Lungi dalla pretesa di una impossibile e inesauribile spiegazione, questo vuole essere un tentativo di accostamento al mondo così scottante e pericoloso della “Carmen” cercando di dare forma e qualche chiave di lettura a tale magmatico materiale, che continua ad affascinare e coinvolgere ogni spettatore che abbia la ventura di avvicinarsi ad esso.
Tra tutti i grandi che sono stati “stregati” da Bizet, sicuramente spicca Nietzsche, raffinato musicista egli stesso, che proprio dall'ascolto della Carmen ha maturato il suo distacco definitivo da Wagner con uno di quei capovolgimenti assoluti e drammatici che caratterizzano l'evoluzione sia umana che artistica del tormentato filosofo. Il bisogno di staccarsi dall'atmosfera nordica, estremamente idealizzata, brumosa e avvolgente del mondo wagneriano e da un rapporto troppo stretto col maestro idolatrato in gioventù, fa sì che Nietzsche identifichi nell'essenzialità e asciuttezza di Bizet il nuovo ideale musicale e la giusta tensione per affrontare l'animo umano con le sue passioni e i suoi drammi con lucidità e onestà, senza sbavamenti e illusorie idealizzazioni.
Ne “Il caso Wagner”, dopo aver liquidato nell'introduzione l'esperienza wagneriana (con una certa ingiustizia che indica però il suo bisogno di andare oltre gli attaccamenti precedenti) con la frase “La più grande esperienza della mia vita fu una guarigione. Wagner appartiene semplicemente alle mie malattie”, nel maggio 1888, da Torino, scrive:
Ho udito ieri – lo credereste? – per la ventesima volta il capolavoro di Bizet. Ancora una volta persistetti in un soave raccoglimento, ancora una volta non fuggii. Questa vittoria sulla mia impazienza mi sorprende. Come rende perfetti una tale opera! Nell'udirla si diventa noi stessi un “capolavoro”. – E realmente, ogni volta che ascoltavo la Carmen, mi sembrava di essere più filosofo, un miglior filosofo di quanto non fossi solito credere; ero diventato così longanime, così felice, così indiano, così sedentario... Stare seduto cinque ore. Prima tappa della santità! – Posso dire che l'orchestra di Bizet è quasi l'unica che ancora io sopporti? Quell'altra orchestra che oggi è alle stelle, quella wagneriana, brutale, artificiosa e “incolpevole” a un tempo, che parla in tal modo a tutti insieme i tre sensi dell'anima moderna – quanto mi è nociva questa orchestra wagneriana! La chiamo scirocco. Comincio a sudare in maniera fastidiosa. Il mio tempo buono se ne è andato. Questa musica invece mi sembra perfetta. Si avvicina leggera, morbida, con cortesia. È amabile, non fa sudare. “Il bene è leggero, tutto ciò che è divino corre con piedi delicati”: principio primo della mia estetica. Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica; malgrado ciò essa resta popolare – ha la raffinatezza di una razza, non quella di un individuo. È ricca, è precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla “melodia infinita”. Si sono mai uditi sulle scene accenti tragici più dolorosi? E in che modi essi vengono raggiunti! Senza smorfie! Senza battere moneta falsa! Senza la menzogna del grande stile! – Infine, questa musica considera intelligente, persino come musicista, l'ascoltatore...E ancora:
Questa musica è serena; ma non di una serenità francese o tedesca. La sua serenità è africana: essa ha su di sé la fatalità, la sua felicità è breve, improvvisa, senza remissione. Invidio Bizet per aver avuto il coraggio di questa sensibilità che fino ad oggi non aveva ancora un linguaggio nella musica colta d'Europa – il coraggio di questa sensibilità meridionale, più abbronzata, più riarsa... Che senso di benessere ci danno i gialli pomeriggi della sua felicità! [...] Finalmente l'amore, l'amore ritradotto nella natura! Non l'amore di una “vergine superiore”! Nessun sentimentalismo tipo Senta! Sibbene l'amore come fatum, come fatalità, cinico, innocente, crudele – e appunto in ciò natura! L'amore che nei suoi strumenti è guerra, nel suo fondo è l'odio mortale dei sessi! – Non conosco alcun altro caso, in cui la tragica ironia che costituisce l'essenza dell'amore si sia espressa in maniera tanto vigorosa, abbia trovato una formulazione tanto terribile, come nell'ultimo grido di Don José, con cui si chiude l'opera: “Sì, sono io che l'ho uccisa! / Ah, mia Carmen. Mia Carmen adorata!”. Una tale concezione dell'amore, (l'unica che sia degna del filosofo) è rara: essa mette in risalto tra mille un'opera d'arte. Giacché in media gli artisti fanno come tutti, e anche peggio – essi misconoscono l'amore. Anche Wagner l'ha misconosciuto. Credono di essere disinteressati in esso per il fatto che vogliono il vantaggio di un altro essere, spesso contro il proprio vantaggio. Ma in cambio vogliono possedere quest'altro essere... Persino Dio non fa eccezione a questo proposito. Egli è lontano dal pensare “E se ti amo, a te che importa?” – diventa tremendo quando non lo si riama...Le parole di Nietzsche sono oltremodo significative, non solo come testimonianza di una profonda comprensione dell'opera di Bizet, ma soprattutto del come ci si possa identificare, seppure inconsciamente (ma non so ovviamente se in questo caso l'operazione sia tanto inconscia...), con tale opera per “uccidere” un amore che ossessiona e da cui bisogna assolutamente distaccarsi per proseguire la propria vita. Certo, sarebbe meglio e più auspicabile sotto tutti gli aspetti che le separazioni avvenissero senza spargimenti di sangue, ma non sempre i temperamenti passionali riescono a controllarsi e l'identificazione è tanto forte da non poter più fare nessun salto simbolico... (ma di questo parleremo alla fine dell'opera!).
Certamente Nietzsche ha ucciso il maestro tanto amato e venerato solo con la penna, ma quanto dolore e quanta autodistruzione e mutilazione questo passaggio ha comportato! Sicuramente egli ha cercato di uccidere anche una parte di sé, tramutando l'amore in odio, ma da qualche parte è sempre rimasta una grande nostalgia per quegli anni così felici dell'amicizia col grande maestro, se ancora nell'agosto del 1882, secondo la testimonianza di Lou Salomé, piange guardando in direzione della casa di Wagner a Tribschen, sul lago di Lucerna.
Mi vengono in mente le parole di un altro grande, Oscar Wilde, anche lui profondo esperto dei dolori dell'amore, che sono state riprese come leitmotiv nel film “Querelle” da Fassbinder:
Eppure ogni uomo uccide la cosa che ama,
Vorrei che ognuno lo sapesse:
c'è chi lo fa con uno sguardo crudele,
e chi con una parola gentile,
il vigliacco lo fa con un bacio,
chi ha il coraggio con una lama sottile!
C'è chi l'amore l'uccide in gioventù,
e chi lo fa in tarda età;
c'è chi ama così poco e chi davvero troppo,
c'è chi paga e chi vende,
c'è chi uccide tra le lacrime,
e chi senza battere ciglio.
Perché ognuno uccide la cosa che ama,
ma non tutti poi vanno a morire.
Non tutti...
(da “La ballata del carcere di Reading")
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