente messi a tacere presentandole un altro Dio, più degno di essere adorato e tanto più favorevole a lui: Amore.

Un Dio tu preghi
Atroce, crudele,
Avverso al tuo desire e al mio.
O mia diletta!
Il Dio che invocar devi è Amore.
In questa contrapposizione c'è tutto il disprezzo del vincitore per le divinità dei vinti, proprio come violare il luogo sacro non gli procura alcun imbarazzo! Notiamo anche come abilmente Pollione si insinua nell'animo della fanciulla, cogliendone l'ambiguità e scoprendone il desiderio a cui lei cerca di opporsi appellandosi ai doveri. Assistiamo ad una vera e propria caccia, dove sembra non ci sia via d'uscita per la preda.
E vuoi fuggirmi?
E dove fuggir vuoi tu
Ch'io non ti segua?
La caccia si stringe sempre più e Pollione non esita a ricorrere ai toni più patetici possibili, di sicuro effetto su un cuore tenero e ancora ingenuo, sempre badando a ribadire la crudeltà del dio barbaro che la vorrebbe allontanare da lui.
Va, crudele, al Dio spietato
Offri in dono il sangue mio.
Tutto, ah, tutto ei sia versato,
Ma lasciarti non poss'io!
Non usa forse un tale stratagemma anche Don Giovanni (“Davanti agli occhi tuoi, morir vogl'io...”) nella celebre serenata sotto la finestra della cameriera di Donna Elvira? Ma quale dolcezza e delicatezza c'erano nella sua serenata, e quale violenza qui! Sicuramente i contesti sono molto diversi: per Don Giovanni si tratta pur sempre di un gioco, mentre per Pollione l'innamoramento sembra autentico e il progetto di sposare Adalgisa reale. Dico “sembra” perché vedremo come anche per il condottiero romano tutto si sgonfierà presto, e in modo nemmeno poi tanto imprevisto, dal momento che l'amico Flavio lo aveva già avvertito. Ma per ora l'unico suo intento è quello di conquistare definitivamente il cuore della fanciulla (non importa se per questo si spezzerà qualche altro cuore e che un simile passo renderà spergiura la ragazza che si dichiara di amare!). E rincara la dose presentando in un crescendo irruente il proprio conto (“Ah! Non sai quel che mi costi / Perch'io mai rinunzi a te”). A questa esibizione di dolore anche Adalgisa finalmente dichiara la sua sofferenza (che, a quanto pare, Pollione nemmeno immagina) e lo scotto che lei stessa deve pagare per l'amore che si è insinuato nel suo petto.
E tu pure, ah, tu non sai
Quanto costi a me dolente!
All'altare che oltraggiai
Lieta andava ed innocente,
Sì, sì, v'andava innocente.
Il pensiero al cielo ergea
E il mio Dio vedeva in ciel!
Or per me spergiura e rea
Cielo e Dio ricopre un vel!
In realtà è proprio la sua “lieta innocenza” che ha fatto scattare la passione del condottiero, abituato alle conquiste. Anche qui, non possiamo non ricordare Don Giovanni e la sua "passion predominante per la giovin principiante”! Che ne sarà quando anche lei sarà ormai diventata, come Norma, un'abitudine senza più la freschezza dell'inizio e il piacere di essere il primo?

La mossa decisiva arriva però con l'annuncio della prossima partenza del proconsole. È quindi l'ora di decidere se seguirlo e rompere definitivamente con la propria gente e il servizio divino, oppure se non vederlo più. Naturalmente vince l'amore, il desiderio di non separarsi dall'amato, pur dopo tanti dubbi e lacrime.
ADALGISA
Parti? Ed io?

POLLIONE
Tu vieni meco.
De' tuoi riti è Amor più santo,
A lui cedi, ah, cedi a me!
Il resto viene da sé. Vincere le ultime resistenze della fanciulla è ormai solo un gioco. Basta ripetere le lusinghe, colorando di rosa il futuro con la promessa di un matrimonio felice sotto la protezione di divinità romane, ben più benevoli e accomodanti di quelle dei barbari. Ogni senso di colpa può essere cancellato, sempre in nome dell'amore beninteso (vedi ancora l'abilità di Don Giovanni con Zerlina!), e la vittoria è completa. La promessa è stata strappata, Adalgisa è pronta a seguirlo.


Clicca qui per il testo del recitativo che precede.

(Pollione entra con Flavio.)

POLLIONE
(a Flavio)
Eccola! Va, mi lascia,
Ragion non odo!

(Flavio parte.)

ADALGISA
(sbigottita)
Oh, tu qui!

POLLIONE
Che veggo?
Piangevi tu?

ADALGISA
Pregava.
Ah! T'allontana, pregar mi lascia!

POLLIONE
Un Dio tu preghi
Atroce, crudele,
Avverso al tuo desire e al mio.
O mia diletta!
Il Dio che invocar devi è Amore.

ADALGISA
Amor! Deh! Taci,
Ch'io più non t'oda!

POLLIONE
E vuoi fuggirmi?
E dove fuggir vuoi tu
Ch'io non ti segua?

ADALGISA
Al tempio, ai sacri altari
che sposar giurai.

POLLIONE
Gli altari?
E il nostro amor?

ADALGISA
Io l'obliai.

Clicca qui per il testo di "Va, crudele, al Dio spietato".

POLLIONE
Va, crudele, al Dio spietato
Offri in dono il sangue mio.
Tutto, ah, tutto ei sia versato,
Ma lasciarti non poss'io,
No, nol posso!
Sol promessa al Dio tu fosti,
Ma il tuo core a me si diede.
Ah! Non sai quel che mi costi
Perch'io mai rinunzi a te.

ADALGISA
E tu pure, ah, tu non sai
Quanto costi a me dolente!
All'altare che oltraggiai
Lieta andava ed innocente,
Sì, sì, v'andava innocente.
Il pensiero al cielo ergea
E il mio Dio vedeva in ciel!
Or per me spergiura e rea
Cielo e Dio ricopre un vel!

POLLIONE
Ciel più puro e Dèi migliori
T'offro in Roma, ov'io mi reco.

ADALGISA
(colpita)
Parti forse?

POLLIONE
Ai nuovi albori.

ADALGISA
Parti? Ed io?

POLLIONE
Tu vieni meco.
De' tuoi riti è Amor più santo,
A lui cedi, ah, cedi a me!

ADALGISA
(più commossa)
Ah! Non dirlo! Ah! Non dirlo!

POLLIONE
Il dirò tanto, il dirò tanto
Che ascoltato io sia da te.

ADALGISA
Deh! Mi lascia!

POLLIONE
Ah! Deh cedi, deh cedi a me!

ADALGISA
Ah! Non posso!
Mi proteggi, o giusto ciel!

POLLIONE
Abbandonarmi così potresti!
Abbandonarmi così!
Adalgisa! Adalgisa!
(con tenerezza)
Vieni in Roma, ah, vieni, o cara,
Dov'è amore e gioia e vita!
Inebbriam nostr'alme a gara
Del contento a cui ne invita!
Voce in cor parlar non senti,
Che promette eterno ben?
Ah! Dà fede a' dolci accenti,
Sposo tuo mi stringi al sen!

ADALGISA
(Ciel! Così parlar l'ascolto
Sempre, ovunque, al tempio istesso!
Con quegli occhi, con quel volto,
Fin sull'ara il veggo impresso.
Ei trionfa del mio pianto,
Del mio duol vittoria ottien.
Ciel! Mi togli al dolce incanto,
O l'error perdona almen!)

POLLIONE
Ah! Vieni!

ADALGISA
Deh! Pietà!

POLLIONE
Ah! Deh! Vieni, ah, vieni, o cara!

ADALGISA
Ah! Mai!

POLLIONE
Crudel! E puoi lasciarmi?

ADALGISA
Ah! Per pietà, mi lascia!

POLLIONE
Così, così scordarmi!

ADALGISA
Ah! Per pietà, mi lascia!

POLLIONE
Adalgisa!

ADALGISA
Ah! Mi risparmi tua pietà
maggior cordoglio!

POLLIONE
Adalgisa! E vuoi lasciarmi?

ADALGISA
Io… Ah!…
Ah… Non posso… Seguirti voglio…

POLLIONE
Qui, domani all'ora istessa,
Verrai tu?

ADALGISA
Ne fo promessa.

POLLIONE
Giura.

ADALGISA
Giuro.

POLLIONE
Oh! Mio contento!
Ti rammenta…

ADALGISA
Ah! Mi rammento.
Al mio Dio sarò spergiura,
Ma fedel a te sarò!

POLLIONE
L'amor tuo mi rassicura,
E il tuo Dio sfidar saprò!

(Partono.)




Fabio Armiliato (Pollione), Kate Aldrich (Adalgisa)
dir: Evelino Pidò (2008)


Mario Del Monaco, Giulietta Simionato

Franco Corelli, Christa Ludwig

23 marzo 2017

Norma (8) - "Sgombra è la sacra selva"

Scritto da Marisa

Dopo che il rito si è concluso, nel bosco rimasto libero entra furtiva Adalgisa, una giovane sacerdotessa di Irminsul (in realtà ancora “novizia”, verremo a sapere, cioè non ancora definitivamente consacrata al Dio ma che tale si era prefissa di diventare prima dell'incontro con Pollione). La conosciamo già come nuova fiamma di Pollione: di lei il proconsole romano aveva infatti parlato all'amico Flavio (“Tu la vedrai… / Fior d'innocenza e riso, / di candore e d'amor“). Si tratta di una fanciulla quindi, appena sbocciata al richiamo d'amore, ma già profondamente turbata ed in pieno conflitto interiore. Ne possiamo seguire tutti i moti, tratteggiati dalla musica di Bellini con grande varietà e finezza.

Ogni vero conflitto, termine guerresco per eccellenza, vede lo scontro in campo di due forze determinate a prendere il sopravvento con la sopraffazione e forse la distruzione dell'altro. E qui il terreno di scontro è il proprio cuore e la posta in gioco altissima: il cuore stesso. A chi darlo, al Dio che ci eleva nella sua pura sfera, ma che rimane pur sempre lontano dai sensi e dall'esperienza erotica diretta, o all'uomo che ci parla con voce così suadente promettendo e facendo già provare i brividi del piacere? Adalgisa sa di aver già perso una parte del cuore e di non essere più innocente: vuole e non vuole cedere a Pollione, vuole e non vuole dedicarsi solo al servizio del Dio... Sa bene che andando da sola nel bosco, apparentemente per pregare all'altare, sarà raggiunta dall'uomo che desidera e che teme di vedere, e naturalmente ci va... Infatti non è la prima volta che lo ha incontrato davanti all'altare, anzi sembra che sedurre le vergini consacrate al Dio proprio vicino al suo altare sia per Pollione un piacere raddoppiato!

Il personaggio di Adalgisa ci porta a parlare del problema della vocazione precoce e dell'abitudine (per fortuna fenomeno ormai molto ridotto, anzi quasi scomparso) di indirizzare adolescenti o persino bambini al sacerdozio o al monachesimo, rinchiudendoli in seminari o conventi e pretendendo un'adesione a un progetto di vita di castità, in un'età in cui non si ha la minima idea di cosa comporti tale promessa. Questo non era solo un costume dei barbari, che sceglievano i loro sacerdoti (druidi o sacerdotesse) tra i figli delle classi più elevate come privilegio per una funzione così elevata, ma una pratica che si è poi moltiplicata con il cristianesimo, anche perché spesso per le famiglie numerose era il solo modo di assicurare un futuro ai figli e per i nobili quello di risolvere il problema dei “cadetti”.

Vedremo tuttavia che Adalgisa si era veramente proposta, senza alcuna coercizione, di dedicare tutta la sua vita e il suo amore al Dio, e che prima dell'incontro col “fatal romano” che risveglia i primi impulsi erotici era perfettamente serena, come dirà poco più tardi lei stessa (“All'altar che oltraggiai, / lieta andava ed innocente...”) Non è raro, infatti, soprattutto nelle società dove il religioso permea tutta la vita, che nella prima adolescenza e spesso già nell'infanzia si senta molto forte il desiderio di purezza e il richiamo alla trascendenza, uniti anche ad una naturale sessuofobia difensiva, prima dello scatenamento delle pulsioni sessuali favorite dalle “tempeste ormonali” imminenti... Per questo in Grecia esisteva una particolare istituzione che metteva le ragazze di famiglie nobili sui 12-13 anni (all'apparire del menarca quindi) sotto la protezione di Artemide, la dea vergine custode della natura incontaminata e selvaggia. Erano le “Orse” di Artemide, libere di correre nei boschi e di praticare sport fino ai 18 anni, età in cui potevano finalmente incontrare Afrodite ed aprirsi ai primi rapporti sessuali.

Adalgisa rimpiange quella serenità che ha perso e che sa di non poter più ritrovare, ed ora chiede solo protezione (da Pollione o da sé stessa?), inginocchiata davanti a quell'altare, simbolo della presenza divina ma anche luogo d'incontro con l'amato... (“Deh! Proteggimi, o Dio! / Perduta io son! / Gran Dio, abbi pietà, / Perduta io son!”). Quale ambivalenza! Ma è proprio così che si presentano i conflitti, con la compresenza di due forti sentimenti che si contendono lo stesso terreno. Per Adalgisa è la prima grande prova ed è questo che la rende così commovente.

Clicca qui per il testo di "Sgombra è la sacra selva".

ADALGISA
Sgombra è la sacra selva,
Compiuto il rito.
Sospirar non vista alfin poss'io,
Qui… dove a me s'offerse
La prima volta quel fatal Romano,
Che mi rende rubella
Al tempio, al Dio…
Fosse l'ultima almen!
Vano desio!
Irresistibil forza qui mi trascina,
E di quel caro aspetto
Il cor si pasce,
E di sua cara voce
L'aura che spira mi ripete il suono.

(Corre a prostrarsi sulla pietra d'Irminsul.)

Deh! Proteggimi, o Dio!
Perduta io son!
Gran Dio, abbi pietà,
Perduta io son!




Kate Aldrich (Adalgisa)
dir: Evelino Pidò (2008)


Fiorenza Cossotto


Marilyn Horne


Ebe Stignani

Elena Obraztsova

20 marzo 2017

Norma (7) - "Ah! Bello a me ritorna"

Scritto da Marisa

Finito il rito, Norma ritorna ad essere la donna ambigua e conflittuale che ormai è diventata dopo la relazione con il nemico del suo popolo. E pur promettendo di essere pronta a dare il segnale della riscossa contro i romani (“Quando il Nume irato e fosco / chiegga il sangue dei Romani, / dal druidico delubro / la mia voce tuonerà”), sa bene di non avere il coraggio di farlo per non danneggiare l'amante (“Ma punirlo il cor non sa”), anche se si è accorta benissimo della sua freddezza e del suo allontanamento. Questo perché lei è invece ancora molto innamorata, e prorompe in un accorato richiamo-lamento che ci mostra tutto il dolore che si sta accumulando, ma anche l'illusione che vuol mantenere viva... Pur avendo tradito il ruolo sacerdotale, ne conserva pur sempre il potere per punire o salvare l'amante, solo però se quell'amore può ancora risorgere. (“Ah! bello a me ritorna / del fido amor primiero, / e contro il mondo intiero / difesa a te sarò”). Appena dietro la maschera del potere ci si mostra ora tutta la fragilità della donna.

Nel cuore di Norma non c'è ancora gelosia (non sa nulla della nuova fiamma di Pollione), ma soltanto amarezza, nostalgia e fantasticheria sognante. Con che facilità passa da fantasie di vendetta a quelle di salvezza, nella speranza di ritrovare nel rapporto amoroso l'unica via d'uscita dal conflitto! Sarebbe persino pronta ad abbandonare la sua gente, spogliarsi del ruolo sacerdotale così alto e importante, pur di vivere a pieno l'amore! (“E vita nel tuo seno, e patria e cielo avrò.”) Sembra di assistere al rapido mutamento di un cielo di primavera, con il formarsi di nuvole che rapidamente si dissolvono poi nel sereno. Siamo però ai prodromi di una tempesta che si sta preparando, ma che per ora si cerca di esorcizzare con l'illusione che si possa fermare il tempo, anzi farlo tornare indietro!

Come è profondamente umano tutto ciò: se solo si potesse ricominciare, ritornare al tempo dei primi incontri e all'incanto dei primi baci... Ci si rifugia nel passato (“il fido amor primiero”) o si fugge in avanti, in un futuro salvifico, ma illusorio ("vita, patria e cielo nel tuo seno") pur di esorcizzare il presente, quando questo appare nella sua freddezza desolante! E per Norma affrontare il presente è ancora più difficile che in condizioni analoghe per le altre donne perchè bisogna tener conto del contesto. Non si tratta soltanto di vivere un abbandono, pur sempre molto doloroso e spesso devastante, ma per lei è in gioco la vita stessa e anche quella dei figli, perchè la sua comunità ha regole ben precise per le sacerdotesse che violano il giuramento di castità: la morte. Ma per ora anche questo è rimosso e la vediamo solo abbandonarsi al desiderio di vedere l'amato tornare a lei, come voler continuare il sogno di ebbrezza senza dover rendere conto a nessuno, anzi pensando ancora di utilizzare il potere sacerdotale a suo modo, per i propri fini.

Clicca qui per il testo di "Fine al rito... Ah! bello a me ritorna".

NORMA
Fine al rito.
E il sacro bosco
Sia disgombro dai profani.
Quando il Nume irato e fosco
Chiegga il sangue dei Romani,
Dal druidico delubro
La mia voce tuonerà.

OROVESO E CORO
Tuoni,
E un sol del popolo empio
Non isfugga al giusto scempio;
E primier da noi percosso
Il Proconsole cadrà.

NORMA
Cadrà!
Punirlo io posso.
(Ma punirlo il cor non sa.)

(Ah! Bello a me ritorna
Del fido amor primiero,
E contro il mondo intiero
Difesa a te sarò.
Ah! bello a me ritorna
Del raggio tuo sereno
E vita nel tuo seno
E patria e cielo avrò.)

OROVESO E CORO
Sei lento, sì, sei lento,
O giorno di vendetta,
Ma irato il Dio t'affretta
Che il Tebro condannò!

NORMA
(Ah! riedi ancora qual eri allora,
Quando il cor ti diedi allora,
Qual eri allor, ah, riedi a me!)

OROVESO E CORO
O giorno!
O giorno, il Dio t'affretta
Che il Tebro condannò!

(Tutti escono.)




Joan Sutherland (Norma)
dir: Richard Bonynge (1978)


Maria Callas


Montserrat Caballé


Leyla Gencer

Mariella Devia

15 marzo 2017

Norma (6) - "Casta diva"

Scritto da Marisa

Ed eccoci alla pagina più bella di tutta l'opera, quella che anche chi non conosce la lirica non può non aver sentito qualche volta (grazie anche alla sublime interpretazione della Callas!), tanto è entrata nell'animo e nell'immaginario collettivo. Qui Norma è veramente soltanto la “sacerdotessa”. La donna che abbiamo visto appena poco prima, con tutto il suo carico di angoscia e conflitti, si fa da parte, ed emerge la pura e sacra vergine che rimane ancora intatta dietro ogni possibile errore e contaminazione umana. Il suo canto è una delle preghiere più belle che si siano mai elevate al cielo notturno e all'astro che lo domina: quella luna che continuamente è fonte di ispirazione religiosa e poetica di tutti i tempi. E tutta la vena romantica di Bellini trova la possibilità di dare il meglio di sé, abbandonandosi ad un canto purissimo che ci traporta in un'atmosfera così elevata e magica da farci dimenticare per un po' tutte le bassezze e le meschinità che si consumano sotto il suo placido sguardo.

Sì, perché una delle caratteristiche del romanticismo si fonda proprio sull'amore per la notte in contrapposizione al giorno, per l'oscurità che custodisce i segreti dell'animo e favorisce la fantasticheria, l'immaginazione e la meditazione... La luna è la grande amica dei poeti e degli innamorati. “Pure, io mi volgo altrove: / verso la santa inesprimibile / misteriosa Notte", canta Novalis, uno dei massimi rappresentanti del Romanticismo, nel suo primo "Inno alla notte" (ne ha scritti sei, dopo la morte della sua amata!), dopo aver ricordato i vantaggi del giorno e reso omaggio al sole. E come dimenticare il continuo colloquio tra Leopardi e la luna, unica testimone del dolente suo spirito? Anche tutto il "Tristano" di Wagner si regge sul desiderio da parte degli amanti di prolungare lo spazio notturno, di vivere il più possibile nell'atmosfera emotiva e raccolta che solo la notte permette, sottraendosi allo sguardo troppo crudele del giorno fatto per i doveri legati alle istituzioni e il pragmatismo di una realtà che penalizza il sogno e lo slancio dell'anima. Mai contrasto tra giorno e notte è stato più acutamente sentito! Allo stesso modo sentivano la notte gli amanti adolescenti Romeo e Giulietta: unico rifugio al loro amore che lo spirito di realtà del giorno condannava. Ma al di là di ogni romanticismo, la luna ha sempre avuto nell'immaginario e quindi anche nella simbologia di tutte le religioni la stessa importanza del sole, tanto che spesso i due astri vengono raffigurati come fratello e sorella (Apollo e Diana), rappresentando le divinità che presiedono ai due aspetti fondamentali della psiche: maschile e femminile, attività e passività, Yin e Yang...

Nell'invocazione di Norma la luna appare nel suo aspetto benevolo, come dispensatrice di luce argentea e custode di pace, esattamente speculare al negativo che vediamo dominare in un'altra celeberrima opera in cui la notte ha una importanza cruciale: quella "Turandot" in cui l'apparizione della luna segna l'esecuzione capitale per il giovane principe. Ma di questo abbiamo parlato nel post cui rimando.

“Casta” è l'appellativo che sentiamo come primo attributo alla Dea, e su cui conviene fermarsi un attimo. Perché “casta”? Sappiamo che non tutte le divinità femminili erano vergini e che la promiscuità della “Grande Madre” era quasi d'obbligo, trattandosi dell'origine della fecondità e quindi di ogni possibile generazione, endogamica o esogamica che fosse! Solo tre dee (Atena, Artemide ed Estia) hanno chiesto ed ottenuto dal padre Zeus il privilegio di restare immuni dagli strali di Eros e quindi la possibilità di rimanere vergini, ma si tratta di funzioni psichiche indipendenti dalla libido sessuale e dalle passioni ad essa legate (l'amore per la conoscenza e le arti, lo spirito indomito insito nella natura incontaminata e nella caccia, e il religioso approccio alla fedeltà del “fuoco” che garantisce il perpetuo ardere dell'amore sublimato, che diventa amore per la casa, per la patria e per il tempio). Sicuramente la luna è legata alla sfera archetipica rappresentata da Artemide, la Diana romana, sorella di Apollo, e quindi merita l'appellativo di “casta”. Ma qui, pronunciata da Norma come incipit della preghiera, la parola si colora di nostalgia e di rimpianto: rimpianto da parte della sacerdotessa proprio per quella castità perduta per sempre e tradimento di un giuramento che ora è fonte di tanto dolore e inquietudine.

Ricordiamo ancora che nelle religioni antiche la verginità non era legata a una condizione strettamente anatomo-fisiologica, ma era una condizione squisitamente psichica: la libertà dalla dipendenza dell'uomo attraverso la sessualità e l'asservimento emotivo che la passione porta con sé. L'aspetto vergine della donna consiste, al di là di ogni rapporto sessuale, nella possibilità di conservare la propria autonomia interiore e la libertà di pensiero. In questo senso anche Maria può aver ereditato dalle tre dee pagane l'attributo di “Vergine” pur essendo madre. Il suo rapporto privilegiato è infatti con il divino, di cui si mette al servizio, e non con Giuseppe, il proprio uomo e marito legittimo (da cui per altro, secondo i vangeli apocrifi, pare abbia avuto altri figli, oltre Gesù). Anche l'iconografia fa di Maria l'erede delle antiche dee vergini, raffigurandola con i piedi sulla luna e incoronata di stelle: una vera dea della notte, quindi!

Questo momento incantato dell'apparizione della luna, in cui tutto è sospeso nella preghiera, crea un'atmosfera unica che la musica dilata e fa aleggiare come una benedizione su tutta la terra e placa ogni inquietudine.

Tempra, o Diva,
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancora lo zelo audace.
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.
La seconda strofa della preghiera di Norma dà voce al bisogno di pace e di riconciliazione in tutti i sensi: con sé stessi, con gli altri e con l'intero creato, ripristinando anche in terra l'armonia che vediamo regnare nelle sfere celesti!

Ma la notte non è solo romantica amica dei sogni d'amore o di pace. L'atmosfera notturna qui sottolinea anche il diverso modo di sentire e di vivere non solo il religioso, ma l'organizzazione stessa del ciclo della vita. Infatti il calendario celtico-gallico era prevalentemente lunare (essi calcolavano il tempo, ci dice Cesare, per notti e non per giorni) e Lucano ci informa che i loro riti esigevano uno luogo oscuro, un bosco sacro talmente fitto da garantire con i suoi rami intricati un'aria tenebrosa e gelida, impenetrabile al sole. Inoltre i loro riti si concludevano quasi sempre con sacrifici umani, aboliti poi definitivamente da Tiberio. Da notare anche che la riunione notturna è maggiormente adatta alla cospirazione e qui si stanno covando progetti di rivolta che devono rimanere segreti... Va da sé che il mondo romano è invece tutto proteso alla celebrazione del giorno e della sua gloria, come simbolo di un potere luminoso che vince le tenebre dei barbari. Le stesse insegne romane hanno come simbolo l'aquila: l'animale sacro a Giove e uccello diurno per eccellenza, in grado di guardare direttamente il sole!

Clicca qui per il testo di "Casta diva".

(Norma falcia il vischio; le Sacerdotesse lo raccolgono in canestri di vimini; Norma si avanza e stende le braccia al cielo; la luna splende in tutta la sua luce; tutti si prostrano.)

NORMA
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel!

OROVESO E CORO
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel!

NORMA
Tempra, o Diva,
Tempra tu de' cori ardenti,
Tempra ancor lo zelo audace.
Spargi in terra quella pace
Che regnar tu fai nel ciel.

OROVESO E CORO
Diva, spargi in terra
Quella pace che regnar
Tu fai nel ciel.





Maria Callas (1954)


Maria Callas (1960)


Joan Sutherland


Montserrat Caballé


Leyla Gencer

Renata Tebaldi

12 marzo 2017

Norma (5) - "Norma viene"

Scritto da Marisa

Ed ecco entrare in scena Norma, il personaggio centrale, quella che dà il nome all'intera opera, una delle figure femminili più memorabili e indimenticabili di tutto il repertorio lirico. La sua apparizione era già stata invocata all'inizio da parte del popolo tutto (“Sacro vischio a mietere / Norma verrà?"). Ed ora viene solennemente annunciata: “Norma viene: le cinge la chioma / la verbena ai misteri sacrata; / In sua man come luna falcata / l'aurea falce diffonde splendor".

Abbiamo già precisato che, anche nel mondo celtico dove pur le donne avevano un certo potere come “sacerdotesse”, la funzione sacerdotale massima era appannaggio dei veri Druidi, uomini di alto lignaggio e potere, gli unici addetti al taglio del sacro vischio. Ricordiamo che il vischio era la pianta sacra anche per i Vichinghi, e un suo ramo era stato utilizzato come freccia per uccidere il dio più amato, Balder, in un contesto di gelosia tra fratelli (l'ambiguo Loki!), adempiendo così a pieno il suo ruolo di simbolo di morte e rinascita. Ma questa è un'altra storia... L'attribuire a Norma, in questa opera, un tale ruolo è funzionale ad ingigantirne la portata e rendere più drammatica la vicenda.

Norma ci si presenta subito con tutte insegne del potere sacerdotale e ricorda ai suoi che lei non si lascia intimidire da nessuno perché nessuno può “dettar responsi alla veggente Norma”. Lei sola può leggere negli arcani misteri divini e interpretarne i voleri. Ma capiamo subito che sta abusando del suo potere e manipolando i suoi per non nuocere ai romani e tenere il più possibile l'amante vicino a sé, anche se lo sente ormai emotivamente lontano e sospetta di averne perso l'amore. È la donna innamorata che sta parlando e che utilizza la sacerdotessa per proteggere il proprio uomo! Alle pressanti richieste di Oroveso e dei guerrieri, risponde che per ora i segnali divini sono contrari ad una rivolta armata e che non bisogna sfidare la potenza di Roma, troppo più forte di loro. Ma c'è una profezia in tutto questo trattenere i suoi: ”Della superba Roma è scritto il nome. / Ella un giorno morrà, ma non per voi. / Morrà pei vizi suoi”. Col senno di poi, sappiamo quanto questa profezia sia esatta. Saranno sì i popoli barbarici (Goti, Unni, Vandali...) a far cadere una Roma ormai indebolita dai vizi e dalle effeminatezze, ma questo è troppo lontano per gli impazienti Galli che vorrebbero recuperare subito la libertà e hanno ancor vivo il ricordo del valore di Brenno.

Il problema che emerge però è questo: i responsi divini sono autentiche rivelazioni del destino che si prepara, conoscenze che l'uomo può in qualche modo utilizzare per assecondarlo o prevenirlo, o sono semplici stratagemmi che chi ha un certo potere utilizza per manipolare gli altri, sfruttando la buona fede e la credulità di chi è in una situazione di incertezza e debolezza? La questione è molto complessa. Qui vediamo Norma, come una spregiudicata “maga” dei nostri tempi, manipolare il volere divino per i suoi interessi personali. Ma ricordiamoci che questa è un'opera dell'ottocento, secolo ancora intriso di illuminismo, epoca in cui la fiducia nella razionalità umana e nelle possibilità di un progresso affidato solo alle sue conquiste sono in continua ascesa e la scienza inizia a fare progressi da gigante, anche se il tentativo di mettersi in contatto con il soprannaturale non è mai venuto meno, come dimostra il fiorire delle sedute spiritistiche con tanto di tavolini parlanti!

Per tutta l'antichità, comunque, in ogni tipo di cultura e religione la fiducia nei responsi divini era vivissima e quindi i tentativi di conoscerli e di interpretarli sono stati sempre molto praticati, dalla lettura del volo degli uccelli e delle viscere degli animali sacrificati per gli Etruschi e poi per i Romani, ai responsi sibillini delle sacerdotesse di Apollo a Delfi e a Cuma, o di Zeus a Dodona e Olimpia. Erodoto, come primo storico, ce ne dà ampia testimonianza, raccontando come praticamente non ci si accingeva a nessuna impresa di un certo rilievo senza aver prima consultato qualche oracolo. I sogni poi, come possiamo vedere già dalla Bibbia, hanno sempre avuto un significato profetico, come se un dio parlasse attraverso di essi. Il grande Jung ne darà finalmente un'inquadratura scientifica con la scoperta dell'inconscio collettivo, grande deposito di tutte le esperienze dell'umanità e radice di ogni possibile sviluppo, perché il futuro non può che essere il frutto dei semi depositati in passato, anche se a volte in chiave molto lontana dai nostri desideri e aspettative. Come prevedere quali degli innumerevoli semi si svilupperanno, e in che modo? Solo la storia ce lo dirà, ma intanto qualche sogno può suggerirlo... Nel post “Le carte”, a commento dell'episodio della Carmen, si può leggere qualche altra riflessione sul tentativo di conoscere il destino. Ma mentre a Carmen e alle sue compagne interessa solo il proprio futuro, qui è in gioco il futuro di tutto un popolo!

Clicca qui per il testo di "Norma viene".

(Druidi dal fondo, Sacerdotesse, Guerrieri, Bardi, Eubagi, Sacrificatori, e in mezzo a tutti, Oroveso.)

CORO
Norma viene: le cinge la chioma
La verbena ai misteri sacrata;
In sua man come luna falcata
L'aurea falce diffonde splendor.
Ella viene, e la stella di Roma
Sbigottita si copre d'un velo;
Irminsul corre i campi del cielo
Qual cometa foriera d'orror.

Clicca qui per il testo del recitativo "Sediziose voci".

(Entra Norma in mezzo alle sue ministre. Ha sciolto i capelli, la fronte circondata di una corona di verbena, ed armata la mano d'una falce d'oro. Si colloca sulla pietra druidica, e volge gli occhi d'intorno come ispirata. Tutti fanno silenzio.)

NORMA
Sediziose voci, voci di guerra
Avvi chi alzarsi attenta
Presso all'ara del Dio?
V'ha chi presume
Dettar responsi alla veggente Norma,
E di Roma affrettar il fato arcano?
Ei non dipende, no, non dipende
Da potere umano.

OROVESO
E fino a quando oppressi
Ne vorrai tu?
Contaminate assai
Non fur le patrie selve
E i templi aviti
Dall'aquile latine?
Omai di Brenno oziosa
Non può starsi la spada.

UOMINI
Si brandisca una volta!

NORMA
E infranta cada.
Infranta, sì, se alcun di voi snudarla
Anzi tempo pretende.
Ancor non sono della nostra vendetta
I dì maturi.
Delle sicambre scuri
Sono i pili romani ancor più forti.

OROVESO E UOMINI
E che t'annunzia il Dio?
Parla! Quai sorti?

NORMA
Io ne' volumi arcani leggo del cielo,
In pagine di morte
Della superba Roma è scritto il nome.
Ella un giorno morrà,
Ma non per voi.
Morrà pei vizi suoi,
Qual consunta morrà.
L'ora aspettate, l'ora fatal
Che compia il gran decreto.
Pace v'intimo…
E il sacro vischio io mieto.




"Norma viene"
dir: Lu Jia (2014)


"Norma viene"
dir: Tullio Serafin (1953)

"Sediziose voci"
Maria Callas (1952)

9 marzo 2017

Norma (4) - "Meco all'altar di Venere"

Scritto da Marisa

Il secondo personaggio che ci si presenta è il proconsole romano, Pollione, che sta spiando e attendendo il momento in cui gli altri si ritirano per avvicinarsi all'altare e cercare di vedere Adalgisa, la giovane sacerdotessa di cui si è recentemente invaghito, stanco ormai dell'amore di Norma. Già dalle prime battute vediamo che i valori sono completamente capovolti e che quello che per i primi è sacro, per gli altri, i conquistatori, è fonte di biasimo e disprezzo, se non di pura malvagità e orrore. A cominciare dal bosco che per i celti è luogo sacro ed epifania del divino, e che per il proconsole romano è solo “orrenda selva”, prova della barbarie di un popolo che invece di costruire templi adora i propri dèi su altari di pietra in mezzo ai boschi.

Il disprezzo per i riti dei “barbari” non impedisce a Pollione di concupire le loro donne, soprattutto le sacerdotesse, incurante del fatto che sedurle voglia dire costringerle a violare il giuramento più sacro per esse: la castità. Eppure dovrebbe sapere che anche a Roma esiste tale giuramento per le Vestali, le custodi del sacro fuoco che arde nel tempio di Vesta, a garanzia della pace sia domestica che di tutto lo stato. Ma del giuramento di sacerdotesse straniere, per un vincitore, non occorre tener nessun conto, anzi l'orgoglio maschile di vincere col proprio fascino un cuore votato a un dio ne esce rinforzato e il gioco è sicuramente molto eccitante! Del resto Pollione non è riuscito a sedurre persino Norma, la sacerdotessa suprema e figlia del re? E come potrebbe fallire con una giovane e inesperta novizia, se utilizza la stessa tecnica e – come vedremo, attraverso il ricordo di Norma – le medesime parole?

Ma nonostante l'arroganza del conquistatore, Pollione non è tranquillo e, alla domanda dell'amico che gli ricorda la presenza di Norma e dei figli avuti da lei come ostacolo al nuovo amore, confessa di esserne terrorizzato (“Piè mi veggo l'abisso aperto, e in lui m'avvento io stesso”). Semplicemente cerca di rimuovere il tutto, di non pensarci, attribuendo solo a un dio la responsabilità di pulsioni che non ha alcuna intenzione di controllare, anche se ammette di provare rimorso pensando a Norma. Ed ecco che quello che cerca di rimuovere gli arriva in sogno; un sogno in cui vede il suo desiderio di portare Adalgisa a Roma e sposarla nel tempio di Venere distrutto dalla vendetta di Norma che lo raggiunge come un demone, volando e facendo scempio di lui e dei figli... Freud era ancora lontano con la sua “Interpretazione dei sogni”, pubblicata solo all'inizio del Novecento (quel XX secolo iniziato sotto le migliori speranze di progresso e conoscenza illuminata e proseguito nello sprofondamento nella barbarie peggiore mai sperimentata dall'uomo!), ma possiamo vedere con facilità il gioco dello smascheramento dell'inconscio: ciò che rimuoviamo di giorno ci viene ripresentato di notte come incubo, aggravato e amplificato! Anche nella "Cenerentola" di Rossini c'è, seppure in chiave comica, un sogno rivelatore, quando vediamo Don Magnifico svegliato nel bel mezzo di un sogno che ne smaschera la megalomania e le illusorie aspettative e che egli travisa a suo piacimento! Qui Pollione intende bene l'avvertimento, ma decide di non tenerne conto, perché non vuol rinunciare al godimento della pulsione. Al bando ogni Super-io! Per ora l'importante è vincere le resistenze della fanciulla, conquistarla in ogni modo e non pensare alle proprie responsabilità nei confronti di Norma e dei figli.

Pollione è talmente sicuro, essendo dalla parte dei vincitori, di potersi permettere tutto che, nella sua libidine, si sente giustificato da un dio stesso pronto a prendere le sue parti contro tutto quello che per i nemici “barbari” è sacro ricorrendo anche alla violenza. Con che piglio, anche per dissipare i dubbi e la paura che vuol negare, lo sentiamo declamare:

Me protegge, me difende
un poter maggior di loro.
È il pensier di lei che adoro,
è l'amor che m'infiammò.
Di quel Dio che a me contende
quella vergine celeste,
arderò le rie foreste,
l'empio altare abbatterò.
Non stiamo forse assistendo alla solita arroganza dei conquistatori che utilizzano anche la religione per il soddisfacimento dei loro istinti (sessuali o di potere), dichiarando “empi” e malvagi o semplicemente falsi idoli le divinità dei vinti, soprattutto se si oppongono ai loro desideri?

Ma il profilo psicologico di Pollione pesca anche nell'onnipresente archetipo del seduttore immortalato da Mozart nel suo “Don Giovanni”, e ne vedremo le somiglianze e le differenze, visto che Pollione ne ricalca solo alcuni aspetti. Per ora i punti in comune già evidenti sono il proposito di non fermarsi davanti a nessun ostacolo, sia pure una divinità (per Don Giovanni il primo ostacolo è stato il padre di Donna Anna, diventato poi un vero dio vendicatore), il liberarsi dalla gelosia e dalla vendetta di Norma tradita (come Donna Elvira, che “vuol strappargli il cor”) e la passione per una vergine, che tra tutte, è anche "la passion predominante" nel libertino mozartiano!

Clicca qui per il testo di "Svanir le voci... Meco all'altar di Venere".

(Escono da un lato Flavio e Polline guardinghi e ravvolti nelle loro toghe.)

POLLIONE
Svanir le voci!
E dell'orrenda selva
Libero è il varco.

FLAVIO
In quella selva è morte
Norma tel disse.

POLLIONE
Profferisti un nome
Che il cor m'agghiaccia.

FLAVIO
Oh, che di' tu?
L'amante!
La madre de' tuoi figli!

POLLIONE
A me non puoi far tu rampogna,
Ch'io mertar non senta.
Ma nel mio core è spenta
La prima fiamma,
E un Dio la spense,
Un Dio nemico al mio riposo
Ai piè mi veggo l'abisso aperto,
E in lui m'avvento io stesso.

FLAVIO
Altra ameresti tu?

POLLIONE
Parla sommesso …
Un'altra, sì … Adalgisa …
Tu la vedrai …
Fior d'innocenza e riso,
Di candore e d'amor.
Ministra al tempio
Di questo Dio di sangue,
Ella v'appare
Come raggio di stella in ciel turbato.

FLAVIO
Misero amico! E amato
Sei tu del pari?

POLLIONE
Io n'ho fidanza.

FLAVIO
E l'ira
Non temi tu di Norma?

POLLIONE
Atroce, orrenda me la presenta
Il mio rimorso estremo …
Un sogno …

FLAVIO
Ah! Narra.

POLLIONE
In rammentarlo io tremo.

Meco all'altar di Venere
Era Adalgisa in Roma,
Cinta di bende candide,
Sparsa di fior la chioma;
Udia d'Imene i cantici,
Vedea fumar gl'incensi,
Eran rapiti i sensi
Di voluttade e amore.
Quando fra noi terribile
Viene a locarsi un'ombra
L'ampio mantel druidico
Come un vapor l'ingombra;
Cade sull'ara il folgore,
D'un vel si copre il giorno,
Muto si spande intorno
Un sepolcrale orror.
Più l'adorata vergine
Io non mi trovo accanto;
N'odo da lunge un gemito
Misto de' figli al pianto …
Ed una voce orribile
Echeggia in fondo al tempio
Norma così fa scempio
D'amante traditor!

(Squilla il sacro bronzo.)

FLAVIO
Odi? I suoi riti a compiere
Norma dal tempio move.

DRUIDI
(lontani)
Sorta è la Luna, o Druidi.
Ite, profani, altrove,
Ite altrove, ite altrove!

FLAVIO
Vieni…

POLLIONE
Mi lascia.

FLAVIO
Ah, m'ascolta!

POLLIONE
Barbari!

FLAVIO
Fuggiam…

POLLIONE
Io vi proverrò!

FLAVIO
Vieni… Fuggiam…
Scoprire alcun ti può.

POLLIONE
Traman congiure i barbari,
Ma io li preverrò!

FLAVIO
Ah! Vieni, fuggiam…
Sorprendere alcun ti può.

DRUIDI
(lontani)
Ite, profani, altrove.

POLLIONE
Me protegge, me difende
Un poter maggior di loro
È il pensier di lei che adoro,
È l'amor che m'infiammò.
Di quel Dio che a me contende
Quella vergine celeste,
Arderò le rie foreste,
L'empio altare abbatterò.

FLAVIO
Vieni, vieni …
Scoprire alcun ti può …
Vieni… Fuggiam…

DRUIDI
(sempre lontani)
Sorta è la Luna, o Druidi.
Ite, profani, altrove,
Ite altrove.

POLLIONE
Traman congiure i barbari,
Ma io li preverrò!

(Pollione e Flavio partono rapidamente.)




Franco Corelli


Mario Filippeschi


Mario Del Monaco

Giuseppe Giacomini

6 marzo 2017

Norma (3) - "Ite sul colle, o Druidi"

Scritto da Marisa

L'opera inizia in un contesto notturno, in territorio gallo-celtico, in un momento non ben precisato durante la conquista di quasi tutta l'Europa meridionale da parte di Roma nella sua inarrestabile espansione, ma sicuramente dopo le imprese di Cesare perché la capitale viene identificata proprio come “Città dei Cesari”. Ci si presentano subito due motivi importanti: la notte e la contrapposizione di due popoli, due mondi con mentalità e religioni diverse in un momento in cui uno sta sopraffacendo l'altro...
Vedremo in un post successivo il grande significato della notte in tutte le sue valenze, sia positive che negative, di elementi simbolici che fanno da contraltare al mondo solare e diurno dei romani. Concentriamoci ora sull'esortazione di Oroveso, capo della sua gente e padre di Norma, di andare sul colle ad aspettare il sorgere della luna per cogliere il segnale di un possibile momento favorevole, stabilito dal dio Irminsul, ad iniziare la rivolta contro l'invasore romano. La rabbia è tanta e non mancano il coraggio e il desiderio di ricacciare il nemico da dove è venuto, ma bisogna aspettare il permesso degli dei e il loro aiuto in tale impresa. Senza il loro benestare, ogni sforzo umano è non solo inutile ma anzi distruttivo perché destinato a ritorcersi contro. Oroveso li apostrofa “druidi”, ma in realtà si tratta di guerrieri, pronti ed impazienti a combattere. I druidi erano invece sacerdoti, i “sapientissimi della quercia”, come il loro stesso nome indica, e costituivano la classe superiore del clero organizzata in una sorta di confraternita con potere giudiziario, detentori dei segreti della scienza e consiglieri del re. A loro esclusivamente spettava l'onore (e non quindi ad una sacerdotessa come Norma) di recidere con un falcetto d'oro il sacro vischio, pianta quanto mai sacra perché simbolo di vita oltre la morte, presenza del divino nella natura e garanzia dell'immortalità dell'anima.

Siamo quindi immediatamente scaraventati in un mondo immerso nel “religioso” e nel “mistico”, dove tutto è regolato dal divino e dal rapporto che l'uomo ha con la natura. E in effetti era proprio così. Quello che sappiamo dei celti (per i territori della Gallia le fonti sono principalmente i vincitori stessi: Cesare, Posidonio, Strabone, Diodoro, Lucano, Plinio il vecchio, oltre alle testimonianze dirette dei siti archeologici; il tutto rielaborato da studiosi del calibro di Dumézil e Dillon, per citarne solo due) è che erano un popolo profondamente permeato dal sacro in tutte le manifestazioni di vita, con culti di rocce, sorgenti, alberi, alture, animali, a rappresentanza di forze divine locali. Ma adoravano anche numerosi dei e dee, raggruppabili principalmente intorno a tre: Taranis (forse simile a Mercurio o, per i suoi attributi di sovranità e potere, a Giove), Teutates (potenza guerriera assimilabile a Marte), Epona-Trivia (dea lunare, grande madre, sintesi di tante divinità femminili). Facevano anche sacrifici umani (ne resta testimonianza nella raffigurazione del "Bacile di Gundestrup") ed avevano un grande culto dei morti.
Irminsul, di cui parla Oroveso, in realtà non è un vero dio, ma un simbolo sacro, una colonna, stilizzazione dell'albero cosmico, forse l'equivalente di Yggdrasill, il frassino sacro ad Odino, pilastro del mondo, nella mitologia norrena. Quello più famoso è stato abbattuto da Carlo Magno nel 772, per sradicare completamente i resti dei culti pagani, presso la fortezza sassone di Eresburg.

La culla dei celti è probabilmente la regione situata tra il Reno e la Boemia. Essi parlavano una lingua indoeuropea i cui resti sono il gaelico d'Irlanda e di Scozia e il bretone del Galles e della Bretagna. A partire dal V secolo a.C., i celti avevano conosciuto una notevole espansione, grazie ad un eccellente uso del ferro, fino ad occupare la Spagna, la Gallia, l'Italia del nord, l'Austria, l'Ungheria e la Romania. Attraverso la Grecia e la Bulgaria, arrivarono fino all'Asia Minore dove fondarono il regno di Galazia, introducendovi anche il loro linguaggio. Verso il 385 a.C. conquistarono anche Roma (il primo famoso sacco di Roma!) con il leggendario Brenno, ma a poco a poco, dopo la riscossa, i Romani occuparono la maggior parte dei loro territori e i celti praticamente conservarono solo le isole britanniche, dove erano passati già dal V secolo in ondate successive. I celti non hanno mai formato una nazione né un impero (e forse questa mancanza di un centro di potere forte li ha resi non idonei a mantenere le loro conquiste) ma avevano una forma di pre-urbanesimo ed erano organizzati in tribù. Ciò nondimeno, in tutta la storia dell'Europa antica esiste un indubbio sostrato celtico. Purtroppo di questi antichi resti e soprattutto dei simboli celtici (la svastica, simbolo solare, e il sacro Irminsul, albero e pilastro del mondo) si sono impadroniti i nazisti per il loro uso perverso.

Nonostante il tentativo di minimizzare l'umiliazione subita da Roma nel sacco del 385 a.C. con le leggende delle oche capitoline e del coraggio dell'indomito Furio Camillo (rispetto all'avidità di Brenno che cercava solo l'oro), nell'orgoglio romano è sempre rimasta una ferita con la conseguente necessità di demonizzare e screditare i nemici, cosa che del resto fa ogni vincitore, cercando anche di distruggerne l'identità imponendo i propri costumi e le proprie tradizioni religiose.

L'opera di Bellini ci porta direttamente nel pieno dell'espansione romana e ci fa assistere al punto di vista degli oppressi, nel cuore stesso della tribù invasa ma non vinta nell'animo. Anche quando sembrano piegare la testa, i celti covano in cuore la vendetta e il sogno di ricacciare indietro l'invasore, emulando forse l'impresa di Brenno... Ricordiamo che all'epoca della rappresentazione di “Norma”, alla prima della Scala del 26 dicembre del 1831, Milano e tutto il lombardo-veneto erano sotto la dominazione austriaca. E questa opera intrisa di rivalsa di un popolo oppresso e dell'invito alla rivolta poteva essere intesa come incitazione alla ribellione e a rinforzare quello spirito patriottico che si stava formando e di cui Verdi sarà l'indiscusso animatore. Ma all'epoca non venne intesa così, e dopo l'insuccesso della prima rappresentazione, dovuta più a cause incidentali che ad un vero rifiuto da parte del pubblico, l'opera ha ricevuto un sempre più acceso plauso anche da parte della classe politica dominante, compresi gli stessi austro-ungarici, gli “oppressori” di allora. Forse perché il sostrato celtico li galvanizzava inconsciamente già allora o forse perché la melodia belliniana faceva vibrare maggiormente le corde sentimentali concentrando l'attenzione sulle vicende intime di Norma?

Clicca qui per il testo di "Ite sul colle, o Druidi".

(Foresta sacra de' Druidi. In mezzo la quercia d'Irminsul, al piè della quale vedesi la pietra druidica che serve d'altare. Colli in distanza sparsi di selve. È notte; lontani fuochi trapelano dai boschi. Al suono di marcia religiosa diffilano le schiere de' Galli, indi la processione de' Druidi. Per ultimo Oroveso coi maggiori Sacerdoti.)

OROVESO
Ite sul colle, o Druidi,
Ite a spiar ne' cieli
Quando il suo disco argenteo
La nuova Luna sveli!
Ed il primier sorriso
Del virginal suo viso
Tre volte annunzi il mistico
Bronzo sacerdotal!

DRUIDI
Il sacro vischio a mietere
Norma verrà?

OROVESO
Sì, Norma, sì verrà.

DRUIDI
Verrà, verrà.

OROVESO
Sì, sì.

DRUIDI
Dell'aura tua profetica,
Terribil Dio, l'informa!
Sensi, o Irminsul, le inspira
D'odio ai Romani e d'ira,
Sensi che questa infrangano
Pace per noi mortal, sì!

OROVESO
Sì. Parlerà terribile
Da queste quercie antiche,
Sgombre farà le Gallie
Dall'aquile nemiche,
E del suo scudo il suono,
Pari al fragor del tuono,
Nella città dei Cesari
Tremendo echeggerà!

OROVESO E DRUIDI
Luna, t'affretta sorgere!
Norma all'altar verrà!
O Luna, t'affretta!

(Si allontanano tutti e si perdono nella foresta; di quando in quando si odono le loro voci risuonare in lontananza.)




Giorgio Giuseppini (Oroveso)
dir: Lu Jia (2014)


Nicola Moscona (Oroveso)
dir: Arturo Toscanini (1945)

Cesare Siepi (Oroveso)
dir: Richard Bonynge (1970)

4 marzo 2017

Norma (2) - Sinfonia

Scritto da Christian

Prima di tuffarci nell'opera vera e propria, qualche parola sull'ouverture. La sinfonia della "Norma" è un brano vivace ed energico, che presenta qualche riferimento allo stile rossiniano (dalla partenza esplosiva al concitato tema in sol minore con il ribattuto degli archi) ma che cambia improvvisamente direzione in una sezione finale (stavolta in sol maggiore) assai diversa, più elegiaca e ricca di pathos, grazie anche all'utilizzo dell'arpa e dei fiati. Nel suo insieme, sottolinea bene e in maniera suggestiva i contrasti fra i caratteri e le psicologie dei vari personaggi: si passa infatti da un tema marziale e solenne (per i guerrieri e i sacerdoti) a uno più "romantico" e contemplativo.


dir: Daniel Harding (2011)


dir: Riccardo Muti (1977)

dir: James Levine (1973)


La sinfonia della Norma è usata come colonna sonora nel film "Casa Ricordi" (1954) di Carmine Gallone, nella scena della morte di Bellini.



Questo mi sembra un posto buono come un altro per proporre anche le "Reminiscences de Norma", brano per pianoforte composto da Franz Liszt e ispirato ai temi dell'opera di Bellini.


pianista: Zoltan Kocsis (1987)

1 marzo 2017

Norma (1) - Introduzione

Scritto da Marisa

Norma
Tragedia lirica in due atti
Libretto di Felice Romani
Musica di Vincenzo Bellini

Prima rappresentazione: Milano (Teatro alla Scala),
26 dicembre 1831

Personaggi e voci:
- Norma (soprano), druidessa, figlia di Oroveso
- Adalgisa (soprano o mezzosoprano), giovine ministra del tempio d'Irminsul
- Pollione (tenore), proconsole di Roma nelle Gallie
- Oroveso (basso), capo dei druidi
- Clotilde (soprano), confidente di Norma
- Flavio (tenore), amico di Pollione
- Due fanciulli, figli di Norma e Pollione
- Cori e comparse: Druidi, bardi, eubagi, sacerdotesse, guerrieri e soldati galli



Nel mondo della lirica Vincenzo Bellini conserva ancora un posto di primissimo piano e la vena melodica di cui è maestro continua a risuonare pura e limpida attraverso il tempo. Tutte le tempeste che pur intessono le sue opere non fanno che aumentarne il fascino, così come la sua giovanissima esistenza, stroncata a soli 34 anni, alimenta il culto dell'artista geniale ed eternamente “caro agli dei” proprio grazie alla morte precoce. Non si nutre il romanticismo forse di cieli tempestosi (Sturm und Drang!) e di eroi morti giovani? E Bellini è veramente uno dei suoi figli prediletti.
Heinrich Heine lo descrive così: «Egli aveva una figura alta e slanciata e moveva graziosamente e in modo, starei per dire, civettuolo. Viso regolare, piuttosto lungo, d'un rosa pallido; capelli biondi, quasi dorati, pettinati a riccioli radi; fronte alta, molto alta e nobile; naso diritto; occhi azzurri, pallidi; bocca ben proporzionata; mento rotondo. I suoi lineamenti avevano un che di vago, di privo di carattere, di latteo, e in codesto viso di latte affiorava a tratti, agrodolce, un'espressione di dolore». Una specie di “angelo-demone” quindi, che invia ancora il suo melodioso canto (“il cigno catanese...”) attraverso i secoli, canto di amore e morte, nostalgia e struggimento, passioni e rapimenti estatici, come sono i veri canti della vita nella sua complessa e contraddittoria natura.

Di tutte le opere di Bellini, non tante per la verità (solo dieci, visto che sceglieva con cura i lavori e poteva permettersi il lusso di dedicare il tempo necessario per portarli alla perfezione: ma ricordiamo che per “Norma” gli serviranno solo tre mesi!), la più amata e resa celebre dai più grandi soprani è certamente questa. E nonostante la difficoltà insita dal fatto che su di essa si è già scritto tantissimo e quindi sembra che tutto sia stato già detto, ci occuperemo proprio di lei, cercando – spero – degli angoli di lettura un po' meno frequentati e scontati.

L'opera, su libretto di Felice Romani (che si ispirò a una tragedia del contemporaneo poeta francese Alexandre Soumet, "Norma, ou L'infanticide", a sua volta ispirata a "I martiri" di Chateaubriand, oltre che ovviamente alla "Medea" di Euripide), fu composta come dicevamo in meno di tre mesi, tra il settembre e il novembre del 1831. Per la prima rappresentazione, Bellini poté contare su un cast di tutto rispetto: nel ruolo della protagonista, il soprano Giuditta Pasta, una vera e propria primadonna con stuoli di ammiratori (e di detrattori). La prima Adalgisa fu Giulia Grisi, mentre per Pollione venne ingaggiato il tenore rossiniano Domenico Donzelli. Nonostante tutto, la prima alla Scala fu un fiasco, anche per la presenza (come capitava spesso all'epoca) di "disturbatori" fra il pubblico ostili al compositore e al soprano. Gli spettatori rimasero inoltre spiazzati dagli elementi innovativi del melodramma, come – cito da Wikipedia – "l'inconsueta severità della drammaturgia e l'assenza del momento più sontuoso, il concertato che tradizionalmente chiudeva il primo dei due atti". La seconda rappresentazione, tuttavia, andò meglio, e nel giro di poco tempo l'opera si conquistò una tale ammirazione da diventare ben presto una delle più popolari del teatro lirico italiano, nonché uno dei più brillanti esempi del cosiddetto "bel canto".

Il successo di "Norma" (e, in particolare, dell'aria "Casta diva", destinata a diventare uno dei brani lirici più celebri di tutti i tempi) è da allora andato in continuo crescendo. Nel 1837 veniva rappresentata a Riga, con la direzione di Richard Wagner che per l'occasione scrisse un'aria aggiuntiva per basso e coro, che tuttavia non è entrata nel repertorio. Nella seconda metà del ventesimo secolo la popolarità dell'opera è legata a quella della sua interprete più famosa, Maria Callas, che ne fece uno dei suoi ruoli simbolo. Quanto ad Adalgisa, se nella partitura originale la sua parte era stata scritta per un soprano, con il tempo è invalsa la consuetudine di farne cantare il ruolo a un mezzosoprano, forse per differenziare vocalmente i due personaggi femminili. Sempre Wikipedia nota la "contraddizione, in termini di stilemi musicali e drammatici romantici, di affidare il colore verginale della giovane sacerdotessa al registro brunito dei mezzosoprani, di regola evocativo di sensualità e voluttà, mentre rimaneva appannaggio del soprano il personaggio più maturo e psicologicamente screziato di Norma, la cui parte, per di più, è caratterizzata da una maggiore estensione verso il basso".

Per la figura della protagonista, oltre all'inevitabile confronto con Euripide e la sua Medea, nella nostra analisi cercheremo l'aiuto della psicologia del profondo nell'esplorare i temi dell'amicizia/rivalità nel mondo femminile e la solitudine di chi deve custodire un segreto pericoloso in un contesto religioso-culturale in cui si è particolarmente esposti, oltre naturalmente al conflitto che si scatena in un cuore orgoglioso, ancora innamorato e tradito.

Il contesto storico in cui è situata la vicenda ci darà l'occasione per dire qualcosa sull'affascinante mondo dell'Europa preromana e su quella grande civiltà gallo-celtica, la cui conoscenza per troppi di noi è ormai quasi completamente affidata alle immagini che ci vengono dal pur simpatico ma riduttivo mondo dei fumetti creati da René Goscinny e Albert Uderzo, con le indimenticabili figure di Asterix, Obelix e Panoramix. L'incontro-scontro tra due civiltà così diverse, infatti, non è affatto estraneo a tutta la vicenda, ma ne supporta e allarga i confini facendo assurgere il dramma personale a dramma epocale, prototipo di ogni grande tragedia storica di sopraffazione di una civiltà dominante su un'altra, pur conservando l'opera tutta l'intimità e la particolarità del caso individuale e della segretezza dell'anima. E questo mirabile intrecciarsi dei vari piani, storico, collettivo e personale, è uno dei miracoli della melodia belliniana, in realtà di tutta la vera arte.


Alcune delle incisioni più celebri:















Link utili:

Articolo su Wikipedia in italiano
Articolo su Wikipedia in inglese
Libretto
Partitura