6 marzo 2017

Norma (3) - "Ite sul colle, o Druidi"

Scritto da Marisa

L'opera inizia in un contesto notturno, in territorio gallo-celtico, in un momento non ben precisato durante la conquista di quasi tutta l'Europa meridionale da parte di Roma nella sua inarrestabile espansione, ma sicuramente dopo le imprese di Cesare perché la capitale viene identificata proprio come “Città dei Cesari”. Ci si presentano subito due motivi importanti: la notte e la contrapposizione di due popoli, due mondi con mentalità e religioni diverse in un momento in cui uno sta sopraffacendo l'altro...
Vedremo in un post successivo il grande significato della notte in tutte le sue valenze, sia positive che negative, di elementi simbolici che fanno da contraltare al mondo solare e diurno dei romani. Concentriamoci ora sull'esortazione di Oroveso, capo della sua gente e padre di Norma, di andare sul colle ad aspettare il sorgere della luna per cogliere il segnale di un possibile momento favorevole, stabilito dal dio Irminsul, ad iniziare la rivolta contro l'invasore romano. La rabbia è tanta e non mancano il coraggio e il desiderio di ricacciare il nemico da dove è venuto, ma bisogna aspettare il permesso degli dei e il loro aiuto in tale impresa. Senza il loro benestare, ogni sforzo umano è non solo inutile ma anzi distruttivo perché destinato a ritorcersi contro. Oroveso li apostrofa “druidi”, ma in realtà si tratta di guerrieri, pronti ed impazienti a combattere. I druidi erano invece sacerdoti, i “sapientissimi della quercia”, come il loro stesso nome indica, e costituivano la classe superiore del clero organizzata in una sorta di confraternita con potere giudiziario, detentori dei segreti della scienza e consiglieri del re. A loro esclusivamente spettava l'onore (e non quindi ad una sacerdotessa come Norma) di recidere con un falcetto d'oro il sacro vischio, pianta quanto mai sacra perché simbolo di vita oltre la morte, presenza del divino nella natura e garanzia dell'immortalità dell'anima.

Siamo quindi immediatamente scaraventati in un mondo immerso nel “religioso” e nel “mistico”, dove tutto è regolato dal divino e dal rapporto che l'uomo ha con la natura. E in effetti era proprio così. Quello che sappiamo dei celti (per i territori della Gallia le fonti sono principalmente i vincitori stessi: Cesare, Posidonio, Strabone, Diodoro, Lucano, Plinio il vecchio, oltre alle testimonianze dirette dei siti archeologici; il tutto rielaborato da studiosi del calibro di Dumézil e Dillon, per citarne solo due) è che erano un popolo profondamente permeato dal sacro in tutte le manifestazioni di vita, con culti di rocce, sorgenti, alberi, alture, animali, a rappresentanza di forze divine locali. Ma adoravano anche numerosi dei e dee, raggruppabili principalmente intorno a tre: Taranis (forse simile a Mercurio o, per i suoi attributi di sovranità e potere, a Giove), Teutates (potenza guerriera assimilabile a Marte), Epona-Trivia (dea lunare, grande madre, sintesi di tante divinità femminili). Facevano anche sacrifici umani (ne resta testimonianza nella raffigurazione del "Bacile di Gundestrup") ed avevano un grande culto dei morti.
Irminsul, di cui parla Oroveso, in realtà non è un vero dio, ma un simbolo sacro, una colonna, stilizzazione dell'albero cosmico, forse l'equivalente di Yggdrasill, il frassino sacro ad Odino, pilastro del mondo, nella mitologia norrena. Quello più famoso è stato abbattuto da Carlo Magno nel 772, per sradicare completamente i resti dei culti pagani, presso la fortezza sassone di Eresburg.

La culla dei celti è probabilmente la regione situata tra il Reno e la Boemia. Essi parlavano una lingua indoeuropea i cui resti sono il gaelico d'Irlanda e di Scozia e il bretone del Galles e della Bretagna. A partire dal V secolo a.C., i celti avevano conosciuto una notevole espansione, grazie ad un eccellente uso del ferro, fino ad occupare la Spagna, la Gallia, l'Italia del nord, l'Austria, l'Ungheria e la Romania. Attraverso la Grecia e la Bulgaria, arrivarono fino all'Asia Minore dove fondarono il regno di Galazia, introducendovi anche il loro linguaggio. Verso il 385 a.C. conquistarono anche Roma (il primo famoso sacco di Roma!) con il leggendario Brenno, ma a poco a poco, dopo la riscossa, i Romani occuparono la maggior parte dei loro territori e i celti praticamente conservarono solo le isole britanniche, dove erano passati già dal V secolo in ondate successive. I celti non hanno mai formato una nazione né un impero (e forse questa mancanza di un centro di potere forte li ha resi non idonei a mantenere le loro conquiste) ma avevano una forma di pre-urbanesimo ed erano organizzati in tribù. Ciò nondimeno, in tutta la storia dell'Europa antica esiste un indubbio sostrato celtico. Purtroppo di questi antichi resti e soprattutto dei simboli celtici (la svastica, simbolo solare, e il sacro Irminsul, albero e pilastro del mondo) si sono impadroniti i nazisti per il loro uso perverso.

Nonostante il tentativo di minimizzare l'umiliazione subita da Roma nel sacco del 385 a.C. con le leggende delle oche capitoline e del coraggio dell'indomito Furio Camillo (rispetto all'avidità di Brenno che cercava solo l'oro), nell'orgoglio romano è sempre rimasta una ferita con la conseguente necessità di demonizzare e screditare i nemici, cosa che del resto fa ogni vincitore, cercando anche di distruggerne l'identità imponendo i propri costumi e le proprie tradizioni religiose.

L'opera di Bellini ci porta direttamente nel pieno dell'espansione romana e ci fa assistere al punto di vista degli oppressi, nel cuore stesso della tribù invasa ma non vinta nell'animo. Anche quando sembrano piegare la testa, i celti covano in cuore la vendetta e il sogno di ricacciare indietro l'invasore, emulando forse l'impresa di Brenno... Ricordiamo che all'epoca della rappresentazione di “Norma”, alla prima della Scala del 26 dicembre del 1831, Milano e tutto il lombardo-veneto erano sotto la dominazione austriaca. E questa opera intrisa di rivalsa di un popolo oppresso e dell'invito alla rivolta poteva essere intesa come incitazione alla ribellione e a rinforzare quello spirito patriottico che si stava formando e di cui Verdi sarà l'indiscusso animatore. Ma all'epoca non venne intesa così, e dopo l'insuccesso della prima rappresentazione, dovuta più a cause incidentali che ad un vero rifiuto da parte del pubblico, l'opera ha ricevuto un sempre più acceso plauso anche da parte della classe politica dominante, compresi gli stessi austro-ungarici, gli “oppressori” di allora. Forse perché il sostrato celtico li galvanizzava inconsciamente già allora o forse perché la melodia belliniana faceva vibrare maggiormente le corde sentimentali concentrando l'attenzione sulle vicende intime di Norma?

Clicca qui per il testo di "Ite sul colle, o Druidi".

(Foresta sacra de' Druidi. In mezzo la quercia d'Irminsul, al piè della quale vedesi la pietra druidica che serve d'altare. Colli in distanza sparsi di selve. È notte; lontani fuochi trapelano dai boschi. Al suono di marcia religiosa diffilano le schiere de' Galli, indi la processione de' Druidi. Per ultimo Oroveso coi maggiori Sacerdoti.)

OROVESO
Ite sul colle, o Druidi,
Ite a spiar ne' cieli
Quando il suo disco argenteo
La nuova Luna sveli!
Ed il primier sorriso
Del virginal suo viso
Tre volte annunzi il mistico
Bronzo sacerdotal!

DRUIDI
Il sacro vischio a mietere
Norma verrà?

OROVESO
Sì, Norma, sì verrà.

DRUIDI
Verrà, verrà.

OROVESO
Sì, sì.

DRUIDI
Dell'aura tua profetica,
Terribil Dio, l'informa!
Sensi, o Irminsul, le inspira
D'odio ai Romani e d'ira,
Sensi che questa infrangano
Pace per noi mortal, sì!

OROVESO
Sì. Parlerà terribile
Da queste quercie antiche,
Sgombre farà le Gallie
Dall'aquile nemiche,
E del suo scudo il suono,
Pari al fragor del tuono,
Nella città dei Cesari
Tremendo echeggerà!

OROVESO E DRUIDI
Luna, t'affretta sorgere!
Norma all'altar verrà!
O Luna, t'affretta!

(Si allontanano tutti e si perdono nella foresta; di quando in quando si odono le loro voci risuonare in lontananza.)




Giorgio Giuseppini (Oroveso)
dir: Lu Jia (2014)


Nicola Moscona (Oroveso)
dir: Arturo Toscanini (1945)

Cesare Siepi (Oroveso)
dir: Richard Bonynge (1970)