27 marzo 2018

Rigoletto (18) - Verdi e il complesso di padre

Scritto da Marisa

Approfitto di questo blog e del bel lavoro di Christian su "Rigoletto" per fare qualche riflessione sulla figura del padre nelle opere di Verdi. Non sono una musicologa, ma come semplice amante e “fruitrice” dell'opera mi accorgo benissimo quando tra musica e contenuto c'è una vera corrispondenza e un potenziamento reciproco o meno. Persino fra le canzoni (la cosiddetta musica “leggera”, termine che aborro perché vorrebbe dire che quella classica è “pesante” e noiosa, mentre la musica è soltanto buona o cattiva e questo dipende solo da quel miracolo che è la creatività), a restare immortali sono quelle in cui anche il testo è altamente significativo e la musica ne esalta il contenuto. Non a caso un premio Nobel per la letteratura è stato assegnato a Bob Dylan, cantautore dai testi altamente poetici.

Sappiamo che i grandi compositori sceglievano con cura i libretti per le proprie opere, spesso affiancando i librettisti e correggendoli, difendendo il testo contro le censure, fino – nel caso estremo di Wagner – a scriverli in prima persona, non ritenendo nessun altro all'altezza del proprio intento. Bisogna quindi prestare molta attenzione al testo, se si vuol “possedere” l'opera e goderla pienamente, anziché snobbarlo per concentrarsi solo sulle doti vocali dei cantanti o sull'esecuzione orchestrale, come se il libretto fosse un mero pretesto per permettere ai cantanti e direttori d'orchestra di esibire il loro talento. Ricordiamo che l'opera è un miracolo di completezza perché mette insieme teatro, musica, canto, poesia e qualche volta anche la danza, in un godimento che non solo soddisfa il piacere estetico ed emotivo, ma – esattamente come il teatro greco – può educarci sentimentalmente e parlare ai nostri conflitti più profondi contribuendo a quella “catarsi” che è un balsamo, anche se spesso inconscio, per le nostre angosce. “Verdi amò e pianse per tutti noi”, disse Gabriele D'Annunzio alla morte del grande Maestro. E queste parole, incise ancora sulla sua tomba, sono “vere”, al di là di quel che si possa pensare sulla retorica dannunziana...

È evidente, anche per chi dà un'occhiata frettolosa ai libretti, che spesso Verdi ha scelto di musicare drammi pesantemente condizionati dalla figura di un padre, cattivo o buono che sia, e questo, per me che sono una psicanalista, non può non suscitare grande interesse e materia di riflessione. Tra la vita e l'opera di un artista c'è sempre una corrispondenza (scoperta o nascosta) e anche quando sembra che si tratti di pura fantasia, l'artista continua ad elaborare e rappresentare i temi portanti della sua vita in modo tale che il dramma o il conflitto personale tocchino le corde più profonde di tutti gli altri: questo perché riesce a pescare nei recessi di quell'inconscio collettivo che è la matrice portante della psiche di tutti. Così Flaubert poteva dire “Madame Bovary c'est moi!”, e la “Divina Commedia”, oltre che il dramma personale di Dante, la sua crisi e il suo esilio, dà voce immortale a ogni nostro profondo smarrimento nella “selva oscura” della vita, al nostro sentirci esiliati e al senso di perdita di appartenenza, ma anche alla possibilità di una “redenzione” e recupero della salvezza.

Sappiamo che Verdi nasce in una famiglia piuttosto umile e che il padre non ha grande influenza su un figlio così geniale, mentre molta importanza viene rivestita dal facoltoso Antonio Barezzi, che riconosce le doti del ragazzo e lo sostiene, promuovendone la formazione e aprendogli la propria casa fino a permettere il matrimonio con l'amata figlia Margherita. È lui dunque che riveste il ruolo di padre autorevole e da non deludere. Ma il destino si accanisce contro la felicità della giovane coppia: nel 1839, dopo solo tre anni di matrimonio, Verdi perde per una grave malattia infettiva sia la moglie che i due piccolissimi figli. Sono lutti che lo gettano in un dolore profondo, da cui comincerà a riemergere solo nel 1842 con l'accorata creazione del "Nabucco", in cui con il famoso coro “Va pensiero” esprime tutta la nostalgia non solo per la patria ma soprattutto per la perdita del proprio mondo affettivo. E il 1842 sarà anche l'anno della rinascita affettiva e sentimentale, perché conosce il soprano Giuseppina Strepponi, la donna che diventerà la sua seconda moglie e gli starà accanto per tutta la vita, sostenendolo e completandolo in tutti i modi. Proprio questa relazione lo porrà però in conflitto con Antonio Barezzi, colui che a tutti gli effetti considera il suo vero padre. Come non rintracciare il profondo dolore e il conflitto di questa vicenda nelle opere del grande Maestro di Busseto, attraverso le tracce dell'importanza della figura del padre nel destino dei figli? Anche se Verdi è riuscito a seguire il suo cuore e non lasciarsi condizionare dalla volontà del padre adottivo, a cui pur doveva tanto, la figura schiacciante di un genitore è talmente presente nelle sue opere da farci pensare come abbia lottato intensamente per elaborare la sua dipendenza e uscirne “vittorioso”, cosa che quasi mai riuscirà ai protagonisti delle sue opere, sempre sopraffatti e spesso “rovinati” dalle ragioni dei padri. Ma basta tutto questo per spiegarci il senso di profonda fatalità legata alla figura paterna che domina in tante sue opere?

In genere, pur essendo entrato nel linguaggio comune, del concetto di “complesso” si ha un'idea molto parziale o quanto meno approssimativa e spesso sbagliata. Se ci si riferisce poi ai due complessi fondamentali che condizionano pesantemente lo sviluppo psichico, quello “di madre” e quello “di padre”, le cose si complicano e ci si confonde, perché nel corso dello sviluppo della psicoanalisi le interpretazioni sono state diverse, a seconda delle scuole e delle correnti anche all'interno dello stesso schieramento teorico. Possiamo dire che un “complesso” è costituito da un nucleo psichico ad alta incidenza emotivo-affettiva, le cui radici sono in massima parte inconsce, e che si rivela soprattutto negli “agiti”, nelle ripetizioni coatte e nelle “narrazioni” deformate e spesso incorreggibili che colorano tutta la vita, costituendo degli illusori “romanzi famigliari” come risposta a vissuti antichi, sepolti nell'inconscio. Gli attuali studi delle neuroscienze, con l'importanza riconosciuta ai circuiti e ai sistemi sottocorticali (basi biologiche dell'inconscio) che si formano ben prima delle connessioni con la corteccia cerebrale, stanno supportando alcune intuizioni della psicoanalisi e cancellandone altre. Sono state rivalutate quelle intuizioni (Otto Rank, Alice Miller, C. G. Jung) che danno priorità e maggior importanza all'ambiente genitoriale e sociale in cui il bambino si trova ad essere catapultato ben prima di poter capire e farsene una ragione, al trauma del parto e alle situazioni di amore, seduzione, maltrattamenti o rifiuto da parte dai genitori, ai vari traumi che possono susseguirsi durante la fanciullezza, anche tenendo conto delle diverse predisposizioni genetiche di ogni individuo. L'inconscio insomma accumula e crea risposte molto prima di una possibile riflessione legata alla coscienza.

In realtà, quindi, hanno ragione i miti che hanno sempre posto le azioni dei padri e delle madri come antefatti determinanti per le successive azioni dei figli, che si formano inconsciamente come risposte di adattamento e di difesa, costituendo poi dei modelli ripetitivi e nuclei di future nevrosi. Per ritornare al complesso paterno, di cui ci stiamo occupando, bisogna ad esempio ricordarsi che la storia degli dèi non inizia con la ribellione e il parricidio (Saturno che evira Urano per esautorarlo e usurparne il comando, o Zeus che ingaggia la lotta con Saturno sconfiggendolo e relegandolo ai confini del cielo), ma con i padri che non permettono ai figli di nascere (Urano tenendoli schiacciati dentro il ventre materno di Rea, e Saturno divorandoli appena nati). La ribellione violenta dei figli, aiutati per fortuna dalle madri, appare così del tutto legittima e si configura come l'unica via per accedere alle conquiste adulte, scacciando i padri che non accettano di passare l'eredità al figlio e la legittimazione all'autonomia. Nel caso di Edipo poi, preso da Freud ad emblema di amore incestuoso per la madre e uccisione del padre per accedere ad essa, bisogna anche qui spostare l'attenzione sui fatti antecedenti che vedono proprio in Laio – il padre naturale di Edipo – colui che destina il figlio all'abbandono e alla morte ordinando ad un servo di lasciarlo con i piedi legati su un monte esposto alle intemperie e alle belve, spaventato da un oracolo che gli prediceva l'uccisione da parte del figlio. Il destino puntualmente si avvererà, ma solo perché Edipo, abbandonato, viene pietosamente raccolto da un pastore a portato al re e alla regina di Corinto che lo allevano come loro figlio, e solo incidentalmente (ma fatalmente) Edipo si troverà ad incrociare la strada di Laio e ucciderlo, ignorando che si tratti del suo vero padre. L'ulteriore cammino lo porterà poi a Tebe e a diventarne re, sposando la regina-madre Giocasta, premio per la vittoria sulla Sfinge. Da qui tutta la tragedia che ben conosciamo... E nella nostra tradizione biblica come non ricordare Abramo pronto a sacrificare il figlio Isacco, l'unico figlio avuto dalla amatissima Sara? Ma si sa, in qualche modo preferiamo sempre salvare i genitori e puntare il dito sui figli e le loro intemperanze e ribellioni, colpevolizzare i “giovani delinquenti” che tendono a sovvertire l'ordine costituito dai padri e dalla società ovviamente “patriarcale” in nome di un'anarchia irresponsabile e criminosa e di pulsioni incestuose. Ovviamente c'è un comandamento che recita ”Onora il padre e la madre”, ma non uno che imporrebbe di rispettare il figlio, non scandalizzarlo o violentarlo in ogni modo, sia fisico che morale, cose che preparano le future sciagure... Va da sé che, una volta cresciuto, il bambino maltrattato che ha introiettato il comportamento violento e sopraffattore dell'adulto tenderà a esercitare sul proprio figlio lo stesso potere col pretesto di “educarlo”.

Nel “complesso paterno” possiamo individuare almeno tre componenti fondamentali:
1) il rapporto con il padre personale o il suo sostituto;
2) lo spirito del tempo e l'ambiente patriarcale in cui si vive, con le sue usanze, le sue leggi e le sue censure;
3) la forza dell'Archetipo paterno, quell'imago che si può proiettare sulla divinità (il Dio severo dell'Antico Testamento, che comunque rimane nella coscienza cristiana come il “Dio che atterra e suscita” di Manzoni) o su qualsiasi forza transpersonale che incarni il depositario di un destino implacabile. Va da sé che queste raffigurazioni si colorano spesso di sensi di colpa tendendo a credere di meritare in qualche modo di essere puniti.
Nelle opere di Verdi, a guardar bene, queste componenti sono ben presenti tutte e tre.

Gli artisti hanno un filo privilegiato nel rapporto con l'inconscio e spesso, se li leggiamo bene, possiamo imparare da loro molto di più che dagli psicologi o dagli psicoanalisti. E sicuramente Verdi aveva un sesto senso per individuare ed esprimere musicalmente in modo altissimo i conflitti e le tragedie derivanti dal complesso paterno. Se scorriamo i titoli delle sue opere, ne troviamo, a mia memoria, ben nove in cui il padre è la figura chiave che condiziona l'intera vicenda: "I due Foscari", "Luisa Miller", "Don Carlo", "Rigoletto", "La Traviata", "Il Trovatore", "Simon Boccanegra", "La forza del destino" e "Aida". A queste si può anche aggiungere “Ernani”, in cui al posto del padre c'è Silva, uno zio anziano e potente.
Non tutti sono padri negativi, anzi ce ne sono alcuni molto affettuosi in senso realmente positivo ("Luisa Miller", "Simon Boccanegra"); chi, nonostante l'affetto, è tanto ligio al senso del dovere e alla ragion di stato da sacrificare il figlio ("I due Foscari", "Aida"); chi è affettuoso in senso troppo esclusivo e possessivo, tanto da causare la rovina della figlia ("Rigoletto"); chi, intrappolato dalla morale borghese, per proteggere la figlia e garantirle la felicità non esita a richiedere ad un'altra un grave sacrificio intromettendosi pesantemente nella vita del figlio ("La Traviata"); chi, per proteggere il figlio da un presunto maleficio di una zingara, non esita a condannarla al rogo, innescando un destino di tragiche vendette ("Il Trovatore"). E poi ci sono padri che alimentano una pesante conflittualità rubando la donna amata al figlio per sposarla essi stessi ("Don Carlo"), od ostacolando inconsideratamente l'amore della figlia solo per motivi dinastici e innescando la futura rovina ("La forza del destino"). Non si può semplicisticamente parlare quindi di “padri cattivi”, ma sicuramente sono tutti padri che determinano il destino dei figli in modo molto pesante e quasi sempre arrivando alla catastrofe.
A volte i figli sono attaccati al padre in modo molto affettuoso o dipendente, come Luisa Miller e Gilda, a volte sono abbastanza staccati, ma legati ai valori del mondo patriarcale e quindi ricattabili (Alfredo, Aida), a volte ambivalenti (Jacopo Foscari, Eleonora), a volte ostili (Don Carlo); ma per tutti il rapporto non risolto col padre è decisivo. E sempre nella totale assenza di figure materne: solo nel “Trovatore” vediamo una madre, ma si tratta di una madre anomala, una strana figura materna che in realtà non è la vera madre e che, anche se ama svisceratamente Manrico, non esita a rinfacciargli le cure che gli ha prodigato e il dolore che accompagna la sua vista che non può non ricordarle il tragico scambio... E comunque, anche qui è il padre, il Conte di Luna, che è all'origine del misfatto che attiva il bisogno di vendetta.

Ricordiamo che, oltre all'importanza della figura del padre reale, per la formazione di un complesso è determinante anche la situazione socio-culturale in cui si vive. E l'Ottocento è stato un secolo ancora completamente ”patriarcale”, rigido e moralmente bigotto, in cui le donne non avevano alcun diritto... Lo spirito del tempo ha sempre, nel bene e nel male, una grande influenza su tutti, ma gli artisti – che hanno una notevole libertà emotiva – spesso con le loro opere ne rivelano le trappole e le conseguenze negative e, attraverso alcune smagliature, riescono ad anticipare tendenze e alternative alla cultura dominante. E Verdi, pur essendo figlio del suo tempo, ha sempre dimostrato grande autonomia e libertà interiore, sfidando spesso la censura bigotta e conservatrice del tempo. Anche nella scelta affettiva ha saputo difendere il proprio amore dalla più o meno dichiarata disapprovazione collettiva, compresa quella del padre adottivo. Si può quindi dire che anche nell'elaborazione del conflitto socio-ambientale di stampo patriarcale dello spirito del tempo Verdi sia uscito vincitore, e la sua energia creativa e forza morale lo hanno posto al di sopra sia di un'adesione più o meno rassegnata che di un atteggiamento adolescenziale di perenne conflittualità e rifiuto rabbioso.

Ma c'è il terzo aspetto, forse il più importante, più profondo e nascosto ma proprio per questo più potente, che può aiutarci a capire il grande complesso di padre che domina nell'opera di Verdi: il senso del destino legato alla figura biblica di un Dio onnipotente e arbitro assoluto, possessivo e vendicativo, geloso e imperscrutabile; il Dio degli eserciti che trascende completamente il padre personale e può travolgere in un attimo anche un uomo “giusto” come Giobbe, gettandolo nell'abisso di disperazione più completo. Anche se il Cristianesimo ha cercato di addolcire la figura del Dio onnipotente e irato dell'Antico Testamento, chiamandolo col nome familiare di padre amorevole (cosa assolutamente impensabile per un Dio nascosto come Javhè, dal nome impronunciabile), la sua imprevedibile distruttività può sempre scatenarsi e colpire gli uomini che inutilmente cercano di propiziarselo con preghiere e sacrifici, anche andando in cerca delle proprie colpe. Tutti i profeti hanno sempre ammonito il popolo sbigottito e sofferente, convincendolo che tutte le disgrazie, l'esilio, le catastrofi e i massacri, non erano che la punizione per l'infedeltà a quel Dio così geloso e possessivo che intendeva così richiamarlo a sé e che lo avrebbe ancora aiutato a ritornare grande e felice se solo si fosse riconsegnato a lui con tutto il cuore, bandendo per sempre qualsiasi altro dio o interesse.

Anche per chi non è credente, nell'inconscio collettivo non può non rimanere traccia di questa terribile “volontà divina” che può piombare in ogni momento distruggendo tutto quello che si credeva appartenere al proprio mondo. E Verdi lo ha sperimentato duramente sulla propria pelle, come Giobbe, quando in un solo anno perse sia la moglie che i due piccolissimi figli! È questo il duro colpo del destino ad opera di un padre sovrapersonale che in modo sotterraneo continua a permeare la sua opera, rendendola così tragicamente potente e risuonando in tutti dal profondo del comune ed oscuro sentire di un destino che può travolgerci da un momento all'altro (“Come in un sol giorno tutto cangiò, l'altar si rovesciò”, dice Rigoletto).

Rigoletto, padre altamente problematico e possessivo, rimane la figura più emblematica e vittima del capovolgimento che il destino opera. Non a caso Verdi voleva che il titolo dell'opera fosse “La maledizione”. Anche costretto dalla censura a cambiare il titolo, il grido che conclude sia il primo che il terzo atto ci dice chiaramente come non si possa sfuggire ad essa. Ed anche nelle opere in cui non è la figura del padre reale a intromettersi nel destino dei figli, il rimando ad una forza oscura ancora più potente è determinante. Si pensi a "La forza del destino", "Otello", "Macbeth", "Nabucco"... Quando non è il padre terreno, ci pensa comunque una forza divina o demoniaca. Siamo ben lontani dal senso benevolo della “Provvidenza” che caratterizza un altro grande dell'Ottocento, quel Manzoni per la cui morte Verdi ha composto una bellissima e solenne messa da Requiem!

E venendo a parlare di Requiem, come non pensare a Mozart e al complesso paterno che non gli dà tregua, colorando di sé la figura del Commendatore del "Don Giovanni" fino a perseguitarlo (come ha intuito il regista Miloš Forman in una indimenticabile scena del film "Amadeus") nella veste di un inquietante uomo mascherato che gli commissiona, quando è già irreparabilmente malato, proprio una messa da Requiem?