Con il quarto e conclusivo quadro de "La Bohème" ritorniamo nella soffitta dove tutto aveva avuto inizio, a testimonianza della struttura simmetrica dell'intera opera. Non sappiamo quanto tempo sia trascorso dalla fine dell'atto precedente: diversi mesi, forse quasi un anno. In ogni caso, la scena che si presenta allo spettatore è del tutto simile a quella con cui l'opera era cominciata, mostrandoci Rodolfo e Marcello intenti l'uno a scrivere e l'altro a dipingere, senza troppo successo. Stavolta non sono tanto il freddo o la fame a intralciare il loro lavoro, ma una generale apatia, che li porta a chiacchierare fra loro, e così facendo a ricordare il tempo passato e le amanti perdute. E già, perché nel frattempo entrambi sono rimasti "vedovi", con le loro donne che hanno preferito i favori di qualche ricco signore, e che ora possono girare "in un coupé" (una carrozza di lusso, a due posti) e vestite "come una regina". A poco vale far gli indifferenti ("Ci ho gusto davver!", "Evviva! Ne son contento"). Da notare come Rodolfo irrida l'amico con l'espressione "Loiola, va! Ti rodi e ridi". Si tratta di un riferimento a Ignazio di Loyola, il religioso fondatore dei Gesuiti, e in particolare ai suoi "esercizi spirituali" che predicavano il "distacco" dai sentimenti e dagli affetti terreni.
Il fatto di presentare allo spettatore una scena simile a quella con cui l'opera era iniziata aiuta anche a comunicare la nostalgia e il rimpianto per il passato. Ben presto i due si tuffano, l'uno indipendentemente dall'altro, nel loro tempestoso mare di ricordi, in un insolito duetto in cui ciascuno dei due parla a sé stesso e alla propria amata perduta. "O Mimì tu più non torni. / O giorni belli, / piccole mani, odorosi capelli...", canta Rodolfo, prendendo in mano la cuffietta rosa che la ragazza gli ha lasciato, fonte di eterna nostalgia. "Io non so come sia / che il mio pennel lavori / ed impasti colori / contro la voglia mia", gli fa eco Marcello, lamentandosi che qualsiasi cosa voglia dipingere, sulla tela non gli esce altro che il volto di Musetta.
La netta impressione del déjà vu viene confermata dalla ripresa del tema con cui l’opera iniziava; ma in orchestra non c’è più la frammentazione dell’avvio, bensì il timbro impastato degli strumenti, che introduce concretamente un discorso già iniziato. Questo accorgimento si può leggere in chiave formale, come momento di amplificato riepilogo in una forma ciclica; ma è del pari evidente che l’esasperata dinamica produce una sensazione di enfasi quasi a voler nascondere la nostalgia, sentimento dominante di questa scena. [...] Puccini anche qui si rivela piuttosto preciso, ad esempio nel citare solo la frase iniziale di «Mi chiamano Mimì» evitando il tema così come è presentato all’ingresso della fanciulla in soffitta: in questo momento, infatti, Marcello sta evocando l’immagine di una Mimì lontana dalla malattia, che gira «in carrozza, vestita come una regina». Il motivo del flauto che s’era udito nel quadro iniziale, torna infine per smascherare la loro incapacità di lavorare, solo che ora nessuna donna varcherà la soglia della soffitta per interrompere i loro struggimenti. Con questa premessa comincia il duetto «O Mimì tu più non torni». Mentre scorre la musica, pian piano ci si accorge che le parole di Rodolfo sono il fulcro dell’opera «O Mimì, mia breve gioventù. [...] Ah! vien sul mio cuor; poiché è morto amor!...»: la fine dell’amore è anche il termine della giovinezza che non può più tornare. Si appunti un gesto scenico importante che si lega a una pagina tra le più ispirate: nell’ultima sezione del brano la cuffietta ricompare tra le mani di Rodolfo, ed egli la stringe al cuore come avesse la sua donna fra le braccia, dedicandole un toccante cantabile, «E tu, cuffietta lieve».(Michele Girardi)
In una lettera scritta a Giulio Ricordi (nel febbraio 1894), il librettista Luigi Illica si lamentava del fatto che Puccini avrebbe voluto cominciare l’ultimo quadro dell’opera
colla Mimì in letto, Rodolfo al tavolino a scrivere e un mozzicone di candela a illuminare la scena. Cioè niente separazione [dopo il terzo quadro] fra Rodolfo e Mimì! Orbene così davvero non vi è più la Bohème, non solo, ma non vi è più la Mimì di Murger! [...] Ora io dico che è già un errore che la separazione di Rodolfo e Mimì non avvenga avanti agli occhi del pubblico [causa la soppressione del quadro di Via La Bruyère], figuriamoci se non dovesse avvenire in nessuna maniera! Poiché la essenza del libro di Murger è appunto in quella grande libertà in amore (suprema caratteristica della Bohème) colla quale agiscono tutti i personaggi. Pensi quanto più grande e più commovente può essere quella Mimì che – potendo oramai vivere con un amante [il Visconte Paolo] che le passa della seta e del velluto – sentendosi uccidere dall’etisia va a morire nella desolata e fredda mansarda pur di morire nella braccia di Rodolfo. Mi pare impossibile che Puccini non ne voglia comprendere la grandezza.Per fortuna Puccini finì con il capire le ragioni di Illica e accettò la sua proposta, almeno per quanto riguarda il quadro finale (quello eliminato, invece, restò tale).
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(La stessa scena del Quadro 1. Marcello sta ancora dinanzi al suo cavalletto, come Rodolfo sta seduto al suo tavolo: vorrebbero persuadersi l'un l'altro che lavorano indefessamente, mentre invece non fanno che chiacchierare.)MARCELLO
(continuando il discorso)
In un coupé?
RODOLFO
Con pariglia e livree.
Mi salutò ridendo. To', Musetta!
Le dissi: - e il cuor? - «Non batte o non lo sento
grazie al velluto che il copre».
MARCELLO
(sforzandosi di ridere)
Ci ho gusto davver!
RODOLFO
(fra sé)
(Loiola, va! Ti rodi e ridi.)
(ripiglia il lavoro)
MARCELLO
(dipinge a gran colpi di pennello)
Non batte? Bene! Io pur vidi...
RODOLFO
Musetta?
MARCELLO
Mimì.
RODOLFO
(trasalendo, smette di scrivere)
L'hai vista?
(si ricompone)
Oh, guarda!
MARCELLO
(smette il lavoro)
Era in carrozza
vestita come una regina.
RODOLFO
(allegramente)
Evviva!
Ne son contento.
MARCELLO
(fra sé)
(Bugiardo, si strugge d'amor.)
RODOLFO
Lavoriam.
MARCELLO
Lavoriam.
(riprendono il lavoro)
RODOLFO
(getta la penna)
Che penna infame!
MARCELLO
(getta il pennello)
Che infame pennello!
(guarda fissamente il suo quadro, poi di nascosto da Rodolfo estrae dalla tasca un nastro di seta e lo bacia)
RODOLFO
(O Mimì tu più non torni.
O giorni belli,
piccole mani, odorosi capelli,
collo di neve!
Ah! Mimì, mia breve gioventù!
(dal cassetto del tavolo leva la cuffietta di Mimì)
E tu, cuffietta lieve,
che sotto il guancial partendo ascose,
tutta sai la nostra felicità,
vien sul mio cuor!
Sul mio cuor morto, poich'è morto amor.)
MARCELLO
(Io non so come sia
che il mio pennel lavori
ed impasti colori
contro la voglia mia.
Se pingere mi piace
o cieli o terre o inverni o primavere,
egli mi traccia due pupille nere
e una bocca procace,
e n'esce di Musetta
e il viso ancor...
E n'esce di Musetta
il viso tutto vezzi e tutto frode.
Musetta intanto gode
e il mio cuor vil la chiama
e aspetta il vil mio cuor...)
Luciano Pavarotti (Rodolfo), Ingvar Wixell (Marcello)
dir: James Levine (1977)
Roberto Alagna, Franck Ferrari | Rolando Villazon, Placido Domingo |
José Carreras, Ingvar Wixell | Ferruccio Tagliavini, Giuseppe Taddei |
Carlo Bergonzi, Piero Cappuccilli | Beniamino Gigli, Titta Ruffo |
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