7 marzo 2016

La Bohème (2) - Un paesaggio dell'anima

Scritto da Marisa

Più che i vari personaggi, quello che rende particolare e indimenticabile quest'opera è l'atmosfera, lo sfondo psicologico in cui si muovono, quasi un paese dell'anima in cui i protagonisti vivono, amano, soffrono e gioiscono.

Nonostante l'indubbio fascino di Rodolfo e soprattutto di Mimì, la simpatia che si accende intorno a Marcello e la spregiudicata Musetta, la loro caratterizzazione rimane comunque stereotipata e convenzionale ed essi assumono spessore e risalto solo se contestualizzati nel particolare ambiente cultural-spirituale in cui si muovono e fanno risuonare le stesse corde di sentimento nell'ascoltatore.

Non a caso l'opera prende titolo non dal personaggio principale, come è consuetudine (Tosca, Manon Lescaut, Madama Butterfly, Turandot...), ma da un luogo non tanto geografico quanto evocativo di un certo modo di essere e che diventa sempre più mitico.

Cercherò di precisare questa visione, anche se ci muoviamo in un ambito difficile da esprimere a parole, anzi quasi impossibile perché tutto quello che è “atmosfera”, colore emotivo, sentimento indefinito, sfugge per sua natura alla precisione della parola che si trova a suo agio con i concetti, le definizioni chiare e precise, le classificazioni... Solo l'arte può fornire lo strumento adatto a catturare i paesaggi dell'anima, e tra tutte le forme artistiche – anche se la pittura ha molto da insegnarci (vedi i paesaggi in cui la natura è utilizzata soprattutto come rispecchiamento e sfondo di stati d'animo ed emozioni pure...) – la musica è sicuramente la più pertinente, proprio per la sua elusività ed immaterialità. Quindi ci troviamo nella condizione di rimandare all'opera stessa, alla bellissima musica di Puccini, il lavoro che vorremo compiere, un vero e proprio circolo vizioso: ma perché non diventi una scappatoia, forse anche una resa di coscienza, cercherò di tradurre in parole quello che sento rispetto a tale visione.

L'indubbia constatazione della profonda emozione che "La Bohème" suscita in tutti ci pone davanti alla risonanza, alla partecipazione emotiva e sentimentale che ci fa condividere qualcosa che forse potremmo chiamare “nostalgia” e che va ben oltre la triste sorte di Mimì. Questa accentua e rende in qualche modo ineluttabile e definitiva una perdita che già si preannuncia dall'inizio l'opera (la vediamo già malata appena entra in scena): la perdita dell'età della spensieratezza e di un particolare aspetto della gioventù, la stagione poetica della nostra vita. Significativamente Rodolfo la presenta agli amici come la poesia stessa ("io sono il poeta, essa la poesia...")

Ecco di cosa si tratta, dunque!

C'è un breve periodo della nostra gioventù – anche in chi non se ne accorge perché la sua parte conscia è già intrappolata nei rigidi schemi di una società che valorizza la concretezza e i progetti realisticamente indirizzati al guadagno e al conformismo – in cui indugiamo nei sogni, nelle fantasie che aprono orizzonti che si dilatano verso spazi indefiniti e sfumati, forse verso l'infinito...

È il nomadismo dell'anima, quella tensione a trascendere lo spazio troppo asfittico del proprio paese e delle convenzioni che regolano la vita degli adulti che ci stanno sotto gli occhi, il desiderio di andare “oltre”, di immaginare una vita libera da contratti e scadenze, una vita che segue altre leggi, altri valori, altri ideali... I valori e le ragioni del cuore, forse?

Come non commuoversi e non sentire una profonda nostalgia (quasi una fitta di dolore) di fronte all'adolescente che ha reso il nomadismo dell'anima la condizione stessa della sua breve esistenza poetica (il poeta dalle suole di vento!)?

Andavo, i pugni stretti nelle tasche sfondate,
ed anche il mio pastrano diventava ideale;
andavo sotto il cielo, Musa, ed ero il tuo fido;
quanti splendidi amori ho mai sognato allora!
Questi versi di Arthur Rimbaud sono tratti significativamente da una poesia intitolata “Ma bohème”, scritta quando aveva 17 anni!

Ed ancora, dalla lirica “Romanza”:
Nessuno è molto serio quand'ha diciassett'anni.
I caffè strepitanti dalle luci splendenti,
le bibite e la birra d'improvviso ti annoiano,
e allora vai a spasso per il viale dei tigli.
Dopo, si sa, si cresce e pian piano quelle tensioni, quelle speranze, quei sogni si annebbiano, si allontanano, svaniscono di fronte alla necessità di trovare un “vero” lavoro, un corso di laurea che garantisca un futuro solido, una relazione su cui poter costruire una famiglia. Si mette “la testa a posto”, insomma. Il mondo adulto, costruito sulle istituzioni, reclama i suoi diritti e spesso avviene che tutto il resto retroceda e venga come “immagazzinato” nei ricordi, o peggio ancora “esiliato” in territori ormai anestetizzati e forse definitivamente irraggiungibili...

Poi arriva un'opera come “La Bohème” e qualcosa si scioglie, qualcosa risuona e la morte di Mimì ci prende come un dolore recondito e sordo, una profonda ondata di nostalgia che vorremmo attribuire solo alla magia della musica e alla sua suggestione. E invece si tratta della nostalgia per la perdita di una parte di noi, una parte della nostra anima.

E non si tratta solo della parte “lacrimosa” e struggente, quella che, si sa (anche se si cerca di nasconderla e mimetizzarla in ogni modo dietro la spavalderia), si accompagna sempre alla serietà del sentimento giovanile; no, qui ci troviamo di fronte anche al piacere dell'amicizia genuina, quel senso cameratesco di condivisione che esprime il meglio di sé proprio all'inizio della gioventù, sprigionandosi in allegria e giocosità continue: l'autentico piacere di stare insieme perché si sente di partecipare allo stesso universo poetico, ad una visione del mondo che è la visione della propria anima.

I quattro amici, Rodolfo, Marcello, Schaunard e Colline (come i quattro evangelisti, o i moschettieri che da tre diventano quattro con D'Artagnan), significativamente si pongono come quartetto simbolico, cerchio perfetto in cui il quaternio si esprime in contrasto col mondo borghese e utilitaristico, rappresentato dal padrone di casa, il signor Benoît. Un bisogno di rispecchiamento senza quelle invidie e quei calcoli meschini che, in età adulta, sopraggiungono a corrompere ogni amicizia. Anche questo tipo di amicizia libera e disinteressata desta vaghi ricordi e rimpianti...

E poi ci sono i luoghi, adatti non solo a fare da contenitore e sfondo, ma che costituiscono parte integrante dell'opera perché sono essi stessi veri e propri stati d'animo. La soffitta, le vie affollate del Quartiere Latino con i suoi bistrot, l'osteria alle porte di Parigi dove Marcello affresca le scene di una diversa sacralità...

La soffitta: prima che diventasse una mansarda alla moda con ascensore, riscaldamento e vista mozzafiato, la soffitta della bohème parigina è un luogo vicino al cielo, poeticamente aperto alla contemplazione della luna e dei tetti, dimora di fortuna e di speranze. Il luogo simbolicamente adatto ad ospitare tutto quello che si pone in “alto”, nella sfera dell'ideale e del sogno. Punto di partenza e punto di arrivo finale di un modo di sentire e di essere che rischia di rimanere intrappolato se non trova altri orizzonti...

La strada affollata con il venditore di giocattoli e i ristorantini: luoghi della vicinanza ad un tipo di persone che nella strada trovano il loro momento di gioia e di socializzazione: la festa e la spensieratezza, teatro di giochi non sempre innocenti (vedi l'astuto stratagemma di Musetta per far pagare il conto degli amici squattrinati), momenti avulsi dal quotidiano tran-tran del lavoro e della responsabilità.

L'osteria periferica: luogo defilato, momentaneo rifugio e pausa, parentesi e breve tentativo di calarsi nella vita concreta, accettando un lavoro che è un compromesso per far fronte alle necessità materiali. Significativamente siamo in inverno, periodo di gelo e ritiro dei sogni di gloria, cornice adatta allo struggente proposito di separazione, che viene comunque rimandata alla “stagion dei fior”...

Da tutto quello che ho detto può sembrare che risalti solo una visione positiva. Ma questo è il gioco della nostalgia e del rimpianto per qualcosa che forse non c'è mai stato e che ritroviamo nell'immaginario poetico, mai nella realtà. Un grande Giorgio Caproni scrive:
Tutti i luoghi che ho visto,
che ho visitato,
ora so – ne sono certo:
non ci sono mai stato.
C'è necessariamente un rovescio della medaglia, e se qualcuno – come forse ha tentato Henri Murger, l'autore del libro cui Puccini si è ispirato e che è morto in un ricovero – vivesse anche in età adulta come i personaggi dell'opera, non può che essere relegato ai confini della vita e mancare proprio quelle promesse e speranze giovanili che la creatività esige. Perché la creatività autentica si esprime non solo nelle opere d'arte (privilegio di pochi) ma soprattutto nella propria vita, cercando sempre nuove soluzioni e nuove espressioni. Diventare adulti è difficile, ma il segreto per non banalizzarsi e inaridirsi è forse legato alla possibilità di non separarsi mai da quella breve stagione che conserva l'incanto e il profumo dei sogni.

E "La Bohème" ci guida e ce lo permette.