5 novembre 2013

Don Giovanni (4) - Il seduttore sedotto

Scritto da Marisa

Per affrontare la figura di Don Giovanni, senza cadere in un facile moralismo di condanna o in un'acritica esaltazione dell'anarchica libertà di un personaggio al di sopra della legge, bisogna riconoscere in lui l'uomo posseduto da un'immagine archetipica e quindi aver ben presente il concetto di “archetipo”, non nel modo confuso e vago in cui di solito viene utilizzato, ma nel senso che il suo formulatore, Jung, ha intuito e riconosciuto, chiarendolo lungo tutto l'arco delle sue opere: “espressione psichica di una determinata disposizione anatomo-fisiologica”.
Il nucleo profondo dell'archetipo è inscritto nella natura stessa dell'uomo e svolge per le funzioni psichiche lo stesso ruolo della base istintuale che regola il comportamento degli animali, il loro corteggiamento amoroso, fare il nido, la migrazione, ecc. Elémire Zolla scrive che l'archetipo “non è un concetto, ma una energia plastica, generativa”. Di per sé inconoscibile e solo ipotizzabile, l'archetipo si rende manifesto e quindi riconoscibile solo attraverso le immagini primordiali, i temi che alimentano certi sogni, i miti, le leggende e irrompe direttamente nel comportamento negli stati in cui la barriera tra conscio e inconscio si assottiglia, come negli stati di esaltazione e di inflazione o ancor più pericolosamente nelle psicosi, quando tale barriera addirittura scompare.

Ognuno di noi, seppure inconsciamente, vive dentro un mitologema prevalente ed è più vicino a un gruppo di miti analoghi (ad esempio quelli dell'eroe o del fanciullo divino o del senex...), ma è raro vedere qualcuno identificato col proprio nucleo archetipico perché la coscienza media e soprattutto cerca di allargare il campo includendo aspetti di altri mitologemi per raggiungere un maggiore equilibrio ed armonia. È molto pericoloso infatti incarnare un solo mito perché si diventa necessariamente monomaniaci ed esaltati, che si tratti di Eros (come in questo caso), di Zeus (Cesar, Zar...) come rappresentante del potere supremo, o di qualsiasi altra divinità. Anche l'esaltazione mistica o spirituale può staccare dall'umano e diventare pericolosa. Sul tempio di Apollo a Delphi, oltre alla famosa frase “Conosci te stesso”, ce n'era un'altra poco ricordata, “Niente di troppo”, che indica saggiamente la necessità della moderazione e dei limiti in tutto. Don Giovanni ignora totalmente tali limiti ed è completamente posseduto dal proprio demone.

La differenza più importante del Don Giovanni di Mozart da tutte le altre rappresentazioni che gli si accostano o a cui Mozart stesso e Da Ponte si sono ispirati (quello di Molière o "L'ateista fulminato" o "El Burlador de Sevilla" o "Le Festin de pierre") consiste, secondo me, proprio nel fatto che nelle altre opere si possono individuare dei personaggi storici reali come modelli di vita dissoluta (primo tra tutti il duca di Guisa) e questo rende necessario un esame storico-sociale e quindi etico del personaggio mentre qui, soprattutto grazie alla musica divina che libera dalla sgradevolezza della cronaca, l'uomo posseduto dall'archetipo balza direttamente in azione trascinandoci su un piano che necessita di altre categorie di comprensione: il piano mitico per l'appunto. “Chi vive prossimo al suo archetipo”, dice Elémire Zolla, “è al massimo della vitalità, demonico, paradigmatico e del tutto dimentico delle condizioni materiali che lo circondano e ne compongono l'apparenza sensibile” e Don Giovanni ne è un fulminante esempio. Ci affascina e ci sconcerta là dove la nostra coscienza ci intralcia e ci protegge, vive pericolosamente là dove la nostra fantasia e il nostro desiderio affondano, perché il nostro Io più strutturato, per fortuna, ci frena e ci ripiega in voli meno alti, ma più consapevoli e responsabili, in una atmosfera più vivibile e duratura. Ovviamente lui pagherà un prezzo altissimo al suo impeto gioioso, ma che sia una disgrazia sembra ancora una volta a noi, che abbiamo anche del tempo un vissuto assolutamente diverso da chi vive incarnando un archetipo.

A lui che importa durare? La sua ascesa è esistenza;
avanza senza posa ed entra in costellazioni sempre nuove
del suo costante pericolo. Chi lo rintraccerebbe là?
Ma il Destino a un tratto entusiasta, lui, che cupo tace di noi
lo canta nella tempesta del suo mondo fragoroso.
Così Rilke nella VI Elegia, quella dove celebra gli eroi. E Don Giovanni, a modo suo, è un eroe; per lo meno ne condivide il destino di assoluta dedizione a una impresa, compreso il sacrificio finale, senza cedimenti, per la stessa causa per cui si è vissuto. La morte è lo sfondo necessario per chi arde nella fiamma dell'attimo.

Ma qual è finalmente lo specifico di Don Giovanni, la qualità che lo rende unico e nello stesso tempo un “tipo”, cioè il rappresentante di un aspetto collettivo e perciò così emozionante per tutti tanto da assurgere a incarnazione di un archetipo?
Indubbiamente siamo nel dominio di Eros, il Nume-Demone più forte di tutto l'Olimpo, dietro la sua apparente fragilità di leggiadro fanciullo alato, figlio amato della potentissima Afrodite, dea della fecondità e del desiderio sessuale per antonomasia, suo braccio armato e suo diretto emissario. Ricordo che l'iconografia del fanciullo bendato, alato e armato di frecce, che imperversa nei biglietti di San Valentino, è del tutto secondaria rispetto all'immagine che di Eros ci consegnano i miti orfici ed Esiodo, in cui Eros viene riconosciuto come il primogenito di tutti gli dei, il luminoso Phanes nato dall'uovo primordiale deposto dalla Notte dalle nere ali, vero motore della vita di tutto l'universo. Che Freud abbia riconosciuto proprio nel desiderio sessuale la molla più potente di tutta la struttura psichica è roba ormai di dominio popolare e perciò non mi dilungherò a ricordarne l'effetto pervasivo e determinante per tutto lo sviluppo della personalità. Ma Don Giovanni non è solo uno che vuole realizzare il rapporto sessuale in modo compulsivo e diretto, così come gli animali quando sono presi dall'estro. Don Giovanni ha un rapporto molto speciale con il femminile, anzi con “l'eterno femminino”, come direbbe Goethe, ed è questa particolare corrispondenza col femminile che lo rende speciale e irresistibile.

Quando Leporello, visti i pasticci spesso pericolosi in cui si caccia, lo invita a lasciar le donne, lui risponde, affermando così la sua vera natura: “Lasciar le donne? Pazzo! Sai ch'elle per me son necessarie più del pan che mangio, più dell'aria che respiro!” Dunque si tratta di necessità primaria e questo indica uno stato di possessione e dipendenza, ancor più della droga per un drogato e di una abitudine inveterata, che, per quanto radicata, può comunque attenuarsi o correggersi. Don Giovanni è consapevole che nel rapporto con le donne si esplica la sua vera natura; il femminile è l'elemento vitale entro cui si muove e vive.
Questa assoluta necessità fa di lui un uomo sempre “sedotto”, cioè non libero (ritorneremo più avanti sul problema della libertà), ma trascinato verso di sé (se-dotto), irretito dal fascino esercitato su di lui dall'elemento femminile.

A sua volta egli fa un grande dono alle donne e questo spiega l'irresistibilità del suo fascino: esalta in ognuna, con intuito infallibile, quell'elemento particolare che la rende unica e squisitamente femminile, sì da dare l'illusione di essere finalmente e veramente colta nella propria vera essenza e valorizzata, “amata” in modo esclusivo e speciale. Il famoso catalogo, compilato con estrema solerzia da un Leporello del tutto in ammirazione delle prodezze del padrone come può prendere appunti un allievo di fronte alle lezioni di un grande maestro, testimonia il grande talento di Don Giovanni nell'esaltare in ogni donna la specifica qualità, elemento che la rende irresistibile e portatrice di una femminilità particolare e preziosa.
Egli, in realtà, fa da specchio e rivela alla donna quell'aspetto e sfaccettatura del suo fascino che nessun uomo aveva saputo cogliere e che nemmeno lei stessa conosceva, perché la quintessenza del fascino si può rivelare solo attraverso gli occhi innamorati di un altro, in un particolare stato di grazia e in consonanza con il desiderio occulto di essere riconosciuti ed amati come “unici al mondo”.

Va da sé che la fedeltà è tutt'altra cosa e, quando questa esigenza compare, Don Giovanni non può che defilarsi e deludere amaramente, proprio perché la sua specificità è il cogliere e rivelare alla donna stessa il suo particolare profumo femminile, gustandolo ovviamente per primo, ma deve subito correre attratto dagli altri innumerevoli profumi, che aspettano di essere esaltati e gustati...

Se nel catalogo leggiamo l'elenco delle sue imprese, possiamo invece vederlo direttamente all'opera in tre momenti dello spettacolo e assistere all'effetto che può fare a una donna la sua arte seduttiva, anche se in quanto a risultati lui stesso deve ammettere che sono scarsi, tanto che sembra che il “demonio si diverta d'opporsi ai piacevoli progressi”: con Zerlina nel giorno stesso del suo matrimonio, con Donna Elvira per una necessità improvvisa di recupero e con la cameriera con una languida ed irresistibile serenata, capolavoro irraggiungibile del canto di desiderio finalizzato ad accendere l'immediata risposta di qualsiasi donna... Riguardo a Donna Anna, lo vediamo già in fuga e possiamo solo intuire l'effetto che ha avuto dal successivo comportamento di lei; ma di tutte queste situazioni parleremo trattando i singoli personaggi femminili.

Che lo specifico di Don Giovanni sia accendere il desiderio, non il soddisfarlo, è evidente in tutto il suo comportamento; la sua genialità si consuma nell'approccio iniziale, nella seduzione romantica e non nella ripetitività e nella durata. Non si vanta, come lo stereotipo del maschio potente, della durata dei suoi rapporti sessuali, di come lo fa, ecc..., ma di quanti desideri accende e il suo massimo godimento è nell'inizio. Non per niente “sua passion predominante è la giovin principiante”, del tutto inesperta e pronta ad accendersi alla speranza d'amore.

Rainer Maria Rilke, poeta quanto mai raffinato nell'indagine dei moti più segreti dell'anima, dedica due brevi liriche a Don Giovanni: “L'infanzia di Don Giovanni” e “L'elezione di Don Giovanni”, entrambe del 1908. Bisogna sempre stare molto attenti a quello che scrive Rilke perché ha la visione profonda di colui al quale si rivelano squarci di verità come lampi nella notte.

Riporto “L'elezione di Don Giovanni”:
E l'angelo a lui venne e disse: Dedica
a me tutto te stesso. È questo il mio comando.
Ho bisogno di un uomo che più degli altri sappia
alle donne più dolci al suo fianco
render la vita amara. Non che tu ami meglio
(non interrompermi: tu sbagli);
pure, tu ardi, e sta scritto che tu
condurrai molte donne a quella solitudine
cui apre la via questa porta profonda. Lascia entrare
quelle che ti ho assegnate, perché crescendo vincano Eloisa
nell'altezza e nel grido.
Per il poeta dunque Don Giovanni è un eletto e un condannato allo stesso tempo, perché come tutti gli eletti, non può sfuggire al suo destino, pena il tradimento della parte più autentica e intima di sé stesso. L'angelo che arriva, come Gabriele a Maria, gli reca non un messaggio, ma un vero comando e lo marchia per sempre in un destino irrevocabile: attraverso il suo ardore condurre le donne a quella conoscenza d'amore che, proprio perché destinata a essere insoddisfatta, potrà portarle ad una raffinatezza del sentire e a quella superiorità dell'anima, cui si può accedere solo col superamento doloroso di un amore non soddisfatto nella carne, spostando il confine più in là. È questa una tematica cara a Rilke e che approfondirà soprattutto nelle grandi Elegie facendo l'elogio delle eroine d'amore non corrisposte (Eloisa, Gaspara Stampa, ecc...).

Sotto questa luce Don Giovanni, come Mefistofele per Goethe, diventa un possibile artefice dello sviluppo mistico dell'anima attraverso un inizio e un'intenzione del tutto opposti. E lui stesso è vittima di un destino non scelto ma come “comandato”, in piena possessione dell'Archetipo dunque.

2 commenti:

Christian ha detto...

Chissà se questo ampio ricorso a un archetipo assoluto per il personaggio di Don Giovanni (che pre-esisteva, certo, ma mai prima di allora era stato ritratto con tanta efficacia) non sia dovuto anche alla velocità con cui l'opera è stata realizzata. Pare che sia Da Ponte (che portava al compositore un pezzo di libretto alla volta, come un vero e proprio work in progress) sia Mozart (che a poco tempo dal debutto a teatro era ancora molto indietro con la composizione, tanto che – come abbiamo detto – scrisse l'ouverture solo uno o due giorni prima), lavorassero con frenesia e con tempi molti ristretti, lasciandosi guidare più dall'istinto che non da un progetto preciso in mente. Non stupisce dunque che si siano affidarti al mito e all'inconscio collettivo (come capita spesso ai geni che sono capaci, magari senza nemmeno rendersene conto, di esprimere e sintetizzare un concetto che è "nell'aria", estrapolandolo dai casi specifici dalla realtà che li circonda). Forse anche in questo sta il segreto di un'opera ancora moderna e attuale ai giorni nostri.


Marisa ha detto...

Sicuramente è così. Certi temi sono "nell'aria" e l'artista più ricettivo e geniale è quello che dà loro forma:"quello che urge dentro vò significando..."
E' chiaro che la personalità dell'artista deve avere una particolare affinità con lo stesso archetipo che sta emergendo, e più si rende il materiale sganciato dai fatti personali, più l'universale emerge.
Rilke ha scritto, come invasato e posseduto da un sacro fuoco, quasi tutte le grandi Elegie e i "Sonetti a Orfeo" in due sole settimane...