12 maggio 2020

Lucia di Lammermoor (13) - "Il dolce suono"

Scritto da Christian

© Ken Howard | Metropolitan Opera

La cosiddetta "scena della pazzia" rappresenta il climax di quest'opera. Dopo la descrizione della tragedia da parte di Raimondo, è Lucia stessa a scendere nella sala delle feste, presentandosi davanti a tutti con l'abito bianco nuziale ricoperto di sangue e rendendosi protagonista di una lunga serie di vaneggiamenti e deliri. La scena è musicalmente complessa e assai lunga, appunto, ma oltre a rendere evidente a tutti lo stato in cui si trova Lucia ("Il di lei sguardo impietrito, i moti convulsi, e fino un sorriso malaugurato manifestano non solo una spaventevole demenza, ma ben anco i segni di una vita, che già volge al suo termine", recitava il libretto originale), che "vaneggia, confonde desideri e realtà, mischia passato e presente sia nei tempi verbali utilizzati, sia nelle reminiscenze musicali di eventi trascorsi" (ci sono richiami a melodie precedenti, come a quella del felice duetto con Edgardo "Verranno a te sull'aure", ma anche alla cavatina "Regnava del silenzio"), in essa non accade nulla dal punto di vista dell'azione. Gli eventi tragici di questa notte erano già stati raccontati da Raimondo, appunto, e sono noti a tutti.
La scena rimanda musicalmente alla cavatina iniziale, che a sua volta rimanda all'incontro col fantasma: questa catena di rimandi consente di capire che il destino della poveretta era segnato, che quanto accaduto per decisione umana non era altro che la maniera di compierlo.
(da Wikipedia)
Momento fra i più celebri del repertorio operistico di ogni tempo, l’aria della pazzia di Lucia riprende, dilatandole a dismisura, le strategie musicali già messe in atto nei numeri precedenti che avevano visto protagonista il soprano. Ciò significa che questa scena va considerata come la logica e tragica conclusione di un percorso interiore che è stato prospettato molto precisamente sin dalla prima uscita dell’eroina.
(Federico Fornoni)
Inconsapevole della situazione, delle proprie azioni e della presenza della gente intorno a lei, Lucia si rivolge direttamente ad Edgardo, come se fosse lì (magari scambiando uno degli astanti per l'amato), e immagina di essersi riunita a lui ("Edgardo! Io ti son resa: / fuggita io son da’ tuoi nemici"). Il personaggio è certamente precipitato in questo stato a causa degli eventi, e in particolare dalle azioni e dalle pressioni sociali che gli uomini che l'hanno circondata (Enrico, Normanno, Raimondo e lo stesso Edgardo) hanno esercitato su di lei. E a farne le spese è innanzitutto lo sposo Arturo, che tutto sommato era forse uno dei più innocenti (anche se causa originale delle sue sciagure). Ma che Lucia già fosse fragile e sull'orlo della follia ci era stato suggerito più volte in precedenza, attraverso sottili allusioni musicali ma anche più esplicitamente nelle didascalie del libretto, che anche in questo si distingue dalla fonte originale (il romanzo di Walter Scott).
Questo delirio, attraversato (...) anche da echi danteschi, petrarcheschi, leopardiani ecc., è il vertice della radicale trasformazione della Lucia scottiana, figura che Cammarano presenta da subito agitata e in preda a visioni, poi – nel duetto con Enrico – tale da mostrare «i primi sintomi d’un’alienazione mentale», quindi smarrita tanto che «la mente turbata della infelice intende appena ciò che fa», e infine affatto impazzita, col «volto coperto da uno squallore di morte». Ben poco di questo è nel romanzo di Scott, in cui Lucia solo dopo il contratto di nozze mostra preoccupanti «sintomi, che annunziavano un principio di follìa», e soltanto in ultimo quelli «di un delirio pervenuto al massimo grado». Nel tesissimo clima di angoscia permanente, di visione sinistra, di oscurità gotica e luttuosa creato dal poeta napoletano, la sofferenza psichica della protagonista, dilatata e amplificata, è invece l’innovativo fulcro drammatico, l’elemento morboso che estende la sua opaca natura di incubo all’intera vicenda.
(Emanuele D'Angelo)
La Lucia di Donizetti e Cammarano non perde la ragione per uno choc improvviso. È mentalmente instabile fin dall’inizio (viene significativamente trasferita a lei la visione del fantasma alla fontana, che in Scott toccava invece ad Edgar), manifesta i «primi sintomi d’un’alienazione mentale» già al diverbio col fratello, dimostra «mente turbata» alla firma del contratto nuziale: giunge insomma progressivamente a quella «spaventevole demenza» che la sua stessa mise priva di ogni decoro rivelerà a colpo d’occhio («succinta […] veste», «chiome scarmigliate», colorito spettrale). Ben diversamente dai lirici, melodiosi vaneggiamenti di Elvira nei recenti Puritani, quello di Lucia è un delirio più vicino alle follie del teatro parlato, con le sue allucinazioni discontinue e sconnesse. Come prefigurato già nelle scene finali di Anna Bolena, Donizetti materializza in orchestra i fantasmi di quella mente malata. E differentemente anche da quanto si ascolta nella Sonnambula, dove Amina in trance rievoca le fasi della sua vicenda puntualmente richiamate dai rispettivi motivi caratteristici, solo uno degli spezzoni melodici che "appaiono" a Lucia può dirsi davvero in sé eloquente, in quanto già sentito e legato a una situazione nodale: il motivo del giuramento d’amore («Verranno a te sull’aure»). L’ipotetica «voce» di Edgardo, l’«armonia celeste», «l’inno […] di nozze» sono invece tutti materiali che si ascoltano per la prima volta, fantasmi melodici resi eloquenti sul momento, evocazioni ma non reminiscenze. Per il canto nuziale sarebbero stati disponibili i cori «Per te d’immenso giubilo» e «Di vivo giubilo», ma Donizetti preferì abbozzare un brandello di motivo, un flash sonoro che affiora appena, incompiuto. Scelse di evitare una logica drammatico-musicale troppo coerente per una forsennata? Se l’ipotesi paresse azzardata, un’altra è certa. In quella scena, l’unica memoria davvero riconoscibile perché già udita è proprio quella del fidanzamento con Edgardo: un caposaldo nella vita di Lucia, anche nel vacillare della sua mente. Per i due giovani innamorati, l’inizio della rovina era stato proprio l’averlo creduto possibile: anzi, vero.
(Paolo Fabbri)
Va segnalata una citazione, in un passaggio del testo ("Un gelo / mi serpeggia nel sen!… trema ogni fibra!… / Vacilla il piè!…"), da un'opera precedente, "La morte di Cleopatra" (1791) di Sebastiano Nasolini, su libretto di Antonio Sografi, ritoccato da Gaetano Rossi in occasione di una ripresa alla Fenice di Venezia nel 1800 ("Ohimè!… Qual gelo / mi ricerca ogni fibra!… Già il veleno / mi serpeggia nel seno… qual crucciosa / smania m’assale?… / Qual tremito mortale!… Il piè vacilla").
Nel costruire la manifestazione di un totale crollo psichico, Cammarano attribuisce alla mortale follia di Lucia i sintomi tipici di un avvelenamento, incastonando nella sua struggente fuga dal dolore, «grande creazione psichica» che alterna angoscia e felicità, un geniale e agghiacciante inciso realistico («i segni di una vita, che già volge al suo termine») che conferisce una macabra definita fisicità, impressionante e commovente, alla «spaventevole demenza» della protagonista, fatta quasi incorporea e spettrale («simile ad uno spettro, anzicché ad una creatura vivente»).
(Emanuele D'Angelo)
Naturalmente la scena è notevolissima anche dal punto di vista musicale, vero banco di prova per tante soprano sin dalla sua composizione. Nel corso degli anni, molte dive l'hanno interpretata a modo loro (d'altronde il brano è talmente complesso da rendere quasi inevitabile l'apparizione di varianti e versioni che ne mettono in evidenza le più diverse sfaccettature). Tradizionale, per esempio, è la scelta di abbassare l'intera aria di un tono (in Mi bemolle) rispetto alla partitura. Si noti poi come Donizetti prosegua ad accompagnare la voce di Lucia con uno strumento solista. Dopo l'arpa della cavatina "Regnava nel silenzio", tocca qui al flauto, con cui la voce della cantante è protagonista di un vero e proprio dialogo, in particolare nella celebre cadenza (che però sarebbe apparsa soltanto a partire dal 1889, quando Nellie Melba interpretò il personaggio all'Opéra Garnier di Parigi). E come ricordato in un precedente post, l'avvento di Maria Callas a metà del ventesimo secolo rivoluzionò il ruolo restituendogli la profondità tragica anche dal punto di vista vocale: prima di lei, infatti, si era soliti affidare la parte a soprani assai virtuosi ma leggeri, che accentuavano gli aspetti più "pudici" e "innocenti" del personaggio.
L’alienazione non può naturalmente rinunciare alle fioriture vocali, presenti abbondantemente persino nel recitativo, alle quali si sommano suoni mantenuti a lungo, che proprio in virtù della loro durata risultano inarticolati, e dunque eterei. (...) Se il distacco psichico dal mondo che la circonda è forse il sintomo più evidente della follia della protagonista, ciò non significa che sia il solo. Donizetti dipinge simultaneamente una condizione di vero e proprio dolore fisico. Il passo in cui viene rievocato il fantasma combina i nervosi tremoli degli archi con una sequenza impressionante di accordi dissonanti a piena orchestra. La voce si limita a note ribattute, salti di ottava e passaggi semitonali dovuti all’abbassamento dei gradi della scala (...). Queste scelte riflettono un’angoscia reale che porta ad un’altrettanto reale sofferenza, quasi le dissonanze armoniche fossero tangibile sonorizzazione dei tormenti che pungono l’animo di Lucia. Grazie alla musica abbiamo la netta sensazione che la giovane si trovi il fantasma davanti agli occhi. Altro aspetto importante è l’incapacità della demente di associare i propri pensieri agli eventi corretti. Così il ritorno del tema della cabaletta del duetto tra Edgardo e Lucia, sarebbe a dire del tema d’amore, non si situa in coincidenza della rievocazione dell’amato, ma tra il ricordo della fonte e la visione dello spettro. O ancora il motivo che accompagnava le nozze con Arturo viene ripreso e modificato dalla psiche di Lucia, riferendolo alle nozze con Edgardo. Infine andrà detto che la stessa sproporzione fra le varie sezioni che compongono il numero è sintomatica della mancanza di equilibrio. Il recitativo è eccezionalmente lungo e complesso nel contesto di un’aria. Lo scompenso formale corrisponde allo scompenso interiore di Lucia. (...) Anche la sezione lenta [("Ardon gli incensi")] principia con un dissesto della forma. Lucia immagina la sua cerimonia nuziale con Edgardo, prolungando così l’ultimo pensiero toccato nel recitativo. E infatti la sua vocalità permane nell’ambito del recitativo. L’orchestra ci informa però che siamo ormai entrati nel cantabile. Solo dopo l’esposizione dell’intera prima frase, anche la titolare dell’aria sembra accorgersene riprendendo il motivo principale. Cuore drammatico del pezzo è il vagheggiamento della vita insieme all’amato ed è dunque naturale che gli elementi dominanti siano quelli caratterizzanti il concetto di lontananza mentale dalla realtà. Perciò (...) la coloratura giunge ben presto a raggiungere inaudite vette qualitative e quantitative. In tal senso la famosissima cadenza scritta diversi decenni più tardi (...), pur essendo stilisticamente lontana, sotto il profilo drammatico non è insensata, né tanto meno è da considerare un puro esercizio di bravura. È piuttosto la deflagrazione dei due principi musicali e drammatici sui quali Donizetti ha puntato in questo pezzo: lo strumento solista e la coloratura. Perfino la sua lunghezza, eccessiva rispetto alle dimensioni dell’aria, ben si coniuga con le scelte di squilibrio formale adottate dall’autore. Ciò non toglie che la cadenza possa essere sostituita con altre soluzioni dato che la partitura autografa in quel punto prevede solo un arpeggio di settima di dominante.
(Federico Fornoni)
Una nota a parte merita proprio l'accompagnamento con lo strumento solista. Il flauto non era stato la prima scelta di Donizetti: per accentuare il senso di alienazione e sottolineare la follia del personaggio, il compositore aveva pensato a uno strumento alquanto insolito, la glassarmonica (o armonica a bicchieri), inventato nella sua forma moderna (una versione più maneggevole dei tradizionali bicchieri musicali) nientemeno che da Benjamin Franklin nel 1761. Tale strumento "produce un suono insolito, che evoca l'‘ultraterreno’ e che nell’immaginario collettivo dell’epoca di Donizetti veniva associato alla pazzia". "Permane dunque fortissimo, ed è destinato a crescere, il distacco della mente di Lucia dalla concretezza terrena". Come si legge in un programma di scena del teatro La Fenice:
Non era la prima volta che il compositore introduceva questo strumento: lo aveva utilizzato anche nel 1829 nel "Castello di Kenilworth", sempre in associazione a una ‘vittima’ femminile. Prima del debutto della "Lucia" a Napoli, Donizetti cancellò quella parte e la sostituì con un flauto. Le ragioni di questa scelta sono state chiarite solo recentemente: Donizetti scrisse la parte per uno specifico esecutore, Domenico Pezzi. Il musicista però era in lite giudiziaria con il teatro, ed è lecito pensare che la direzione del San Carlo avesse chiesto a Donizetti – seppur le prove di Lucia fossero già cominciate – di escluderlo dall’organico. Non essendo disponibili altri musicisti esperti, il compositore dovette propendere per il flauto.
Oggi sarebbe impensabile un allestimento della "Lucia di Lammermoor" privo di questa scena (anzi, spesso si eliminano scene precedenti – come quella della torre di Wolfcrag, come abbiamo visto – pur di giungere più rapidamente al momento culminante). Eppure in passato, nei primi anni di circolazione dell'opera (1836-1837), anch'essa era soggetta all'abitudine diffusa, da parte delle interpreti, di sostituirla con altre arie del proprio repertorio, approfittando del fatto che dal punto di vista degli eventi in essa "non accade nulla" che porta avanti la vicenda. E così, per esempio, la soprano Matilde Palazzesi la sostituiva con “Tu che voli” e “Non, qui morir degg’io” dalla "Fausta" dello stesso Donizetti. (In linea teorica, sarebbe possibile addirittura saltare interamente la scena, passando dal racconto di Raimondo all'arrivo di Enrico, o persino alla scena finale di Edgardo, senza che la comprensione della storia ne risenta in alcun modo!).

Clicca qui per il testo di "Il dolce suono - Ardon gli incensi".

(Lucia è in succinta e bianca veste: ha le chiome scarmigliate, ed il volto coperto da uno squallore di morte. È delirante.)

CORO
(Oh, giusto cielo!
Par dalla tomba uscita!)

LUCIA
Il dolce suono
mi colpì di sua voce!…
Ah! quella voce
m’è qui nel cor discesa!…
Edgardo! Io ti son resa:
fuggita io son da’ tuoi nemici… – Un gelo
mi serpeggia nel sen!… trema ogni fibra!…
vacilla il piè!… Presso la fonte, meco
t’assidi alquanto… Ahimè!… sorge il tremendo
fantasma e ne separa!…
Qui ricovriamo, Edgardo, a piè dell’ara…
Sparsa è di rose!… Un’armonia celeste
di’, non ascolti? – Ah l’inno
suona di nozze!… Il rito
per noi, per noi s’appresta!… Oh me felice!
Oh gioia che si sente, e non si dice!
Ardon gl’incensi… splendon
le sacre faci intorno!…
Ecco il ministro! Porgimi
la destra… Oh lieto giorno!
Alfin son tua, sei mio,
a me ti dona un Dio…
Ogni piacer più grato
mi fia con te diviso…
del ciel clemente un riso
la vita a noi sarà!

RAIMONDO, ALISA, CORO
Abbi in sì crudo stato,
di lei, Signor, pietà.




Mariella Devia (Lucia)
dir: Stefano Ranzani (1992)


Maria Callas (1955)


Maria Callas (1959)


Joan Sutherland (1959)

Anna Moffo (1966)


Renata Scotto (1967)


Edita Gruberová (1978)

Natalie Dessay (2011)


Joan Sutherland (1986)


L'incipit dell'aria "Il dolce suono" è intonato dalla cantante aliena (!) Diva Plavalaguna nel film "Il quinto elemento" (1997) di Luc Besson, con Bruce Willis e Milla Jovovich. L'attrice sotto il pesante trucco della cantante è Maïwenn Le Besco, ma la voce è quella del soprano Inva Mula.


da "Il quinto elemento" (1997) di Luc Besson

Qui invece c'è un (orribile) arrangiamento moderno, eseguito dal controtenore pop Vitas: