28 ottobre 2010

Turandot (4) - La luna

Scritto da Marisa

Non possiamo capire "Turandot" se non teniamo conto dell'atmosfera in cui si svolge. Non parlo dell'ambientazione orientale, le cineserie, come erano chiamate ai tempi in cui Carlo Gozzi scrisse la favola e in cui andavano di moda. Questa serve solo a creare distanza, a collocare la storia "lontano, lontano..." e illo tempore, come deve essere in tutte le favole per far emergere meglio alla distanza il loro significato universale. Parlo invece dell'atmosfera, del momento temporale in cui è posta la vicenda e che si rivela fondamentale per il suo significato simbolico.
Ebbene, l'opera inizia a sera inoltrata, in piena atmosfera lunare – in realtà la luna non è ancora sorta, la stanno aspettando invocandola ("Perché tarda la luna?") – e si svolge praticamente tutta di notte ("Nessun dorma"...) fino a risolversi all'alba, quando la vittoria di Calaf coincide con il sorgere del sole.

È ormai patrimonio collettivo il riconoscimento che il simbolismo della luna è tutto al femminile ("Casta diva"...), mentre quello del sole è al maschile. Ma cosa vuol dire questo, e perché è così importante?

Cominciamo col dire che simbolo non è allegoria (qualcosa cioè che sta al posto di un'altra cosa, può sostituirla e può anche essere costruita intenzionalmente), ma è un'immagine che si impone spontaneamente nella coscienza, scaturendo dalle profondità dell'inconscio collettivo, e rappresenta il miglior ponte, la migliore soluzione per unire i due opposti e per rappresentare i tanti elementi che tra loro sarebbero in contraddizione.

La parola "simbolo" viene infatti dal greco syn – ballein, che vuol dire "mettere insieme, unire", ed era usata concretamente per denominare delle tavolette o medaglie che al momento di una partenza o una missione, magari diplomatica, venivano spezzate e i frammenti erano tenuti dai due componenti (chi partiva e chi restava): solo grazie al loro combaciamento, al momento del reincontro, si era certi dell'autenticità a garanzia della riunificazione.
Il simbolo tende quindi a ricostruire una "unità originaria", una pienezza di significato, che la nostra coscienza troppo differenziata tende a perdere e a frammentare. Il contrario del "simbolico" è significativamente il "diabolico" (da dia – ballein = "separare"), il separatore, ciò che divide e frammenta l'unità originaria. Il diavolo ha separato l'uomo da Dio.

Dopo quest'excursus, necessario per capire la qualità del simbolo, torniamo a Turandot e alla luna. Abbiamo detto che la luna rappresenta un simbolo femminile, ma già qui incontriamo una difficoltà, perché il nostro linguaggio, ormai cristallizzato in poche codificazioni, identifica "femminile" con la donna, cioè la femmina della specie umana.
Ebbene, per il significato simbolico non è così. Il "femminile" e il "maschile" cui si allude quando compaiono nei simboli sono aspetti archetipici, quindi contengono un elemento transpersonale, una specie di matrice che porta con sé delle caratteristiche particolari che, proprio perché risiedono e agiscono nelle profondità della struttura psichica, sono comuni a tutti gli esseri umani, uomini e donne. Va da sé che, se sono stati chiamati così, ci saranno delle analogie più vicine al modo in cui la donna o l'uomo si riconoscono e si sono strutturati, sia biologicamente che psicologicamente e socialmente.

La caratteristica più evidente della luna, quella che ha da sempre ha colpito l'immaginazione anche dei nostri primitivi antenati, è la sua variabilità; non solo rispetto al sorgere e al tramontare, ma per la sua caratteristica di crescere, ingrossarsi, decrescere e diminuire fino a scomparire, per poi ritornare con la nuova fase, con un ritmo ben preciso di 28 giorni.
L'analogia tra la luna che cresce fino alla rotondità della sua pienezza e la pancia della donna, che si ingrossa nella gravidanza fino a far nascere un bambino e poi si sgonfia, ha portato, quando ancora non si conosceva il ruolo dell'uomo nel concepimento (più a lungo di quanto si pensi), a riconoscere nella luna il "signore delle donne" e ad attribuire alla penetrazione del suo raggio l'effetto fecondante.
Non sto a parlare, per ovvie ragioni di spazio, dei numerosissimi miti e leggende su questi aspetti, comuni praticamente a tutti i popoli e che si possono trovare in molti libri di storia delle religioni primitive o in quelli di psicologia analitica da Jung in poi, primo fra tutti il bellissimo lavoro della dottoressa M. Esther Harding, "I misteri della donna" (ed. Astrolabio), a cui rimando per chi volesse approfondire.
Analogamente, la luna è diventata direttamente garante di tutto "quello che cresce", della fertilità e fecondità della natura vegetativa e animale. Ancora adesso i nostri contadini sanno che per seminare, raccogliere o tagliare, affinché l'operazione vada a buon fine, bisogna rispettare le fasi della luna...

Ma la luna non è solo e sempre benefica e garante di fecondità (Iside, Artemide...); c'è anche la "luna nera", l'aspetto inquietante e negativo, legato alla morte e alla distruzione: l'altra faccia che ogni archetipo porta con sé e che mitologicamente è rappresentato da Kalì, da Ecate e da altre dee dall'aspetto terrificante.
Inoltre la luna, appartenendo alla notte, ha a che fare con tutti i significati legati a essa, in senso sia positivo che negativo: matrice della coscienza, ma rappresentante delle tenebre e dell'inconscio rispetto al sole che si pone come rappresentante della luce della coscienza diurna e centro del mondo maschile.

Turandot si sovrappone immediatamente al simbolismo lunare nel suo aspetto inquietante e negativo: viene invocata e compare insieme alla luna, e conferma la sua sentenza di morte che viene eseguita proprio al sorgere della luna.
La melodia che prepara l'apparizione della luna e di Turandot è magistralmente evocativa, e assai interessanti sono le parole indirizzate alla luna: "testa mozza", "squallida", "esangue", "pallida", "taciturna", "funereo lume dei cimiteri", "amante smunta dei morti"... Ce n'è quanto basta per capire che qui l'aspetto presente della luna è il suo lato mortifero.
E questo caratterizza anche Turandot: essa viene invocata con le parole "Bianca al pari della giada, fredda come quella spada...". È la crudele principessa che sfida gli uomini, quelli hanno la sventura di innamorarsi di lei, con enigmi difficilissimi e li condanna con freddezza e determinazione a una morte orribile.
L'editto con cui si apre l'opera parla chiaro: "Popolo di Pechino, la legge è questa". Ma in tutta questa lugubre attesa, il misterioso coro dei ragazzi ("Là sui monti dell'Est..."), con la sua musica meravigliosa e suggestiva, introduce un elemento trasformativo: la speranza o forse la premonizione che le cose possano cambiare, il gelo sciogliersi e l'albero rifiorire...
Vedremo nel secondo atto il perché di tanta negatività e i motivi della scelta vendicativa della principessa.

Clicca qui per il testo di "Perché tarda la luna?".

LA FOLLA
Perché tarda la luna? Faccia pallida! Mostrati in cielo! Presto, vieni!
Spunta! O testa mozza! O squallida! Vieni! Spunta! Mostrati in cielo!
O testa mozza! O esangue! O esangue, o squallida!
O taciturna! O amante smunta dei morti! O taciturna, mostrati in cielo!
Come aspettano, o taciturna, il tuo funereo lume i cimiteri!
O esangue, squallida! O testa mozza! Ecco laggiù un barlume!
Vieni, presto, spunta! O testa mozza, spunta! Vieni! O testa mozza, vieni!
Mostrati, o faccia pallida! O faccia pallida! O esangue, pallida!
Vieni, amante smunta dei morti! O amante smunta dei morti! Vieni, vieni, spunta!
Ecco laggiù un barlume, dilaga in cielo, la sua luce smorta!

TUTTI
Pu-Tin-Pao! La luna è sorta!

RAGAZZI
Là sui monti dell'Est la cicogna cantò.
Ma l'april non rifiorì, ma la neve non sgelò.
Dal deserto al mar non odi tu mille voci sospirar:
"Principessa, scendi a me! Tutto fiorirà, tutto splenderà!"
Ah!



direttore: Zubin Mehta



direttore: Francesco Molinari-Pradelli

27 ottobre 2010

Turandot (3) - Riassunto dell'atto I

Scritto da Giovanni Ansaldi



Le mura della Città Imperiale.

Nella piazza di Pechino, al tempo delle favole, un mandarino ricorda alla folla l'editto della crudele Turandot. La principessa sposerà solo colui che avrà risolto tre enigmi da lei proposti. In caso di fallimento, il pretendente verrà messo a morte ("Popolo di Pechino, la legge è questa": già dalle prime battute ci si rende conto della modernità dell'orchestrazione pucciniana).
Questa è la sorte dello sfortunato principe di Persia, che si prepara a morire decapitato al sorgere della luna.
La folla rumoreggia, eccitata dall'imminente spettacolo ("Perché tarda la luna?").
Nella calca il vecchio Timur, re spodestato dei Tartari, accompagnato dalla giovane schiava Liù, cade a terra. Il principe Calaf si precipita in suo aiuto e riconosce in lui il padre. Entrambi, salvatisi avventurosamente per vie diverse, sono costretti a mantenere l'incognito per sfuggire ai feroci usurpatori. Calaf chiede a Liù la ragione del suo amorevole aiuto al vecchio re. E lei risponde di aver condiviso le sofferenze del sovrano soltanto perché un giorno nella reggia lui, il principe Calaf, le aveva sorriso.
Intanto la luna è apparsa, accompagnata da un lontano, estatico canto di fanciulli ("Là sui monti dell'Est / la cicogna cantò"). Preceduto da un corteo di grandi dignitari, il giovane principe di Persia viene condotto al patibolo.
La folla, a questa vista, si commuove, muta atteggiamento e chiede a gran voce per lui la grazia.
Calaf maledice Turandot ("Ch'io ti veda e ch'io ti maledica!"), ma quando questa fa una breve comparsa per confermare la condanna, rimane come ipnotizzato dalla sua bellezza ("O divina bellezza, o meraviglia, o sogno!") e decide immediatamente di sottoporsi alla prova degli enigmi.
Invano, con motivazioni diverse, Timur, Liù e i tre ministri Ping, Pong e Pang tentano di dissuaderlo (Liù: "Signore, ascolta" / Calaf: "Non piangere, Liù", arie ormai entrate nel repertorio).
Ipnotizzato dal volto di Turandot, Calaf si precipita a colpire per tre volte il gong posto nella piazza, gesto che pubblicamente annuncia che un nuovo pretendente è pronto a sfidare la sorte (il finale di questo atto è musicalmente un capolavoro sinfonico-corale).


direttore: Zubin Mehta

26 ottobre 2010

Turandot (2) - Perché la fiaba?

Scritto da Marisa

L'ultima grande opera di Puccini è ispirata da una fiaba: una scelta apparentemente innocua e dilettevole (considerando che, con molta superficialità e leggerezza, in genere pensiamo alla fiaba come a un prodotto – peggio ancora, a un sottoprodotto – adatto solo ai bambini) ma in realtà estremamente impegnativa e coinvolgente, come del resto appare subito considerando il tempo (quattro anni) e il dispendio di energie profuse da Puccini; tempo ed energie che non sono stati comunque sufficienti a portare a termine "Turandot".

La fiaba, come il mito, scaturisce dalla parte più remota dell'inconscio, quell'inconscio collettivo che Jung ha individuato e valorizzato, riconoscendone la grande ricchezza e fecondità e che costituisce la base e la matrice di ogni manifestazione ed evoluzione psichica. "L'inconscio si esprime per immagini" diceva Jung, e le immagini (sogni, miti, leggende, fiabe, visioni), nella loro suggestiva bellezza, alludono a realtà che trascendono la logica razionale, troppo schematica e definita del pensiero indirizzato, per esprimere la poliedricità e la complessità del mondo interiore, con i suoi eterni conflitti e i tentativi di soluzione.

"La verità non è venuta al mondo nuda, ma ama nascondersi" recitava già il più grande dei saggi dell'antichità, quell'Eraclito che è stato chiamato "l'oscuro" per la profondità, l'enigmaticità e la paradossalità del suo pensiero, ma che proprio per le sue straordinarie intuizioni si è rivelato il più moderno. Ricordo che il termine imago (da cui la nostra immagine e tutti i termini legati all'immaginario) è composto da imo = profondo, sotto, e ago da agere = agire, e perciò vuol dire "ciò che agisce dal profondo", cosa quindi tutt'altro che inerte o innocua, relegata solo al piano estetico, come si vuol far credere nella nostra civiltà. In realtà le immagini continuano ad agire dal profondo e perciò l'uso subdolo e irresponsabile che ne fa il marketing è pericoloso.
Nel cercare di farsi strada verso la coscienza, emergendo dal caos indifferenziato dell'inconscio, le immagini si organizzano e si strutturano in schemi che costituiranno poi i fili conduttori di miti, leggende e fiabe che, con innumerevoli varianti, ritroviamo in tutte le tradizioni e nelle culture più disparate.

L'arte ha sempre pescato in questo patrimonio suggestivo e sconfinato, contribuendo anzi ad alimentarlo, arricchirlo e dargli forma, o per ispirazione diretta degli artisti che pescano dal loro inconscio o come trascrizione libera e creativa partendo da tracce mitologiche già esistenti. Omero è già il prototipo del poeta-cantore che utilizza e amplifica in modo creativo le storie e le vicende leggendarie di eroi e divinità, contribuendo alla loro trasmissione e all'arricchimento della cultura. Nel mondo della musica basti pensare a Wagner o al "Flauto magico" di Mozart per aprire gli occhi sull'importanza dei temi mitologici e favolistici.

La figura archetipica che è alla base della capacità umana di trasformare le immagini in arte (musica e poesia) è Orfeo, che con la lira ricevuta in dono da Apollo (padre delle Muse) canta i Misteri di Dioniso, unificando così simbolicamente i due grandi elementi: l'apollineo e il dionisiaco, che solo nell'arte appunto trovano il loro equilibrio e sintesi. E qui si aprirebbe un discorso molto affascinante e complesso, che va da Nietzsche a Rilke, cui non posso dar seguito. Dichiaro comunque che mi ha conquistato la posizione di Rilke e il suo Orfeo come autentico rappresentante dello spirito che tende a ristabilire la visione unitaria e riportare l'armonia tra i due mondi (conscio-inconscio, sopra-sotto, vita-morte), sanando la scissione dell'uomo moderno.

Con "Turandot" siamo davanti a uno dei motivi fondamentali dell'evoluzione della coscienza: il tema della liberazione del femminile e della trasformazione della relazione dalla dipendenza e violenta sopraffazione alla reciprocità dell'Eros. Ma vedremo man mano come si costellano i vari aspetti e quale ne sia l'evoluzione.

25 ottobre 2010

Turandot (1) - Introduzione

Scritto da Giovanni Ansaldi

Turandot
Opera in tre atti
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini

Prima rappresentazione:
Milano (Teatro alla Scala), 25 aprile 1926

Personaggi e voci:

Turandot (soprano), principessa
Altoum (tenore), suo padre, imperatore della Cina
Timur (basso), re tartaro spodestato
Calaf (tenore), il Principe Ignoto, suo figlio
Liù (soprano), giovane schiava, guida di Timur
Ping (baritono), Gran Cancelliere
Pang (tenore), Gran Provveditore
Pong (tenore), Gran Cuciniere
Un mandarino (baritono)
Il principe di Persia (tenore)
Il boia (Pu-Tin-Pao) (comparsa)
Guardie imperiali - Servi del boia - Ragazzi - Sacerdoti - Mandarini - Dignitari - Gli otto sapienti - Ancelle di Turandot - Soldati - Portabandiera - Ombre dei morti - Folla


"Turandot" è l'ultima opera di Giacomo Puccini, rimasta incompiuta per la morte dell'autore avvenuta il 28 novembre del 1924. Alcuni affermano che non si tratta soltanto dell'ultima opera di Puccini ma dell'ultima opera tout court nella storia di quel genere di spettacolo, teatrale e musicale nello stesso tempo, che viene chiamato melodramma o opera lirica. Ciò non è vero: opere liriche (e anche belle) sono state scritte in seguito e si continuano a scrivere, perché la maggior parte dei musicisti è sempre affascinata da questo genere musicale. Ma certamente è l'ultima opera popolare nella storia del melodramma. "Popolare" nel senso di opera musicalmente accessibile a un vasto pubblico, e che quindi viene spesso eseguita in tutti i teatri del mondo. Tra l'altro, al di là del suo grande valore musicale, essendo un'opera spettacolare si presta a essere rappresentata in grandi spazi, appunto "popolari", come per esempio l'Arena di Verona.

"Turandot" è opera di grande interesse sia sul piano formale, ovvero musicale, sia sul piano contenutistico, vale a dire in rapporto alla storia (in questo caso la favola) che viene narrata. Quando Puccini morì, gli mancava di musicare il finale, ovvero il grande duetto d'amore fra Turandot e il principe Calaf. Ma fino a quel punto, ovvero alla morte della schiava Liù, l'opera era già pronta per le stampe e quindi completamente strumentata. Vedremo in seguito come il fatto che Puccini non sia riuscito a comporre questo duetto d'amore si possa prestare ad alcune interessanti considerazioni psicologiche.

Caratteristica della creatività di Puccini è stata sempre, nella sua non corta carriera (morì a 66 anni), quella di cercare un continuo rinnovamento del suo linguaggio e nuove modalità di espressione. A differenza di tanti colleghi che, una volta trovato un loro stile, si adagiano sul risultato raggiunto
(spesso la loro creatività assume l'aspetto di una parabola), Puccini ha sempre guardato in avanti. Dal punto di vista formale ci troviamo di fronte ad una ascesa lineare, come del resto è avvenuto in Verdi: se mettiamo in confronto "Nabucco" e "Falstaff" ci sembra di trovarci di fronte a due autori diversi. Così se noi ascoltiamo quelli che io ritengo i due capolavori di Puccini, "La Bohème" e "Turandot", ci rendiamo subito conto della diversità della materia sonora fra le due creazioni. Infatti Puccini, non chiuso nel provincialismo culturale italiano, si è sempre tenuto al corrente delle espressioni dell'avanguardia musicale europea. Basti pensare alla dichiarata ammirazione per Debussy (di cui si rintracciano evidenti influssi ne "La fanciulla del west"), per non parlare di Richard Strauss e soprattutto di Stravinsky. "Turandot", sin dalle prime battute, è percorsa da dissonanze, bitonalità, politonalità (alla Stravinsky). Tanto per darvi un esempio dell'apertura di Puccini al nuovo, nell'aprile del 1924 – quindi, come vedremo, quando era già in precarie condizioni di salute – il compositore prende la macchina e va a Firenze per ascoltare la prima del "Pierrot lunaire" di Schoenberg. Si fa riconoscere, e Schoenberg gli regala la partitura con dedica.

Comunque non è che Puccini in "Turandot" tradisca la sua vocazione, rinunci al suo linguaggio melodico, anzi: scrive una delle arie più conosciute del repertorio operistico, "Nessun dorma", cantata dal principe Calaf. Ma è soprattutto nelle due arie di Liù che musicalmente e psicologicamente più si avvicina alle sue precedenti eroine. La grande melodia pucciniana è quindi presente. Semplicemente il compositore la riveste coi colori orchestrali che la sensibilità del tempo richiedeva in rapporto all'evoluzione del linguaggio musicale.

Quindi un linguaggio musicale nuovo, ma soprattutto un soggetto nuovo. Dopo il Trittico del 1919 (ritengo "Il tabarro" uno dei capolavori del teatro musicale del Novecento), Puccini dichiarò che non ne poteva più di soggetti sentimentali o tratti dalla realtà del quotidiano. In Italia non si era ancora concluso quel movimento estetico sia letterario sia musicale chiamato "verismo", che portava in scena fatti di cronaca quotidiana o sentimenti della gente comune, una volta finita l'epoca in cui nel melodramma si erano celebrate le gesta degli eroi storici o mitici (Verdi e Wagner). Per cui, mentre era alla ricerca di un nuovo soggetto da musicare, quando Renato Simoni (critico teatrale e commediografo) gli accennò a una fiaba, quella della principessa Turandot, scritta dal veneziano Gozzi nel 1700, Puccini intuì di aver trovato ciò che cercava: un fatto che si svolgesse fuori dal tempo, o meglio "al tempo delle favole". E si mise subito al lavoro.

Quest'opera divenne un sogno da realizzare, certamente il suo progetto più ambizioso. Infatti fu il lavoro la cui stesura impegnò il suo autore più di qualsiasi altro, dal 1920 alla fine del 1924. E ovviamente fu anche la gestazione più tormentata. Basta leggere l'interessante epistolario con il librettista Giuseppe Adami per rendersi conto di quanto il compositore fosse esigente e spesso insoddisfatto. Quando agli inizi del 1924 i suoi problemi di salute divennero evidenti, per completare l'opera mancava solo il duetto d'amore finale.

Due parole sugli ultimi mesi del compositore, così strettamente legati all'angoscia di non riuscire a terminare Turandot. Puccini fu sempre un accanito fumatore, e allora nulla si sapeva sugli effetti nocivi del fumo. Dal gennaio del 1924 avverte insistenti mal di gola. Non ci fa caso, si sente molto impegnato nel suo lavoro, ma in marzo decide di farsi visitare dal medico curante che diagnostica "un'infiammazione reumatica" e consiglia un soggiorno di cure a Salsomaggiore. Puccini ci va malvolentieri. Le cure non sortiscono effetto, il dolore non accenna a passare, deperisce di giorno in giorno, mangia pochissimo ma soprattutto non si sente più di scrivere musica. Passa una triste estate. Ai primi di settembre va a Milano per discutere con Toscanini dell'imminente prima. Ma è stremato di forze e il mal di gola continua a tormentarlo.

Finalmente, senza dire niente a nessuno, va a Firenze da un famoso otorinolaringoiatra che diagnostica un papilloma all'epiglottide. Ne parla col figlio, si tiene un consulto e si conclude che, poiché il tumore è in fase avanzata e ormai inoperabile, l'unica speranza è la nuova cura coi raggi X. Sono le primissime radioterapie, e in Europa si fanno solo in una clinica specialistica a Bruxelles.

Il 4 novembre Puccini parte per Bruxelles, ha con sé un quaderno di musica per appunti. Entra in clinica il 7. Dapprima gli fanno applicazioni radioterapiche esterne con un collare, ma poi occorre farle internamente nel tessuto tumorale. Infilano sette aghi nel tumore. C'è ottimismo. "Puccini en sortirà", dichiara il primario della clinica. Ma improvvisamente, il 29 novembre, il cuore cede e il compositore muore. Nella camera, fogli di musica sparsi con qualche abbozzo del duetto che sperava di scrivere durante la convalescenza.

Oggi Turandot viene rappresentata completa perché su suggerimento di Toscanini, che diresse poi la prima al teatro alla Scala nel 1926, al compositore Franco Alfano fu affidato il compito di musicare il testo mancante. Alfano giustamente non fece altro che riprendere temi melodici degli atti precedenti e adattarli al testo. Quindi la musica è di Puccini, ma non è la nuova melodia, quella che il compositore lucchese aveva in mente di creare per questo finale. Avrebbe dovuto e voluto scrivere qualcosa di veramente nuovo: il disgelo di Turandot. Sappiamo, come dimostra il suo epistolario, che Puccini aveva sempre ritenuto questo duetto finale la parte più importante dell'intera opera. A questo punto diventa legittimo chiedersi perché aspettò fino all'ultimo, perché non lo scrisse prima, visto che non necessariamente un autore compone seguendo di pari passo il testo. Quando ormai era obbligato a farlo, sopraggiunse la malattia e la morte. Perché questa rimozione?

Alla sua ispirazione musicale, era più connaturale il sacrificio di Liù, che difatti è l'ultima pagina da lui scritta e che si collegava idealmente e musicalmente alle morti di Manon, Mimì, Tosca, Butterfly, suor Angelica. Il pubblico voleva ancora questo da lui. Puccini, come abbiamo visto, desiderava invece rinnovarsi. E aveva trovato Turandot. Ma il compito era probabilmente più grande delle sue possibilità. L'immagine della donna che sfida l'uomo sul suo stesso terreno, come succede oggi, era ancora prematura per quei tempi. E Puccini stesso era legato a una concezione tradizionale della donna, quella che troviamo in Liù. Possiamo ben dire che l'opera finisce con la morte di Liù, tipica eroina pucciniana.

Turandot costituiva un miraggio, appunto una favola. Forse Puccini si rendeva conto di non avere i mezzi tecnici o l'ispirazione per qualcosa di radicalmente innovativo, quale aveva intuito, per il finale, nella sua fantasia. Sentiva dentro di sé questo limite, e rimandava nella speranza di trovare un'illuminante ispirazione. Alla fine l'inconscio lo aiutò a fargli preferire il silenzio, con la morte.


Alcune delle incisioni più celebri:














Link utili:

Articolo su Wikipedia in inglese
Articolo su Wikipedia in italiano
Libretto completo [pdf]
Analisi musicale e drammatica di Boris Goldovsky

22 ottobre 2010

Si ricomincia...

Scritto da Christian

Dopo una pausa di riflessione durata qualche mese, questo blog torna ad attivarsi! A partire dai prossimi giorni ospiterà una serie di post dedicati alla "Turandot" di Giacomo Puccini. L'autore, però, non sarò io: come avevo anticipato già in passato, Opera Omnia si apre infatti ad altri (ottimi) collaboratori. Potrete così leggere post scritti da Giovanni Ansaldi, medico con la passione per la musica, che si occuperà dell'analisi storico-musicale dell'opera, e da Marisa Spinoglio, psicoanalista junghiana, che ne analizzerà gli aspetti e i significati più profondi. La loro non sarà dunque una trattazione brano per brano come quella che io avevo dedicato a "Le nozze di Figaro", quanto semmai una lettura dei principali temi presenti nell'opera, saltando da personaggio a personaggio e da argomento ad argomento a seconda delle esigenze. Buona lettura!