9 febbraio 2018

Rigoletto (6) - Padre e figlia

Scritto da Christian

Non appena Rigoletto apre la porta di casa, sembra quasi entrare in un altro mondo e per un attimo dimentica la maledizione. Oltre alla figlia, anche l'orchestra lo accoglie con una luminosità e un brio che erano del tutto assenti nella precedente scena in strada. "La bella incognita borghese" che il Duca di Mantova citava nei primissimi versi dell'opera è infatti Gilda, la figlia del buffone di corte, proveniente dalla campagna e che il padre ospita segretamente da tre mesi nella propria casa ("Già da tre lune son qui venuta / né la cittade ho ancor veduta"). Nessuno è al corrente di questa parentela. Se il Duca sa soltanto che la ragazza sui cui ha messo gli occhi abita "in un remoto calle", e che nella sua dimora "misterioso un uom v’entra ogni notte" (vale a dire Rigoletto stesso), i cortigiani – e anche, come abbiamo visto nella scena precedente, Sparafucile – pensano invece che la donna che il gobbo custodisce gelosamente sia una sua amante.

Il rapporto con il padre, quasi sempre in chiave fortemente conflittuale, è un tema centrale nelle opere di Giuseppe Verdi: basti pensare, fra le tante, a "La traviata", ad "Aida", a "La forza del destino". Spesso i padri sono gli autentici villain di tali opere, coloro che ostacolano le aspirazioni o la storia d'amore dei protagonisti, anche quando sono mossi da buone intenzioni. Forse non a caso, una figura paterna ha avuto un'enorme importanza nella vita dello stesso Verdi: non parliamo del suo padre naturale, Carlo, oste, contadino e piccolo commerciante al quale il figlio non è stato mai particolarmente legato, quanto di quello d'adozione, Antonio Barezzi, mecenate del compositore nonché padre della sua prima moglie Margherita, che tuttavia disapprovò fortemente il suo successivo legame con Giuseppina Strepponi.

Nel "Rigoletto", però, è proprio il padre il protagonista dell'opera. E fra i numerosi tratti negativi del personaggio, fisici (la deformità) e morali (la crudeltà), lo smisurato amore per la figlia ("Oh, quanto amore, padre mio!", commenta la stessa Gilda) e il sentimento "umano e protettivo" della paternità contribuiscono a riscattarlo almeno in parte, caratterizzandolo in chiave positiva. Solo fino a un certo punto, però: da un lato, la gelosia e le precauzioni che lo portano a isolare la figlia affinché non sia esposta ai pericoli del mondo esterno, facendola sorvegliare dalla domestica Giovanna e lasciando che esca di casa solo per recarsi in chiesa ("al tempio"), sembrano eccessive. Proprio queste precauzioni lasceranno Gilda in uno stato di ingenuità tale da farla cadere facilmente preda delle lusinghe del Duca. Dall'altro lato, l'affetto per Gilda rende ancora più odioso il suo atteggiamento precedente nei confronti di Monterone, che a sua volta intendeva difendere l'onore della propria figlia. Alcune interpretazioni del personaggio lasciano intendere che quello di Rigoletto per Gilda non sia vero amore, ma un rapporto unilaterale e di puro egoismo ("Mia vita sei! Senza te in terra qual bene avrei?"). Sicuramente non mancano indizi in questo senso (il musicologo Michele Girardi fa notare come fra padre e figlia, anche nel loro duetto, in realtà non c'è un vero dialogo: "nel loro primo incontro egli mostra tutta la sua preoccupazione per la precarietà del loro destino, le riversa addosso tutto l’affetto di cui è capace, e le fornisce, non senza esitazioni, qualche scarna informazione su un passato che par quasi non esistere, perché annullato nel presente, l’unico tempo che sembri contare qualcosa per lui".

Rigoletto si trasforma in mostro davanti al precipitare degli eventi o è già un mostro di per sé? Nei primi decenni del Novecento i baritoni di ceppo belcantistico (Mattia Battistini prima, i suoi numerosi epigoni poi) hanno rigettato quest’ipotesi: l’eventualità che, dietro la facciata dell’amore paterno, quello con Gilda fosse un rapporto egoistico e patologico («Mia colomba… lasciarmi non dêi… / Se t’involi… qui sol rimarrei…») non era presa in considerazione. La raffigurazione violenta – inevitabile corollario d’una vocalità ciclopica – di Titta Ruffo ha poi aperto una nuova prospettiva: nelle generazioni successive più d’un grande interprete ha preferito vedere in Rigoletto il «vil scellerato» di "Pari siamo", e in quella cavalcata a precipizio verso il male che è "Sì, vendetta" la vera epitome del personaggio, piuttosto che una figura all’ultimo stadio della degradazione ma con un’ineliminabile nobiltà di fondo. E che oggi si torni verso un Rigoletto “belcantista”, sia pure aggiornato rispetto al gusto battistiniano, rientra in una normale dialettica di corsi e ricorsi. La chiave di volta, probabilmente, sta in quella frase nevralgica che è «Ma in altr’uom qui mi cangio», dove Rigoletto commenta la propria metamorfosi da criminoso pagliaccio a genitore che cerca rifugio tra le mura domestiche (una trasformazione sottolineata anche dalla scrittura vocale, con il passaggio di registro, all’attacco della frase, dal Si naturale al Mi). È proprio questo “altro uomo” che, almeno in parte, viene a mancare nelle interpretazioni più sensibili agli impulsi negativi del personaggio; ma in questa bipolarità tra crudezza espressiva d’un recitar cantando che esalta l’aspetto mostruoso del buffone, da un lato, e armamentario canoro del baritono grand seigneur che sfuma i momenti più scabri attraverso il proprio aplomb vocalistico, dall’altra, non è sempre facile schierarsi con le ragioni del belcanto.
(Paolo Patrizi)
Dopo aver chiesto inutilmente al padre informazioni su di lui e sul suo lavoro, Gilda lo interroga a proposito della propria madre ("Se non di voi, almen chi sia / fate ch’io sappia la madre mia"). Anche su questo punto il gobbo è reticente (e l'argomento rimane così ignoto anche a noi spettatori), limitandosi a comunicare il proprio dolore per averla perduta. Persino in questo caso, però, il dolore è venato di egoismo per aver perso l'unica donna che aveva saputo avere pietà di lui:
Deh, non parlare al misero
del suo perduto bene.
Ella sentia, quell’angelo,
pietà delle mie pene.
Solo, difforme, povero,
per compassion mi amò.
Gilda prova a consolarlo, ma torna anche a chiedegli di parlarle di sé ("Il nome vostro ditemi, / il duol che sì v’attrista"). Rigoletto rifiuta ancora, anche se notiamo come torni a citare la maledizione ("Altri mi maledicono..."). E poi ribadisce: "Il mio universo è in te!". Preoccupato che qualcuno possa seguirla, rapirla o "disonorarla", raccomanda ancora una volta alla figlia di non uscir mai di casa. E infine ordina alla domestica, Giovanna, di sorvegliarla continuamente ("Veglia, o donna, questo fiore / che a te puro confidai"). Il gobbo ignora però che proprio Giovanna, dietro compenso, intende facilitare gli incontri di Gilda con un misterioso giovane che si rivelerà essere il Duca.
Quella sezione del duetto è intrisa di una tragica ironia: la raccomandazione alla serva corrotta, intonata con voce soave quale in nessun altro momento dell’opera gli sentiremo, suona come il più cupo presagio del Rigoletto-padre, che sa già dentro di sé che perderà la figlia.
(Michele Girardi)
"Veglia, o donna" è stato per decenni dimidiato nella prassi esecutiva (cantato cioè solo nella sua seconda esposizione a due voci, sia pure su parole diverse, con il soprano, negando al baritono la prima esposizione solistica), appunto in un’ottica volta a minimizzare quanto di soffice e affettuoso si trova nella vocalità di Rigoletto; e tuttavia il "Veglia, o donna" preziosamente centellinato, atto a far delibare smorzature e rallentandi, è a sua volta un arbitrio che imprime un tempo più lento di quello previsto da Verdi, togliendo al brano quella carica di ansia che, dietro la facciata dell’affettuosità, lascia trapelare tutte le patologie del protagonista.
(Paolo Patrizi)
Durante il toccante duetto fra Rigoletto e Gilda, il Duca di Mantova ("in costume borghese") si avvicina alla casa, e spiando viene a conoscenza del fatto che la ragazza è figlia del gobbo. Questi, cui è parso di udire un rumore, si insospettisce ed esce a guardare fuori sulla strada. Il Duca approfitta proprio di questo momento per entrare in cortile, nascondendosi dietro un albero (non prima di aver gettato una borsa di denaro alla compiacente Giovanna). Rigoletto saluta la figlia e si allontana, raccomandando nuovamente alla serva di non aprire la porta di casa a nessuno ("Nemmeno al Duca?" "Non che ad altri a lui").

Clicca qui per il testo.

RIGOLETTO
(Apre con chiave ed entra nel cortile. Gilda esce dalla casa e si getta nelle sue braccia.)
Figlia!

GILDA
Mio padre!

RIGOLETTO
A te d’appresso
trova sol gioia il core oppresso.

GILDA
Oh, quanto amore, padre mio!

RIGOLETTO
Mia vita sei!
Senza te in terra qual bene avrei?
Ah, figlia mia!

GILDA
Voi sospirate! che v’ange tanto?
Lo dite a questa povera figlia.
Se v’ha mistero, per lei sia franto:
ch’ella conosca la sua famiglia.

RIGOLETTO
Tu non ne hai.

GILDA
Qual nome avete?

RIGOLETTO
A te che importa?

GILDA
Se non volete
di voi parlarmi...

RIGOLETTO (interrompendola)
Non uscir mai.

GILDA
Non vo che al tempio.

RIGOLETTO
Oh, ben tu fai.

GILDA
Se non di voi, almen chi sia
fate ch’io sappia la madre mia.

RIGOLETTO
Deh, non parlare al misero
del suo perduto bene.
Ella sentia, quell’angelo,
pietà delle mie pene.
Solo, difforme, povero,
per compassion mi amò.
Morìa... Le zolle coprano
lievi quel capo amato.
Sola or tu resti al misero...
O Dio, sii ringraziato!

GILDA (singhiozzando)
Oh quanto dolor! che spremere
sì amaro pianto può?
Padre, non più, calmatevi...
Mi lacera tal vista.

RIGOLETTO
Tu sola resti al misero, ecc.

GILDA
Il nome vostro ditemi,
il duol che sì v’attrista.

RIGOLETTO
A che nomarmi? è inutile!
Padre ti sono, e basti.
Me forse al mondo temono,
d’alcuno ho forse gli asti.
Altri mi maledicono...

GILDA
Patria, parenti, amici
voi dunque non avete?

RIGOLETTO
Patria! parenti! amici!
Culto, famiglia, la patria,
il mio universo è in te!

GILDA
Ah, se può lieto rendervi,
gioia è la vita a me!

RIGOLETTO
Culto, famiglia, ecc.

GILDA
Già da tre lune son qui venuta
né la cittade ho ancor veduta;
se il concedete, farlo or potrei...

RIGOLETTO
Mai! mai! Uscita, dimmi, unqua sei?

GILDA
No.

RIGOLETTO
Guai!

GILDA (da sé)
Ah! Che dissi!

RIGOLETTO
Ben te ne guarda!
(da sé)
Potrien seguirla, rapirla ancora!
Qui d’un buffone si disonora
la figlia e se ne ride... Orror!
(forte)
Olà?
(Giovanna esce dalla casa.)

GIOVANNA
Signor?

RIGOLETTO
Venendo mi vede alcuno?
Bada, di’ il vero.

GIOVANNA
Oh, no, nessuno.

RIGOLETTO
Sta ben. La porta che dà al bastione
è sempre chiusa?

GIOVANNA
Ognor si sta.

RIGOLETTO
Bada, di’ il ver.

Ah, veglia, o donna, questo fiore
che a te puro confidai;
veglia, attenta, e non fia mai
che s’offuschi il suo candor.
Tu dei venti dal furore
ch’altri fiori hanno piegato,
lo difendi, e immacolato
lo ridona al genitor.

GILDA
Quanto affetto! quali cure!
Che temete, padre mio?
Lassù in cielo presso Dio
veglia un angiol protettor.
Da noi stoglie le sventure
di mia madre il priego santo;
non fia mai disvelto o franto
questo a voi diletto fior.

(Il Duca in costume borghese viene dalla strada.)

RIGOLETTO
Ah, veglia, o donna, questo fiore
che a te puro confi...
Alcun v’è fuori!
(Apre la porta della corte e, mentre esce a guardar sulla strada, il Duca guizza furtivo nella corte e si nasconde dietro l’albero; gettando a Giovanna una borsa la fa tacere.)

GILDA
Cielo!
Sempre novel sospetto!

RIGOLETTO (a Giovanna tornando)
Alla chiesa vi seguiva mai nessuno?

GIOVANNA
Mai.

DUCA (da sé)
Rigoletto!

RIGOLETTO
Se talor qui picchian,
guardatevi d’aprire...

GIOVANNA
Nemmeno al Duca?

RIGOLETTO
Non che ad altri a lui.
Mia figlia, addio.

DUCA (da sé)
Sua figlia!

GILDA
Addio, mio padre.

RIGOLETTO
Ah! veglia, o donna, ecc.
Figlia, addio!

GILDA
Oh, quanto affetto! ecc.
Mio padre, addio!
(S’abbracciano e Rigoletto parte chiudendosi dietro la porta. Gilda, Giovanna e il Duca restano nella corte.)




Ingvar Wixell (Rigoletto), Edita Gruberova (Gilda)
dir: Riccardo Chailly (1983)


Renato Bruson (Rigoletto), Andrea Rost (Gilda)
dir: Riccardo Muti (1994)


"Figlia!" - Mio padre!", "Deh, non parlare al misero"
Piero Cappuccilli, Ileana Cotrubas (1980)


"Deh, non parlare al misero"
Titta Ruffo, Maria Galvany (1912)


"Veglia, o donna"
Tito Gobbi, Maria Callas (1955)

"Veglia, o donna"
Sherrill Milnes, Joan Sutherland (1971)